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Giù le mani da Li Wenliang!

Giù le mani da Li Wenliang!

Con piacere vi presentiamo questo articolo di Andrea Virga su caso di Li Wenliang, il medico cinese la cui morte è stata strumentalizzata in Occidente con l’obiettivo di accusare la Cina di numerosi errori e lacune sul caso Covid-19, ma la cui storia è qui raccontata in maniera oggettiva.

È una banalità affermare che la pandemia da Covid-19 abbia portato sotto i riflettori mediatici gli sforzi e i sacrifici compiuti in primo luogo dalle professioni sanitarie – medici e infermieri in primis –, che in tutto il mondo hanno pagato e stanno pagando un prezzo elevato in termini di fatica e vite umane. Questo vale, al netto delle critiche e delle problematiche riguardanti il ruolo dei tecnici nell’influenzare e determinare le decisioni politiche, allo stesso modo in cui in un conflitto bellico l’operato, spesso discutibile, dei generali non deve far dimenticare le sofferenze e gli sforzi dei soldati al fronte. Tra i tanti medici caduti in questa dura lotta, uno dei più famosi è il cinese Li Wenliang.

Il suo caso è diventato particolarmente famoso per la sua presunta azione di “whistleblowing rispetto alla censura imposta dal governo cinese. Tuttavia, i fatti accertati mostrano una realtà ben diversa rispetto alle narrazioni interessate che hanno prevalso in Occidente, e che contribuisce a spiegare la realtà cinese, che è ben diversa dalle democrazie liberali, ma anche dai classici totalitarismi novecenteschi. Questo dipende anche dalla pervasività dei moderni mezzi di comunicazione che consentono una circolazione delle informazioni e dei dati, fino a pochi decenni fa impensabile. Le informazioni che seguono sono ampiamente circolate non solo sulle reti sociali, ma anche sia sui media cinesi.

Li Wenliang (李文亮) era nato il 12 ottobre 1986, a Beizheng, nella provincia di Liaoning, nel sud della Manciuria. Apparteneva al popolo manciù, terzo per popolazione tra le 55 comunità etniche riconosciute in Cina, e noto per aver espresso l’ultima dinastia imperiale, i Qing. Dopo aver superato il temibile gaokao con ottimi voti, aveva ottenuto l’ammissione alla Scuola di Medicina dell’Università di Wuhan, una delle prime 10-15 università in Cina. Al secondo anno di università, aveva ottenuto l’ammissione al Partito Comunista Cinese, a riprova della sua preparazione e della sua determinazione, oltre che della sua coscienza politica. Basti pensare che, nel 2014, su 22 milioni di candidati, ne erano stati accettati solo 2 milioni.

Dopo la laurea, si era specializzato in oftalmologia a Xiamen, e poi aveva iniziato a lavorare come oftalmologo all’Ospedale Centrale di Wuhan. Non era quindi uno specialista virologo, ma il 30 dicembre 2019 (il giorno successivo, la Cina avrebbe comunicato all’OMS la presenza di un focolaio di polmonite (per cause ancora ignote) a Wuhan aveva letto un rapporto, proveniente da Ai Fen, direttrice del dipartimento d’emergenza, che attestava la presenza di casi di SARS. Quindi aveva diffuso la voce sul gruppo WeChat dei suoi compagni d’università: «Ci sono 7 casi confermati di SARS al Mercato del Pesce di Huanan», allegando la foto e il video del rapporto, ma precisando: «Non fate circolare l’informazione fuori da questo gruppo. Dite alla vostra famiglia e ai vostri cari di prendere precauzioni». Come sempre accade in questi casi, la sua richiesta era stata ben presto disattesa e la schermata aveva iniziato a circolare in Internet.

Di conseguenza, era stato rimproverato dalle autorità ospedaliere, e poi, il 3 gennaio, convocato dalla Polizia municipale. Li (come altri medici) aveva ricevuto un’ammonizione scritta per aver «diffuso affermazioni false su internet» e «disturbato gravemente l’ordine sociale». Il documento proseguiva, con paternalismo confuciano: «L’autorità di polizia spera che tu possa cooperare con il nostro lavoro, ascoltare l’ammonimento degli agenti di polizia e smettere di condurre attività illegali. Sei in grado di farlo? […] Ti consigliamo di calmarti e riflettere attentamente. Ti avvisiamo severamente: se sarai testardo, non mostrerai pentimento e continuerai a condurre attività illegali, sarai punito dalla legge. Comprendi?». Dopo aver risposto affermativamente e firmato l’ammonimento, Li aveva potuto tornare al lavoro, senza alcuna sanzione ulteriore. L’8 gennaio, visitando un paziente afflitto da glaucoma, aveva contratto il Covid-19 e dopo quattro giorni era stato ricoverato e messo in quarantena. [

Nel frattempo, anche a causa dell’esplosione della pandemia, il caso di Li e di altri medici, ammoniti per lo stesso motivo, era stato riesaminato. Il 4 febbraio, la Corte Suprema del Popolo, massima autorità giudiziaria, si era espressa a loro favore, sostenendo che le loro affermazioni non erano del tutto false e che, anzi, col senno di poi, sarebbero state di pubblico beneficio. Il medico cinese aveva commentato positivamente questo responso, ma già il giorno dopo la sua situazione si era aggravata. Il giorno successivo era stato trasferito in rianimazione, ma senza successo, morendo poche ore dopo, la mattina del 7 febbraio. Ha lasciato una vedova (incinta) e un figlio piccolo.

Al momento della sua morte, che ha avuto ampia copertura mediatica, Li Wenliang, era già diventato una figura popolare presso il pubblico cinese. Nei mesi successivi, la polizia locale si è scusata con la famiglia, e gli agenti responsabili sono stati a loro volta puniti.Insieme agli altri medici morti durante l’epidemia, è stato celebrato come un martire dalle autorità cinesi.

Da questa storia, emergono numerose riflessioni, a partire da come la figura di Li sia stata completamente travisata: non era un “whistleblower”, né tanto meno un oppositore anti-regime. La sua leggerezza nel rivelare, sia pure a pochi amici, informazioni riservate era stata inizialmente rimproverata, ma poi pienamente e rapidamente riabilitata al seguito del mutare degli eventi. La pressione popolare ha sicuramente giocato a suo favore, confermando l’esattezza della locuzione «leninismo responsivo» o «autoritarismo responsivo», usata per descrivere la sensibilità del governo cinese verso gli input provenienti dalla popolazione.

D’altra parte, la propaganda anticinese ha mostrato ancora una volta la sua ipocrisia, se consideriamo che anche in Occidente vi sono norme che puniscono questo tipo di condotta. Ad esempio, in Italia, l’art. 656 C.P., punisce la «pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico» con l’arresto fino a tre mesi, ma l’art. 326 C.P. minaccia il pubblico ufficiale che «rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete» di reclusione da sei mesi a tre anni. Non parliamo poi dell’isteria mediatica che ormai circonda le cosiddette fake news, vere o presunte.

In ogni caso, il compagno (同志) comunista Li Wenliang, non avrebbe certo voluto essere strumentalizzato dai nemici della sua Patria. E l’Occidente, che sta perseguitando da anni (tra i tanti) Assange e Manning, dovrebbe avere il buongusto di non farne una sua bandiera.

Nato a Casale Monferrato (1987), ha studiato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (2006-2011), laureandosi all’Università di Pisa in Filosofia (2009) e in Storia e Civiltà (2013). Dal 2013 è dottorando in Political History presso IMT School for Advanced Studies Lucca. Nel corso degli anni, ha condotto studi e ricerche all’estero in Germania (TU Dresden, FU Berlin, Ibero-Amerikanische Institut), Francia (ENS-LHS Lyon), Spagna (Instituto de Historia CCHS-CSIC), Brasile e Cuba (Universidad de la Habana). Ha scritto numerosi articoli e saggi per pubblicazioni cartacee e virtuali, occupandosi prevalentemente di storia e cultura dei nazionalismi nel XX secolo.

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