Giuseppe Montezemolo, partigiano e martire delle Fosse Ardeatine
Il 24 marzo 1944 andò in scena l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Per commemorare la tragica strage è doveroso ricordare una delle più note vittime del massacro nazista: il partigiano azzurro Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
Classicamente, nella storiografia italiana riguardante la Resistenza, questa è suddivisa in cinque colori: i partigiani rossi, emanazione del Partito Comunista Italiano, che rappresentavano la parte politica e militare preponderante; i partigiani bianchi che si richiamavano al cattolicesimo popolare, di cui ricordiamo le Fiamme Verdi nell’Appennino parmense, la Brigata Osoppo in Friuli Venezia Giulia e le Brigate del Popolo; i partigiani gialli, di matrice azionista, per le Brigate Giustizia e Libertà; i partigiani arancioni delle Brigate Matteotti, legate al PSI; e infine i partigiani azzurri, di ispirazione monarchica e conservatrice. Questi ultimi erano composti da membri del Regio Esercito e dei Regi Carabinieri che, a seguito dell’8 settembre del 1943 decisero di non prestare giuramento alla RSI, riconoscendo come governo legittimo solo quello del Regno del Sud a Brindisi.
Tutti i gruppi avevano come obiettivo primario la Liberazione d’Italia dall’occupazione tedesca e la fine della RSI, ma i rapporti tra loro non furono sempre semplici a causa delle differenti visioni politiche di fondo e degli scopi ulteriori che ogni colore si prefiggeva e che derivavano dalle convinzioni politiche e dalle ideologie: rivoluzione, socialdemocrazia, stato democratico liberale (preferibilmente repubblicano), restaurazione della monarchia costituzionale. La collaborazione fu molta ma si videro anche episodi di contrasto (come il tragico eccidio di Porzus) ma questi non tolgono nulla ad un fenomeno come la Resistenza che fu interclassista e intergenerazionale.
Probabilmente la preponderanza della parte rossa ha opacizzato nel dibattito pubblico il contributo delle altre componenti, in special modo di quella azzurra. I motivi sono molteplici: gli azzurri erano più compromessi col regime fascista, avevano fatto la guerra a fianco dei tedeschi e infine uscirono sconfitti sul fronte interno nel referendum del 1946, che vide la fine del Regno di casa Savoia. E pure anche costoro, come dimostra l’esempio che ci accingiamo a narrare, contribuirono alla Liberazione.
Il Ritratto della settimana va dunque al partigiano azzurro Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, concludendo così, dopo Varazashvili e Donè, un ideale trittico partigiano.
Montezemolo nacque il 26 maggio 1901 da una famiglia di media nobiltà di Mondovì ma di antica tradizione militare: il padre Demetrio era Generale di Brigata e la madre Luisa Dezza era figlia del Generale e Senatore del Regno Giuseppe Dezza. A soli 18 anni non stupisce dunque che si fosse arruolato come volontario nel 3° Reggimento Alpini, combattendo sui Monti Lessini e guadagnandosi il grado di caporale. Al termine del conflitto mondiale continuò la sua carriera nel Genio, classificandosi primo al corso speciale per ufficiali di complemento all’Accademia di Torino. Congedatosi come sottotenente nel 1920, intraprese gli studi universitari laureandosi in ingegneria civile al Politecnico di Torino nel 1923. Rientrato nell’esercito l’anno seguente, ottenne il grado di Capitano nel 1° Reggimento del Genio Ferroviario e sempre nel 1928 divenne professore alla Scuola di applicazione di Artiglieria e Genio, insegnando scienza delle costruzioni. Nel 1924 aveva intanto sposato Amalia “Juccia” Dematteis, la figlia del medico di famiglia dei Montezemolo. Fu un matrimonio felice da cui nacquero 5 figli: Manfredi, Andrea, Lydia, Ysolda e Adriana.
Da buon monarchico, il suo appoggio al fascismo in quegli anni fu pieno: nel 1930 passò dal Genio Ferroviario all’Aeronautica, nel 1935, ormai alla vigilia scura della guerra in Etiopia, divenne addetto allo Stato Maggiore, nell’Ufficio Servizi e nel 1937 partì volontario per la Spagna, per combattere i “rossi” diventando Tenente Colonnello e comandando il battaglione Telegrafisti prima e la Brigata Frecce Nere poi. Fu impiegato principalmente nella parte tecnica logistica date anche le numerose opere didattiche e tecniche da lui pubblicate. Venne anche decorato con la Croce di Guerra al Valor Militare.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale tornò allo Stato Maggiore e venne inviato in Africa Settentrionale, fu promosso colonnello, fu decorato e di fatto svolgeva anche la funzione di mediatore tra il Capo di Stato Maggiore Ugo Cavallero (1940-1943) e Erwin Rommel. In questi anni, come tutto l’ambiente legato alla Corona, iniziò a maturare una profonda disillusione nel confronti del fascismo e di Mussolini, soprattutto dopo aver presenziato come interprete all’incontro tra il Duce e Hitler a Feltre il 19 luglio 1943. Decise pertanto di prendere parte attiva nella destituzione di Mussolini: fu lui infatti a ritirare le carte del Duce nel suo Ufficio a Palazzo Venezia a seguito del 25 luglio. Seguendo dunque le direttive di Badoglio fu designato suo segretario speciale e poi comandante del Genio motocorazzato. All’armistizio dell’8 settembre, non fuggì al sud con la corte e il governo, ma restò a Roma, con il genero del Re, il generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, dirigendo gli Affari Civili e facendo parte della delegazione che trattò con Kesserling il cessate il fuoco per la costituzione di Roma Città-Aperta, il 10 settembre. Tredici giorni dopo, con il pretesto di alcune aggressioni subite dalle truppe tedesche, i nazisti posero fine all’esperimento, arrestarono Calvi e costrinsero Montezemolo alla clandestinità (tra l’altro si era rifiutato di prestare giuramento alla RSI)
Qui inizia la storia di Montezemolo come membro della Resistenza. Svestì la divisa, si procurò documenti falsi (prima ingegner Giacomo Cateratto, poi professor Giuseppe Martini e il 10 ottobre ristabilì i contatti con Brindisi, concordando col governo la formazione del Fronte Militare Clandestino, col compito di organizzare e coordinare le formazioni partigiane romane e del centro Italia. Riunì molti soldati datisi alla macchia dopo l’8 settembre e grazie ai contatti con il Servizio Segreto Militare dava informazioni agli Alleati, venne stabilito un regolare centro radio e i 12000 uomini raccolti vennero inseriti nelle aliquote delle Forze Armate. Oltre a informazioni politiche e militari di rilievo sulla situazione di Roma, che ormai era divenuta una retrovia militare tedesca, l’opera del FMC si dispiegava nella sottrazione di uomini alla leva della RSI, al sabotaggio delle reti stradali, ferroviarie e telefoniche, agli scontri armati fuori Roma, al salvataggio di molti ebrei e al coordinamento delle bande partigiane di diverso colore, istaurando un rapporto di costante collaborazione con i partiti componenti il CLN e assumendo il ruolo di Comandante Supremo della Giunta Militare del Comitato di Liberazione. In particolare l’intesa fu raggiunta con Giorgio Amendola, malgrado Montezemolo fosse fervente anticomunista e nonostante che lo FMC avesse come obiettivo l’occupazione dei nodi strategici del Roma in caso di arrivo Alleato o ritirata dell’Asse, prima di altre bande partigiane non monarchiche, ponendosi in diretta competizione coni GAP. La Direttiva 333/op da lui emanata il 10 dicembre del 1943, per l’organizzazione e la condotta della guerriglia, al punto 9, conoscendo bene la mancanza di scrupoli dei tedeschi verso la popolazione civile, stabiliva che le azioni di guerriglia dovessero tenersi fuori dalla città. Anche questo in contrasto con la strategia di altre bande partigiane. Il fine era mantenere il più possibile l’ordine pubblico per consegnare la città a Badoglio e al Re, un fine decisamente non condiviso dalle altre componenti della Resistenza, in gran parte espressione della militanza di sinistra.
Herbert Kappler gli dava personalmente la caccia e riuscì a prenderlo il 25 gennaio del 1944, poco dopo lo sbarco alleato ad Anzio. Lo catturò su delazione dopo una riunione del comando del FMC, rinchiudendo lui ed altri nelle carceri delle SS di via Tasso per 58 giorni.
Chi tradì Montezemolo? Una prima ipotesi (De Carolis) è che a tradirlo furono altri partigiani azzurri, se non anche il governo stesso, che non vedevano di buon occhio la sua collaborazione con i comunisti e temevano una giunzione tra FMC e GAP. Secondo altri (Pisanò) fu il servizio segreto nazifascista a scovarlo già tempo prima ma fu lo sbarco di Anzio a renderlo pericoloso e a far propendere Kappler per la cattura. Infine una terza ipotesi (Finetti e Corrias) ascrive la delazione alla parte più estremista dei comunisti, essendo l’accordo tra Amendola e Montezemolo fortemente avversato. La prima ipotesi, pur con altri connotati, ha acquisito maggior consistenza quando venne scoperto un carteggio tra Kappler e il suo avvocato Tullio Mango in cui il comandane delle SS che cercava senza successo Montezemolo riuscì a prenderlo grazie al monarchico direttore di “Italia Nuova” Enzo Selvaggi, anche lui membro della Resistenza, che interrogato per 4 ore, ottenne la libertà rivelando gli spostamenti del comandante del FMC (informazione riportata nel libro “Il Partigiano Montezemolo” di Mario Avagliano edito nel 2012).
Imprigionato e seviziato per 58 giorni affinché rivelasse informazioni, tacque e anzi riuscì ancora a passarne dal carcere tramite bigliettini nascosti nella biancheria. I tedeschi sapevano il suo valore come prigioniero e all’inizio pensarono di usarlo come moneta di scambio, una ipotesi a cui lo stesso Badoglio però non diede seguito. Cercarono di liberarlo i comunisti e fece un tentativo anche il Vaticano con Pio XII e monsignor Montini.
La sua prigionia durò fino all’attentato di via Rasella, a seguito del quale Kappler ordinò la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Tra i 335 morti fu Kappler stesso ad inserire il suo nome. Dopo la liberazione gli venne conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare e alla Memoria. Di lui rimane l’elogio che Harold Alexander fece alla moglie Amalia in una lettera ne riconosceva il fondamentale apporto e ne lodava la lealtà e il sacrifico. La sua salma venne sepolta poi al Monumentale di Torino.
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