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I nemici esterni della democrazia iraniana

Mentre le proteste contro la Repubblica Islamica vengono represse dal governo che non accenna a diminuire la pressione, al di fuori del paese permangono attori che non auspicano la nascita di un Iran democratico e autonomo rispetto all’influenza di altre potenze. Su tutti la destra conservatrice israeliana, tornata al potere con Netanyahu, alla quale si aggiungono i falchi della politica USA, i sauditi e persino gli “alleati” Cina e Russia.

I nemici esterni della democrazia iraniana

Mentre le proteste contro la Repubblica Islamica vengono represse dal governo che non accenna a diminuire la pressione, al di fuori del paese permangono attori che non auspicano la nascita di un Iran democratico e autonomo rispetto all’influenza di altre potenze. Su tutti la destra conservatrice israeliana, tornata al potere con Netanyahu, alla quale si aggiungono i falchi della politica USA, i sauditi e persino gli “alleati” Cina e Russia. 

La crisi iraniana non accenna a concludersi. Il paese ha vissuto sei mesi di proteste ininterrotte seguite alla morte della giovane iraniana di origini curde Mahsa Jina Amini. La repressione del governo di Teheran ha causato più di 500 morti, altrettanti feriti e ha portato all’arresto di 20,000 persone, in parte rilasciate dopo l’amnistia voluta dalla Guida Suprema Ali Khamenei per celebrare l’anniversario della rivoluzione del 1979. Nonostante nell’ ultimo mese vi sia stato un calo nell’ intensità delle proteste il malcontento della popolazione non accenna a diminuire.

In parallelo al clima di tensione politica peggiorano anche le condizioni dell’economia iraniana: l’inflazione ha raggiunto i picchi storici degli anni novanta, il valore della valuta iraniana, il rial, sta precipitando in rapporto al dollaro, mentre si alzano sempre più i prezzi dei beni di consumo.

La repressione da parte degli apparati di polizia e la gestione dell’economia non sono però l’unica minaccia alle aspirazioni democratiche degli iraniani. Successivamente alla rivoluzione islamica del 1979 il paese è stato sottoposto ad un regime di sanzioni da parte degli Stati Uniti come conseguenza delle azioni compiute dal governo iraniano, che dopo la deposizione dello scià Muhammad Reza Pahlavi passò nelle mani dei religiosi sciiti guidati dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini. 

La crisi diplomatica tra i due paesi continua ancora oggi, ravvivata dal ricordo di eventi drammatici come la crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran e la successiva guerra tra Iran e Iraq, in cui gli americani sostennero apertamente Saddam Hussein. L’episodio più recente è stato la morte di Qassem Soleimani, comandante della Forza Quds iraniana, ucciso dagli americani a Baghdad nel 2020. 

La strategia di pressione degli USA sull’Iran non ha colpito solamente le capacità offensive iraniane ma ha anche danneggiato pesantemente l’economia della nazione, con ricadute pesanti sul tenore di vita della popolazione, che nel corso del tempo è diventata sempre più dipendente dagli aiuti statali; la precarietà delle condizioni di vita degli iraniani potrebbe inoltre aver influenzato la capacità dei cittadini di mobilitarsi in opposizione alle politiche del governo, ad esempio rendendo più difficile organizzare grandi scioperi di massa. 

Il paese si trova quindi sottoposto sia alla repressione interna degli apparati di sicurezza della Repubblica Islamica sia a quella esterna delle sanzioni e delle operazioni ostili degli Stati Uniti e dei loro alleati, in particolare Israele e Arabia Saudita. Un clima non esattamente favorevole alla nascita di un movimento democratico in grado di rovesciare il governo khomeinista che può avvalersi di un apparato di sicurezza molto più poderoso di quello dello scià, con una forte presa sulla società iraniana, grazie all’evoluzione tecnocratica ed imprenditoriale del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, la principale forza militare iraniana post-rivoluzionaria.

L’Iran è quindi un paese circondato da avversari che non esitano a colpire la popolazione civile e ad usarla come arma nella loro battaglia contro i khomeinisti al potere, rendendo però più complicata la nascita di un movimento autenticamente democratico.

Il nemico alle porte

L’obiettivo dichiarato di Israele è quello di impedire all’Iran di ottenere l’arma atomica che secondo Tel Aviv costituirebbe una potenziale minaccia all’esistenza stessa dello stato ebraico. Nonostante il continuo utilizzo di un linguaggio esplicitamente antisionista da parte degli esponenti della Repubblica Islamica, l’Iran non ha mai affermato di voler dotarsi di un ordigno nucleare; l’uso di armi atomiche, chimiche o biologiche era considerato non islamico da parte di Khomeini che si espresse con una fatwa in materia, rinforzata da una più recente disposizione specifica della Guida Suprema Khamenei contro la realizzazione e l’utilizzo di simili armamenti. 

Sin dagli anni novanta i politici israeliani hanno denunciato la minaccia del programma nucleare iraniano, nonostante lo scetticismo dei loro alleati atlantici. Il problema esplose nel 2002 quando un’organizzazione dell’opposizione iraniana rivelò l’esistenza dei siti nucleari segreti di Natanz e Arak, probabilmente grazie ad una soffiata proprio del Mossad israeliano. Successivamente un rapporto congiunto degli apparati d’intelligence statunitensi del 2007 escluse l’ipotesi che Teheran stesse progettando di realizzare armi atomiche. Negli ultimi anni, dopo l’uscita degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) siglato a Vienna nel 2015, l’Iran ha cominciato ad avvicinarsi pericolosamente alla soglia di arricchimento dell’uranio necessaria a produrre un ordigno nucleare. Lo ha confermato recentemente il direttore della CIA William Burns in un’intervista alla CBS, ribadendo però che nonostante i progressi raggiunti da parte degli iraniani siano preoccupanti, non risulta che i vertici della Repubblica Islamica abbiano ancora preso la decisione definitiva riguardo al dotarsi o meno di armi atomiche. In Israele il più fervente tra gli oppositori dell’accordo sul nucleare è il primo ministro conservatore Benjamin Netanyahu, tornato alla guida del paese nel dicembre del 2022. Uno dei momenti più iconici della sua campagna contro il JCPOA fu il discorso alle Nazioni Unite nel 2012 in cui premier Israeliano si presentò sul palco con il disegno di una bomba pronta ad esplodere per simboleggiare la minaccia nucleare iraniana. 

Bisogna considerare che Israele, a differenza dell’Iran, ha rifiutato di entrare a far parte del trattato di non proliferazione  nucleare (NPT) e possiede già un suo arsenale non dichiarato. Lo stato ebraico ha quindi a sua disposizione la massima forma di deterrente non convenzionale disponibile, senza contare l’elevata preparazione delle sue forze armate. Proprio per via di questa asimmetria nei rapporti di forza la Repubblica Islamica si è dotata di una vasta gamma di strumenti alternativi da contrapporre alla superiorità tecnologica israeliana. Oltre ad un’ampia riserva di missili e ad una flotta di droni in rapido sviluppo, gli iraniani posseggono già un deterrente sufficiente ad impensierire Israele: la rete di milizie alleate a Teheran sparse in tutto il  Medio Oriente. In particolare tre sono i principali gruppi armati supportati da Teheran che costituiscono una minaccia diretta alla sicurezza israeliana: la prima è Hezbollah, il “Partito di Dio” libanese, fondato dagli iraniani nel 1982, mentre nella Striscia di Gaza e nella West bank gli iraniani possono contare sull’alleanza con Hamas e il Movimento per la Jihad Islamica Palestinese. Durante la crisi israelo-palestinese del 2021 i due gruppi hanno dato prova di poter contrapporre efficacemente la loro potenza di fuoco contro il ben più sofisticato sistema di difesa aerea israeliano Iron Dome. Israele dunque non ha al momento nulla da temere dal punto di vista di un imminente attacco nucleare iraniano, mentre deve invece convivere quotidianamente con la presenza di forze non convenzionali, appoggiate da Teheran, lungo i propri confini. 

Se Israele dunque non ha per ora alcuna ragione di temere un escalation nucleare iraniana, per quale motivo i politici di Tel Aviv continuano ad alimentare il timore di un Iran nucleare?

Le ragioni sono molteplici: in primo luogo c’è la continua aderenza alla cultura di difesa israeliana nel campo delle armi nucleari, la cosiddetta “Dottrina Begin”, che predica l’esclusività dell’egemonia nucleare israeliana nella regione. Esistono poi motivi storici e geo-strategici dietro questa scelta. Se l’Iran dovesse sviluppare un programma nucleare civile avanzato non solo sarebbe in grado di acquisire con rapidità armi atomiche con una semplice riconversione all’uso militare della sua tecnologia, ma avrebbe anche le capacità di potenziare le sue infrastrutture globali irrobustendo enormemente la propria economia, alterando l’attuale equilibrio regionale che vede Israele come potenza dominante.

Nonostante le sue criticità strutturali l’Iran è una nazione di 80 milioni di abitanti, con una popolazione giovane e mediamente acculturata, soprattutto in campo tecnico e scientifico, potenzialmente in grado di esprimere una classe dirigente dinamica. Se si aggiunge la posizione strategica di crocevia fra tre continenti e le enormi riserve di gas e petrolio, ci sono tutti gli ingredienti per una crescita del paese, nel medio e nel lungo periodo, in grado di elevarlo al rango di potenza regionale e forse anche di più. 

I decisori israeliani non temono però solo il potenziale nativo dell’Iran ma paradossalmente sono preoccupati anche da un suo futuro riallineamento al blocco euro-atlantico e nello specifico ad una riconciliazione con gli Stati Uniti. La rivoluzione iraniana del 1979 ha sicuramente portato alla nascita di un governo ostile ad Israele ma ha anche eliminato un contendente per gli aiuti americani che lo scià riceveva in grande quantità, sia attraverso la vendita del petrolio iraniano sia per il suo supporto al blocco occidentale in funzione anti sovietica. 

Se l’Iran dovesse tornare alleato degli USA il ruolo di Israele di pilastro inamovibile del sistema di sicurezza americano in Medio Oriente verrebbe sicuramente ridimensionato. Inoltre questo fatto riporterebbe sul tavolo la questione palestinese, con un Iran democratico che potrebbe muoversi di concerto con i paesi arabi e le altre nazioni a maggioranza mussulmana per ridiscutere la politica di Tel Aviv riguardo Gerusalemme e i Territori Occupati. 

Ad oggi Israele resta il nemico numero uno della Repubblica Islamica, tuttavia in uno dei tipici risvolti paradossali della storia le fazioni oltranziste di entrambi i paesi si legittimano reciprocamente attraverso il loro scontro, facendo leva sul timore della guerra che alberga nelle rispettive popolazioni. Le due narrative, anti-sionista a Teheran e anti-iraniana a Tel Aiv, contribuiscono infatti a mantenere al potere lo status quo conservatore nei rispettivi paesi. 

Questo non significa che una democratizzazione dell’Iran ed un ritorno al potere di esecutivi più moderati in Israele possa portare con certezza ad un’eliminazione della competizione fra i due stati, ma si creerebbero senza dubbio i presupposti per un dialogo più costruttivo, fondato sulla diplomazia e non sulla costante minaccia dell’uso della forza.

Al momento lo scenario è orientato in senso drammaticamente opposto. Iran e Israele hanno raggiunto un livello di tensione tale, per cui gli stessi Stati Uniti non sembrano più in grado di esercitare un controllo su l’alleato storico, che parrebbe intenzionato ad attuare misure anche estreme e dai risvolti imprevedibili, pur di impedire alla Repubblica Islamica di portare avanti il suo programma nucleare. Ed è proprio nelle stanze del potere di Washington che si sta consumando parte della lotta per il futuro dell’Iran.

Gli Stati Uniti non hanno mai intrattenuto buoni rapporti con i movimenti democratici in Iran. Prima della caduta dello scià la migliore occasione per una svolta democratica era stata l’elezione a primo ministro del nazionalista Muhammad Mossadeq nel 1953. Tuttavia, per via di alcuni aspetti radicali delle sue politiche, come il raggiungimento dell’autonomia energetica, la spinta alla secolarizzazione dei costumi, ma soprattutto per la sua apertura alle sinistre, Mossadeq si trovò ad affrontare una coalizione composta dai monarchici, dai religiosi sciiti e dai commercianti del bazaar, appoggiati da Stati Uniti e Gran Bretagna, che dopo un colpo di stato lo deposero. 

Successivamente alla rivoluzione i leader moderati all’interno della Repubblica Islamica come Rafsanjani o apertamente riformisti come Khatami sono sempre stati trattati con freddezza dagli americani. Il compromesso raggiunto tra Iran e USA nel 2015 con JCPOA ad un’osservazione attenta appare come unicum all’interno una storia di rapporti complicati ed è stata rapidamente spazzata via dalla decisione di Donald Trump di abbandonare l’accordo nel 2018. 

Negli Stati Uniti del presente coesistono molteplici punti di vista riguardo al problema iraniano, trasversali alla classe politica americana. Negli USA i progressisti e i moderati sono tendenzialmente orientati verso una politica fondata sul confronto diplomatico e auspicano per una futura democratizzazione dell’Iran che passi prima da una serie di riforme in seno alla Repubblica Islamica. Sul fronte opposto abbiamo i conservatori e i falchi, i quali premono per un cambio di regime che riporti l’Iran ad una condizione di vassallaggio nei confronti degli USA, che diventerebbe così uno stato inoffensivo sia per le forze americane sia per i loro alleati nel MENA, al quale attingere per procurarsi risorse umane e naturali a basso prezzo. 

I due campi sono rappresentati plasticamente dalle organizzazioni bipartisan, dai think tank e dalle lobby che gravitano negli ambienti della capitale, specialmente intorno al Congresso. La principale formazione del campo progressista, promotrice del dialogo con Teheran, è il National Iranian American Council (NIAC), mentre gruppi come la lobby filo israeliana espressa dal l’American Israel Public Affairs Committee  (AIPAC) e l’organizzazione non governativa United Against Nuclear Iran sostengono il fronte più intransigente e in passato hanno contrastato attivamente il progetto dell’accordo nucleare con l’Iran. 

Negli ultimi anni nello studio ovale a dominare è stata la politica della massima pressione varata dal presidente Donald Trump, che mira sempre di più ad una “nord-coreizzazione” dell’Iran, da realizzarsi tramite l’abbandono dell’accordo sul nucleare e isolando sempre di più la Repubblica Islamica dal resto della comunità internazionale.

Al momento sembrerebbe però che l’attuale governo USA non abbia né le intenzioni né le risorse per sposare pienamente nessuna delle due linee politiche: sia per via della guerra in Ucraina, sia per l’intensificarsi della competizione globale con la Cina. L’amministrazione Biden continua a mantenere un livello di coinvolgimento da “business as usual”, senza sbilanciarsi in un senso o nell’altro, continuando ad implementare la strategia della pressione ereditata dal precedente governo repubblicano. Il problema di questa linea di azione è che permette ai gruppi più oltranzisti dentro e fuori dall’Iran di erodere le capacità delle loro controparti moderate di reagire ad un eventuale escalation militare, mettendo i vertici politici USA davanti al fatto compiuto. 

Solidi nemici, volatili amici

Il partito contrario alla nascita di una democrazia autonoma in Iran non comprende solo i politici israeliani e i falchi americani. Tra gli attori regionali contrari ad una simile soluzione la prima della lista è sicuramente l’Arabia Saudita. Non solo per i motivi già citati per il caso israeliano ma anche perché la nascita di un movimento democratico in Iran potrebbe avere un effetto spillover, diffondendosi anche alle nazioni vicine, mettendo quindi in discussione la legittimità politica dei regimi autoritari che le governano. Il ricordo delle primavere arabe del 2011 e della rivoluzione iraniana del 1979 aleggia ancora nella mente delle élites di Riyad. Nonostante le riforme portate avanti dal Principe ereditario Muhammad Bin Salman, il regno saudita si trova ancora lontano dal conseguimento di un vero e proprio processo di democratizzazione.

Per questo motivo, eccezion fatta per la propaganda anti khomeinista rilanciata da asset sauditi come Iran International, un emittente in lingua persiana con sede a Londra, Riyad non ha manifestato grande entusiasmo per il movimento di protesta che chiede la fine della Repubblica Islamica. Questo per due ragioni: in primo luogo per il carattere femminista e anti-autoritario delle proteste e in secondo luogo perché dal punto di vista saudita, che non coincide esattamente con quello israeliano e dei falchi americani, il progetto di nord-coreizzazione e contenimento dell’Iran non deve sfociare in un collasso completo della nazione. Un simile evento porterebbe, tramite una reazione a catena, ad un indesiderato aumento dell’instabilità nel Golfo Persico. Questo scenario non è auspicato neppure dai militari israeliani, che nonostante la necessità di operare in concordanza alle direttive dei vertici politici, hanno manifestato un certo scetticismo nei confronti di un eccessivo interventismo contro Teheran, al punto da esprimere aperto appoggio ad un ritorno all’accordo sul nucleare.

In un momento delicato come la congiuntura attuale, in cui i paesi più sviluppati puntano ad una riduzione dei consumi dei combustibili fossili, la monarchia saudita non può permettersi di deviare risorse per difendersi da un’escalation con la Repubblica Islamica o dal caos che si produrrebbe da una sua caduta violenta. Per questo motivo i sauditi hanno cercato nell’ultimo periodo di giungere ad una tregua con l’Iran, nonostante le pressioni degli USA e di Israele per convincere Riyad a firmare gli accordi di Abramo, già siglati da Emirati Arabi, Bahrein, Sudan e Marocco. I contatti tra le diplomazie delle due nazioni del Golfo sono continuati per tutto il 2022 fino al raggiungimento di uno storico accordo siglato il 10 marzo 2023 grazie al patrocinio dalla Cina, che sancisce il ripristino delle relazioni diplomatiche ufficiali fra Teheran e Riyad, esattamente come era già accaduto fra Iran e Emirati Arabi Uniti. Non è da escludere che gli eventi drammatici del terremoto turco-siriano e la conseguente distensione tra le monarchie del Golfo e Damasco abbiano contribuito ad accelerare il processo di de-escalation in corso tra Teheran e Riyad, che potrebbe avere degli effetti positivi sul teatro yemenita, dove Iran e Arabia Saudita si fronteggiano dal 2015.

Ma gli avversari di un possibile Iran democratico non militano solo tra le file dei nemici della Repubblica Islamica. I due principali sponsor della deriva autoritaria del regime di Khamenei sono proprio i due paesi che negli ultimi anni hanno garantito la loro amicizia al popolo iraniano: la Federazione Russa e la Repubblica Popolare cinese.

Le due autocrazie asiatiche sono sottoposte ad una sempre maggior pressione, da parte degli Stati Uniti, che sta raggiungendo l’apice in seguito all’invasione russa dell’Ucraina e al peggiorare del clima nello stretto di Taiwan. Di conseguenza Cina e Russia stanno intensificando i loro legami con Teheran non solo a scopo commerciale ma anche in funzione anti-americana. Diviene quindi prioritario per le due potenze preservare il regime khomeinista sia per i già citati motivi di stabilità regionale sia perché se dovesse avvenire un cambio di regime in senso democratico, con un ulteriore allineamento dell’Iran in senso euro-atlantico, gli Stati Uniti riuscirebbero a ristabilire il triumvirato di stati clienti nel Medio Oriente precedente allo scoppio della rivoluzione iraniana, costituito da Israele, Iran e Arabia Saudita. Sommato alla presenza della Turchia nella NATO, questo ritrovato asse sarebbe in grado di minacciare pesantemente l’influenza russa e cinese non solo nel MENA ma anche e soprattutto in Asia Centrale. 

Questo non esclude ovviamente che esistano comunque linee di frattura fra la Repubblica Islamica e le sue due senior partner asiatiche: Iran e Russia sono entrambe due potenze energetiche in competizione per i mercati degli idrocarburi e del gas e, nonostante la loro alleanza tattica nella guerra in Siria, restano comunque in competizione per l’influenza militare e politica nel MENA e nel Caucaso; la Cina ha invece già rischiato di inimicarsi Teheran attuando una politica spregiudicata di relazioni con le monarchie del Golfo Persico.

Fatte queste premesse in tempi recenti i segnali dell’intensificarsi dell’integrazione economico-militare tra Iran, Cina e Russia sono aumentati a livelli allarmanti, come segnala ancora una volta il direttore della CIA William Burns.

L’Iran, nonostante le smentite del Ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian, ha fornito droni e forse anche missili e munizioni alla Russia da utilizzare nel teatro ucraino, mentre pare che Mosca abbia promesso di cedere una partita di aerei da guerra SU-35 all’Iran, che necessita di aggiornare il suo comparto aeronautico militare. Contemporaneamente va segnalata la visita in Cina del presidente iraniano Ebrahim Raisi, durante la quale ha incontrato il presidente Xi Jinping. I due leader hanno ribadito la promessa di proseguire nell’implementazione del piano di cooperazione economica precedentemente siglato nel 2021 ma mai realmente entrato a pieno regime. 

Bisogna inoltre segnalare ulteriori inquietanti sviluppi relativi alla repressione delle proteste iraniane: pare infatti che Russia e Cina abbiamo supportato il governo iraniano nel sopprimere le manifestazioni attraverso l’invio di tecnologia per la sorveglianza e fornendo consigli su come meglio reprimere le proteste ai corpi di polizia iraniani.

E l’Europa? Dall’inizio delle proteste le nazioni europee hanno condannato la repressione e applicato nuove sanzioni sui funzionari iraniani responsabili delle violenze contro i manifestanti. Nei primi mesi del 2023 si è aperto un dibattito nel Parlamento Europeo sull’opportunità di designare il Corpo delle Guardie della Rivoluzione iraniano come organizzazione terroristica. Una misura identica era già stata applicata dagli Stati Uniti nel 2018 durante la presidenza Trump. La risposta degli alti funzionari europei alla proposta del parlamento è stata fredda: il rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione Europea Josep Borrell ha dichiarato che la designazione dei Pasdaran a organizzazione terroristica: “Non è possibile prima che venga emessa una sentenza in tal senso da parte di un tribunale all’interno dell’Unione Europea”.

Nel frattempo le principali capitali del continente hanno ospitato manifestazioni di protesta da parte degli appartenenti alla diaspora iraniana. La condanna della repressione ed il supporto ai manifestanti hanno suscitato le ire di Teheran che accusa l’Europa di essere complice insieme ad Israele e agli Stati Uniti dell’ennesimo complotto ai danni della Repubblica Islamica; una narrativa, bisogna dirlo che ormai tarda a far presa anche sugli iraniani, spesso molto critici della condotta degli stranieri nei confronti del loro paese.

La lotta per la democrazia in Iran è una partita complicata, giocata sul filo del rasoio, dove permane il rischio concreto di trasformare la nazione in un campo di battaglia mai visto prima nella regione. Le misure attuate fino ad oggi da parte degli Stati Uniti e dall’Unione Europea per contenere l’influenza della Repubblica Islamica in Medio Oriente non stanno dando i risultati sperati sul piano militare, nel mentre le sanzioni impoveriscono la popolazione e ne impediscono l’emancipazione dalla morsa degli apparati governativi. 

Per quanto ancora l’equilibrio tra la pressione esterna, sostenuta dalla Comunità Europea, e l’interventismo militare proposto dagli israeliani e dai falchi negli USA, potrà essere preservata prima che si precipiti in una catastrofica escalation?

Laureato in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano, ha conseguito un Master di Primo Livello in Middle Eastern Studies presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Studioso di storia contemporanea e appassionato di studi strategici, i suoi interessi spaziano dalla Prima Guerra Mondiale alle moderne security policy dell’area MENA.

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