Il Recovery Plan impone il rovesciamento del vecchio modello di sviluppo
Roberto Romano torna sulle colonne dell’Osservatorio Globalizzazione assieme a Mario Noera per parlarci di come è opportuno utilizzare i soldi del Recovery Plan e di come non lo è. Buona lettura!
Tra circa un mese il governo italiano dovrà sottoporre alla Commissione europea il nostro Recovery Plan, ovvero il piano dei progetti che l’Italia intende finanziare con i 208 miliardi stanziati a nostro favore dall’Unione Europea per i prossimi tre anni. Non dubitiamo che all’interno dei diversi Ministeri coinvolti decine di tecnici siano al lavoro per mettere insieme un piano credibile. Sebbene fiduciosi, il governo dovrebbe avere alcune consapevolezze. Tra queste l’efficacia degli stimoli fiscali.
Perché per alcuni settori dipende dalla rilevanza e dalla capacità di reazione del settore stesso, e dalla possibilità di trasmettere tale stimolo al resto del sistema. La struttura economica del Paese condiziona l’efficacia delle misure con una lentezza nella trasmissione degli stimoli settoriali all’interno del sistema produttivo, sia in termini di scambi economici e sia in termini di trasmissione di tecnologia, innovazione e competitività (Istat, audizione Commissione Bilancio, 2 settembre).
Sembra si sia persa la cognizione che i finanziamenti del Recovery Fund saranno strettamente condizionali alle priorità dell’agenda europea, la quale, da mesi, ha già dettato linee guida molto chiare, focalizzate soprattutto su riconversione verde e sull’infrastrutturazione digitale. A livello europeo, gli obiettivi sono infatti principalmente due: abbattere a zero, in soli due decenni, le emissioni climalteranti di CO2 e sostenere crescita ed occupazione con un gigantesco sforzo di ammodernamento tecnologico.
Conciliare queste macro-priorità non è semplice. Analizzando gli investimenti e gli impatti previsti dal Pniec, cioè dal Piano Nazionale per l’energia ed il clima di fine 2019 (che dovrebbe essere un punto di partenza imprescindibile anche per l’elaborazione del Recovery Plan italiano), è possibile mostrare che gestire i potenziali trade-off tra obiettivi ambientali e occupazionali è una sfida complessa: i settori economici che hanno maggiore rilevanza ai fini dell’abbattimento delle emissioni non coincidono necessariamente con quelli che presentano i moltiplicatori maggiori su crescita ed occupazione.
Secondo l’Ispra, il 70% delle emissioni di gas serra italiane (24,5 % trasporti, 24% settore elettrico, 17,6% termico residenziale e 4% gestione dei rifiuti) sono generati da settori che, secondo le simulazioni del Pniec, hanno anche impatti relativi limitati sull’occupazione. Coerentemente con la priorità europea di riduzione delle emissioni di CO2, il Pniec destina comunque oltre tre quarti degli investimenti pubblici annui previsti da qui al 2030 proprio a residenziale, trasporti e settore elettrico, che sono i settori di competenza dei governi nazionali e dove l’intervento pubblico appare più necessario e urgente.
Le politiche sul settore energetico e sui settori industriali energivori (chimica, farmaceutica, gomma, acciaio ecc.) come anche sull’aviazione civile, sono infatti di competenza prevalentemente europea (soggetti alla c.d. Direttiva Ets) e non vengono conteggiate nei piani nazionali. Negli ultimi trent’anni, i settori sottoposti alla regolamentazione europea sono quelli che hanno dato il contributo più rilevante alla riduzione delle emissioni. Tra il 1990 ed il 2018, l’industria ha quasi dimezzato i gas climalteranti, per merito quasi esclusivo dei settori soggetti a regolamentazione europea (energetico, chimica/farmaceutica, gomma/materie plastiche e metallurgia) mentre i principali settori di competenza nazionale (residenziale, trasporti e rifiuti) le hanno invece aumentate.
E’ giusto quindi che siano questi i settori posti al centro delle politiche di riconversione energetica. Il problema è che gli altri settori di attività economica (quelli che non rientrano né nella sfera di competenza europea, né tra le priorità nazionali), anche se contano meno in termini di emissioni, pesano invece moltissimo in termini di valore aggiunto e di occupazione.
Cumulativamente, questi settori (dall’agricoltura al turismo, dal tessile alla meccanica, dall’informatica alla finanza, dalle attività immobiliari al commercio ecc.) rappresentano infatti più dell’80% del valore aggiunto del paese, e ad essi andrebbe dedicata grandissima attenzione sull’altro versante del Recovery Plan (quello della modernizzazione produttiva); questi settori sono, piaccia o no, la spina dorsale del paese. Cambiare il motore della macchina senza fermarla (R. Lombardi) è la sfida di struttura che ci attende.
Nei giorni scorsi, Mario Draghi (al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione) ed il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (all’Euroscience Open Forum) hanno declinato la loro “visione del futuro” per l’Italia. Altrettanto ha fatto, negli stessi giorni, anche il presidente della Confindustria, Carlo Bonomi in un documento indirizzato ai propri iscritti. Al di là delle reciproche cortesie, ne sono emerse due visioni del paese tra loro inconciliabili.
Per Draghi e Visco la priorità inderogabile (e del tutto condivisibile), sono estensivi e generosi investimenti, non solo in capitale fisico, ma anche e soprattutto in capitale umano e conoscenza; per Bonomi, la priorità è invece “rivoluzionare” gli assetti contrattuali per affidare la riorganizzazione dell’economia all’esclusiva sovranità dell’impresa privata.
La visione di Draghi e di Visco è correggere le carenze più vistose del modello di sviluppo perseguito in Italia negli ultimi trent’anni, l’approccio di Bonomi è invece puntare sui medesimi paradigmi del passato, addirittura esasperandone le caratteristiche peggiori: la delegittimazione della contrattazione collettiva, la precarizzazione del lavoro, il sistematico disinvestimento nella macchina amministrativa dello Stato, il sacrificio del welfare in favore della primazia assoluta del libero mercato e dell’impresa.
La via indicata dal presidente di Confindustria è sbagliata. Il modello di sviluppo perseguito dall’Italia a partire dai primi anni ’90 (ricerca di competitività esterna attraverso la deflazione interna -e quindi bassi salari- disarticolazione del mercato del lavoro, privatizzazioni anche di settori strategici, smantellamento della programmazione economica ecc.) si è infatti dimostrato disastroso, perché ha indebolito il tessuto produttivo, ha sottratto alla crescita il contributo determinante della domanda interna e -via bassa crescita- ha contribuito a rendere insostenibile il debito pubblico. Riproporre quel modello e addirittura pretendere di esasperarlo, ci condannerebbe ad una stagnazione economica perpetua.
Il consuntivo che i dati propongono è molto preoccupante. Il sistema economico italiano è finora sopravvissuto solo sull’estrema compressione dei salari (circa 16mila euro annui contro i 30mila della Germania ed i 26mila della Francia, nella media 1995-2018) e sullo sfruttamento intensivo del lavoro (strutturalmente le ore lavorate pro-capite annue sono in media 1725 in Italia, 1550 in Francia e 1450 in Germania); un modello in cui l’impresa privata non investe e non innova, in ragione delle caratteristiche tecniche del sistema economico e industriale (gli investimenti privati sul PIL sono del 25% inferiori a Germania e Francia; quelli in R&S la metà), e tutto questo nonostante le imprese abbiano goduto di incentivi più generosi che altrove (si veda il Rapporto Giavazzi del 2012) e di una distribuzione del reddito mediamente molto più favorevole rispetto ad altri paesi (la quota media di Valore Aggiunto pro-capite che va ai profitti è il 67% in Italia, il 55% in Francia e addirittura solo del 46% in Germania).
La tanto lamentata bassa produttività dell’economia italiana, che deprime da un trentennio la crescita italiana, è radicata nella scarsa produttività del capitale e non è ascrivibile, come si ama ripetere, solo all’inefficienza della macchina amministrativa, alla lentezza della giustizia o agli sperperi di spesa pubblica: la bassa produttività è figlia primaria delle politiche fiscali restrittive (che quelle inefficienze hanno imposto), dell’assenza di politiche industriali (che hanno lasciato campo libero a decentramenti produttivi selvaggi, a una cronica frammentazione industriale) e alla debolezza strutturale dell’imprenditoria privata.
Bonomi chiede, a ragione, che il Recovery Plan dedichi grande attenzione e una cospicua fetta di finanziamenti all’industria, ma il dettagliato e impietoso dato della statistica (nostra elaborazione) sulle carenze del nostro sistema produttivo, testimonia che trent’anni di mistica del libero mercato e di flessibilità del lavoro hanno spinto l’Italia in coda alle statistiche internazionali e l’hanno intrappolata nel circolo vizioso basso reddito-bassa crescita, da cui è oggi imperativo uscire.
Questo modello, fatto di salari bassi, di polverizzazione del tessuto produttivo, di austerità fiscale e di progressivo deperimento della macchina amministrativa dello Stato non ha prodotto crescita e benessere; ha invece favorito una colossale redistribuzione di risorse a favore dei profitti, senza alcuna contropartita in termini di investimenti produttivi e di innovazione. Confindustria non ha alcuna credenziale per dettare ricette e tantomeno per candidarsi a gestire i fondi europei in solitudine. Se si vogliono evitare gli abbagli del recente passato, il Recovery Plan deve essere l’occasione per voltare decisamente pagina.
La parte iniziale di questo articolo è stata pubblicata su “il Manifesto” a questo link; la seconda parte ci è stata gentilmente concessa dagli autori.
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