Tutti i limiti del piano di ripresa del governo italiano
Roberto Romano torna sulle colonne di Osservatorio Globalizzazione per un corsivo sul piano presentato dal Governo italiano per l’utilizzo dei fondi del Recovery Plan. Buona lettura!
Rispetto alle sfide di struttura che il Paese dovrebbe affrontare, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), presentato alle Camere il 15 settembre 2020, con il sottotitolo Nextgenerationitalia, è un insieme di buone intenzioni condivisibili, ma avulse dalla reale situazione economica dei settori. Sostanzialmente il PNRR non indaga, prima, il posizionamento del tessuto economico rispetto ai pari livelli europei al fine di catturare i vincoli di struttura, e non può, dopo e inevitabilmente, predisporre le misure e le iniziative coerenti per aggredire e rimuovere i vincoli individuati.
L’elencazione degli obbiettivi strategici (un Paese completamente digitale, un Paese con infrastrutture sicure ed efficienti, un Paese più verde e sostenibile, un tessuto economico più competitivo e resiliente, un piano integrato di sostegno alle filiere produttive, una Pubblica Amministrazione al servizio dei cittadini e delle imprese, maggiori investimenti in istruzione, formazione e ricerca, un’Italia più equa e inclusiva, a livello sociale, territoriale e di genere, un ordinamento giuridico più moderno ed efficiente) sono giustappunto linee generali che attengono alla politica in senso generale, ma il Recovery Plan ha come orizzonte quello di intervenire dove si sono manifeste le maggiori difficoltà e nei settori che meglio e più di altri possono ri-posizionare l’Europa e l’Italia in particolare nei settori emergenti con maggiore livelli (potenziali) di reddito, valore aggiunto, occupazione e ricerca e sviluppo.
Un approccio e un metodo indispensabili se consideriamo che l’efficacia di uno stimolo rivolto ad un determinato settore dipende dalla rilevanza e capacità di reazione del settore stesso, così come dalla possibilità di trasmettere tale stimolo al resto del sistema produttivo. Una riflessione che richiama la frammentazione del tessuto economico nazionale che manifesta il rischio di una maggiore lentezza nella diffusione degli stimoli settoriali all’interno del sistema produttivo, sia in termini di scambi economici di beni intermedi e di investimento, sia, in termini più generali, di trasmissione di tecnologia, innovazione e competitività. Se la sfida del Paese è di questo livello, l’elencazione delle missioni (digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità; istruzione, formazione, ricerca e cultura; equità sociale, di genere e territoriale; salute – pagina 13 di PNRR), certamente condivisibili in senso generale, ma che non hanno in realtà nessuna mission chiara: rimuovere i vincoli di struttura del sistema economico nazionale rispetto ai Paesi europei.
Inoltre, mischiare gli interventi di buon funzionamento della Pubblica Amministrazione (riforma della stessa PA e riforma fiscale), necessarie per riconsegnare alla stessa Pubblica Amministrazione una capacità di programmazione con le adeguate risorse finanziarie, mal si concilia con la programmazione e governo della necessaria transizione di struttura economica verso settori a maggiore valore aggiunto che attualmente non presidiamo. Un recovery plan, per definizione, non dovrebbe essere neutro, ma scegliere chi e che cosa sostenere, delineando i livelli di partecipazione del soggetto pubblico che, nel caso, non è mai esplicitato. In qualche misura il governo consegna al “mercato” una traiettoria e la sostiene, senza che possa condizionarla più di tanto.