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La psicosi rossobruna

La psicosi rossobruna

Uno spettro si aggira per l’Europa. No, non è lo spettro del comunismo, contro cui tutte le potenze della vecchia Europa ottocentesca si coalizzarono in una caccia alle streghe, dallo zar al papa, da Metternich a Guizot, come scrivevano Karl Marx e Friederich Engels nell’incipit del Manifesto del partito comunista (1848), ma quello del ‘rossobrunismo’. Più volte si è accennato a tale fenomeno in queste pagine, ma il termine ora non è usato nell’accezione qui spesso utilizzata ma come etichetta squalificante contro chi fa la stecca nel coro del pensiero unico liberale, imperante dal 1989 come unica religione civile che accomuna tutti, da centrodestra a centrosinistra, dai progressisti ai conservatori, uniti dal prefisso ‘liberal’: liberalprogressista, liberaldemocratico e liberalconservatore.


Fino a qualche anno fa la querelle sul rossobrunismo era limitata a dossier che circolavano in rete, spesso stilati da collettivi vicini o organici alla sinistra antagonista o pubblicati in siti Internet di movimenti e partiti della sinistra. È necessario perciò, a scanso di equivoci, fare un breve excursus storico del fenomeno.

Rossobruni: una breve genealogia storica


Per anni nel recente passato si sono indicati come rossobruni quei soggetti politici e culturali che, come la nouvelle droite, disconoscendo la diade destra/sinistra, proponevano un’ideologia sincretica o la convergenza strategica e/o organica con chi era situato agli antipodi politici ma condivideva una profonda avversione per il sistema liberale.

Un precedente storico, scrive lo studioso marxista Alessandro Pascale, va ricercato nel ‘concetto di ‘nazionalbolscevico’ o ‘nazional comunista’, nato in Germania nel primo dopoguerra e usato sia da una branca dell’estrema destra rivoluzionarioconservatrice sia dai marxisti del Kapd di Amburgo, fautori entrambi di una convergenza strategica fra nazionalisti rivoluzionari e comunisti contro il ‘nuovo ordine europeo’ uscito a Versailles.

Da notare che il Kapd fu poi criticato da Lenin per questa strategia”. Tendenze simili in seno al socialismo furono criticate da Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista e da Lenin su Stato e rivoluzione, che contestò “gli elementi opportunistici […]

[che]

hanno dato vita alla tendenza socialnazionalista […]. Questa corrente di socialismo a parole e di nazionalismo nei fatti, […] è contrassegnata da un impudente e servile adattamento dei ‘duci del socialismo’ agli interessi non solo della ‘propria’ borghesia nazionale ma, in maniera speciale, anche del ‘proprio’ Stato [ …]. La lotta per la liberazione delle masse lavoratrici dal dominio della borghesia […] è quindi impossibile se non si distruggono i pregiudizi opportunistici sullo Stato” .

Il cosiddetto ‘fascismo di sinistra’ o ‘rivoluzionario’ – che non si è mai definito di destra, pur posizionandosi nella destra dell’emiciclo – e che è confluito nel fascismo, non ha paradossalmente un’origine reazionaria bensì socialista, che precede quella fascista. Un movimento sui generis riscoperto di recente dagli storici dopo la pubblicazione del saggio di Giuseppe Parlato La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato (Il Mulino, 2000), che affonda le radici in figure del Risorgimento quali Mazzini, Garibaldi, Ferrari e Pisacane; è un certo socialismo non marxista o che leggerà Marx in chiave attualistagentiliana, e che si rifà al passato socialista di Mussolini e agli sviluppi protofascisti del movimentismo ante Marcia su Roma; un’area parecchio osannata nell’agiografia neo e postfascista .

Un fenomeno caratterizzerà anche la Germania con la sinistra nazionalsocialista nella Nsdap dei fratelli Otto e Gregor Strasser, gli antagonisti di Adolf Hitler repressi nella notte dei lunghi coltelli, e l’area nazionalbolscevica di Ernst Niekisch, tutti ex membri non marxisti della Spd che scopriranno il patriottismo nelle trincee. L’area non si caratterizzerà mai come un blocco unitario, ma per gli accenni populisti, per “un forte e consapevole spirito antiborghese”, “una polemica contro il modello capitalistico di produzione”, “un radicato senso della socialità, che si [esprime] nel culto della comunità tipico del periodo squadrista ovvero nell’attenzione nei confronti delle classi meno abbienti e delle problematiche sociali”, “una interpretazione della politica come rivoluzione” e il “rifiuto della democrazia liberale e la contemporanea rivendicazione, in prospettiva, di una democrazia popolare totalitaria di matrice roussoviana” , discorso aggiornato dalla nuovelle droite e dall’area legata ad Aleksandr Dugin, che elaborerà la ‘democrazia organica’.

Le radici del fascismo “rivoluzionario”


Il fascismo rivoluzionario si nutrirà delle suggestioni del fascista Ugo Spirito, che elaborò in seno al Pnf la teoria della ‘corporazione proprietaria’, apparsa nel 1930 nel volume Il Corporativismo ed esposta nel maggio 1932 al secondo Convegno di Studi sindacali e corporativi tenutosi a Ferrara, dove si accenna a una vera e propria “corporazione comunista”, paventando la possibilità che la proprietà dei mezzi di produzione fosse affidata non più ai privati bensì alla corporazione stessa. Vista come una sorta di soviet corporativo, che riuniva i produttori superando la diatriba capitale/lavoro e rendendo i lavoratori azionisti dell’impresa , fu avversata duramente dall’ala destra del partito rappresentante gli interessi di classe dell’industria e della borghesia conservatrice e nazionalista, che tacciò il filosofo di “bolscevismo” e bollò il pensiero come teoria “eretica”.

Questo spingerà Spirito, nel dopoguerra, ad avvicinarsi a un Pci filosovietico, per poi guardare a Oriente, contrapponendo fin dal 1961 l’ideale comunitario esemplificato dalla rivoluzione culturale maoista, riletta in chiave idealista; ciò lo porterà a criticare il marxismo occidentale – “incapace di sottrarsi davvero a una concezione individualistica della vita”, rimane “intrinsecamente legato alla metafisica borghese e resta ancora al livello illuministico della carta dei diritti” – e a visitare il Paese di Mao Zedong nel pieno della rivoluzione culturale, un faro per vasti settori della sinistra extraparlamentare, e a scrivere che “il marxismo è, infatti, una dottrina storicistica di carattere occidentale ben determinata che va dal giudaismo al cristianesimo, dall’illuminismo all’hegelismo, e si concentra nell’analisi della struttura economica di un industrialismo e di un capitalismo che trasformano la società europea. Nulla di tutto questo può avere un effettivo significato per il cinese. […] Del resto, la rivoluzione comunista cinese solo indirettamente può collegarsi con il marxismo originario e anche con quello russo. […] Rivoluzione nazionalistica e rivoluzione contadina, quindi, fuori di ogni schema e di ogni logica marxistica. […] È la tradizione cinese di sempre, che continua a esprimersi fuori di ogni legame diretto col marxismo” (6). Una Cina che ispirerà ideologi del radicalismo di destra come Franco Freda, che ne La disintegrazionedel sistema (Edizioni di Ar, 1969) proporrà una sorta di “comunismo aristocratico”, una via di mezzo fra la Repubblica di Platone, Sparta, il Terzo Reich, la Cina Popolare e la Cambogia dei khmer rossi, teorizzando l’abolizione della proprietà privata, scavalcando a sinistra la sinistra più estrema, e fondando uno Stato basato sui principi spiritualisti evoliani e una struttura economica collettivista.

Da Lisbona a Vladivostok


Quello cinese è uno degli snodi di tale concezione, perché nei primi anni ’60 si parlerà di Lotta di Popolo, i ‘nazimaoisti’, un settore del radicalismo di destra che univa suggestioni nazionali e sociali alla lettura spiritualista dell’esperienza maoista e stalinista di Ugo Spirito, esperienza che unirà ex militanti dell’organismo giovanile gollista Primula Goliardica dell’ex repubblicano Randolfo Pacciardi – ma che aveva ai suoi vertici il fascista di sinistra Giano Accame, giornalista de Il Borghese e poi teorico della destra sociale di An – ed ex militi di estrema destra e di Giova ne Europa, sezione italiana di Jeune Europe – la prima organizzazione nazionaleuropeista (poi eurosovietica ed eurasiatista) e nazionalcomunista, animata dall’ex SS belga Jean Thiriart, che proponeva l’unità terzaforzista dell’Europa da Dublino a Brest e poi fino a Vladivostok, avendo fra i suoi membri il futuro direttore di Eurasia Claudio Mutti, lo storico cattolico Franco Cardini (fra i mentori a Firenze di Marco Tarchi della nuova destra) e Mario Borghezio; una realtà che arriverà a organizzare a Parma un’alleanza coi maoisti del Pcd’I (marxistaleninista).

Lotta di Popolo punterà a “collocarsi a cavallo fra i radicalismo di destra e di sinistra”, difendendo il terzomondismo, prendendo a modello l’Ira in Irlanda, l’Eta, le Black Panther in America, i vietcong e l’Olp (da cui il nome) in Palestina, vedendo nel maoismo e nella sua rottura con l’Urss un modo per scardinare la logica dei blocchi. L’Organizzazione avrà sezioni in tutta Europa, divenendo la prima esperienza tercerista con forti connotati antisionisti e antimperialisti, e meritando l’epiteto, appunto, di ‘nazimaoista’. Secondo il frediano Francesco Ingravalle – in un saggio del 1979 pubblicato sulla rivista rivoluzionariotradizionalista francese Totalité – l’Olp rappresenta l’esigenza di innestare la rivoluzione tradizionale sui movimenti sociali che emergono dalla frattura tra il Paese reale e il Paese legale (9). Non dovrebbe dunque sembrare del tutto peregrino il tentativo di conciliazione che, dopo Franco Freda, farà un giovane Claudio Mutti tra termini così inconciliabili per un marxista come il maoismo e la tradizione.

In tempi recenti, pescando dalle esperienze nazional europeiste di Jeune Europe, avremo negli anni ’80 e ’90 una galassia di movimenti ‘nazionalcomunisti’, che avranno in Italia rappresentanza nella rivista Orion – su cui scriverà Mutti – animata nell’ottobre 1984 da Maurizio Murelli, che nel 1989 creerà, sulla falsariga di Jeune Europe, il Fronte europeo di liberazione (Fel), a cui appartengono realtà nazionalrivoluzionarie come gli italiani di Nuova azione (poi Movimento antagonista), gli inglesi di Third way, gli spagnoli di Alternativa europea, i tedeschi solidaristen del Sozialrevolutionäre Arbeiterfront, i polacchi di Przclom Narodowy, i belgi del Parti communautaire nationaleuropéenne (Pcn) e i francesi di Nouvelle résistance dell’ex nazimaoista, poi ex neodestrista, Christian Bouchet, oggi lepenista filorusso.

Oggi però, come detto nella parte introduttiva dell’articolo, il termine rossobruno assume significati diametralmente opposti a quelli qui illustrati: non è più infatti rivolto ad aree eretiche e marginali del radicalismo di destra che cercano di andare oltre la diade liberale destra/sinistra.



L’evoluzione di un termine e l’uso delegittimante nel dibattito a sinistra



Il termin e rossobruno nasce in Russia nel 1992, coniato da giornalisti vicini a Boris El’cin per screditare Gennadij Zjuganov, leader comunista russo a capo del Fronte di salvezza nazionale, coalizione patriottica antiliberista guidata dal Pcfr a cui si assoceranno gruppuscoli patriottici e nazionalisti fra cui il piccolo Fronte nazionalbolscevico di Eduard Limonov e dell’eurasiatista Aleksandr Dugin. Dopo il collasso dell’Urss, El’cin e i suoi sodali vogliono, “per quanto possibile, screditare i comunisti e impedire il loro consolidamento, presentare il Pcus come un’organizzazione criminale e a carattere statale e non sociale, privarlo delle sue proprietà, impadronirsi dei suoi mezzi d’informazione di massa. È esplicita la tendenza della autorità a impedire ai comunisti la possibilità costituzionale di riunire e compattare rapidamente e legalmente le loro fila. Allo stesso scopo si lanciano grida disperate che denunciano l’occupazione da parte della ex nomenclatura statale di partito dei posti chiave dell’economia e dell’amministrazione, si comincia a spaventare la gente col cosiddetto pericolo ‘rossobruno’”.

Va detto che Dugin, oggi ammiratore di Vladimir Putin, e che intratteneva cordiali rapporti coi neodestristi Alain de Benoist e Robert Steukers, con la redazione di Orion e di Lutte de peuple, l’organo di Nouvelle résistance, e con il professor Mutti – tutti accomunati dalla cordiale amicizia con Jean Thiriart – collaborò con Zjuganov alla stesura di Stato e Potenza, edito dalle Edizioni all’Insegna del Veltro di Mutti, manifesto di uncomunismo diverso da quello occidentale, che sintetizza patriottismo panrusso, una rivalutazione di certi aspetti dello zarismo e della slavofilia e un comunismo stalinista unito a elementi di eurasiatismo; una sorta di ‘santa alleanza’ tra Ortodossia e Islam contro l’Occidente atlantista e mondialista  tanto esaltata sulle pagine di Orion.

Le radici della psicosi rossobruna


L’uso attuale del termine rossobruno si nutre senz’altro di queste suggestioni, e inizia a essere menzionato in Francia nel 1993. All’epoca Alain de Benoist torna da una serie di viaggi a Mosca e viene accusato di aver lì creato una succursale della nouvelle droite con a capo Dugin. Secondo Pierre André Taguieff, biografo del teorico neodestro, incolpa di aver diffuso questa notizia, subito rilanciata dai mass media, il direttore della rivista Nationalisme et République Michael Schneider, assieme ad “altri organi di stampa ‘nazionalisti rivoluzionari’” che avrebbero “lanciato sul mercato ideologico il tema del ‘nazionalcomunismo’, come a incitare i giornalisti sensibili alla tematica antifascista standard a lanciare una campagna di denuncia”, anche diffondendo articoli sul tema.

L’attacco inizierà con la pubblicazione su Le Monde, il 13 luglio 1993, dell’Appel à une Europe de la vigilance contre l’extrême droite, promosso da Umberto Eco e Rossana Rossanda, che denuncia gli “ideologi di estrema destra” che “svolgono un’attività di autori ed editori” al di fuori dell’area originale, e che “hanno cominciato da un certo tempo a far credere di essere cambiati”, sforzandosi di sedurre “personalità democratiche e intellettuali, alcuni dei quali conosciuti per essere di sinistra”, al punto che “questi hanno accettato di firmare articoli in riviste dirette da questi autori”; riferimento a de Benoist e a Taguieff, quest’ultimo accusato dal giornalista Roger Pol Droit di aver “banalizzato l’estrema destra” e “non aver vigilato”, dato che nella raccolta Racisme et Antiracisme (MéridiensKlinksieck, 1986) compariva, oltre alla sua, la firma di Alain de Benoist. In Italia la raccolta verrà pubblicata nel 1992 da La Roccia di Erec, la casa editrice di Marco Tarchi (15), e Taguieff si difenderà dalle accuse dicendo che quella italiana è un’edizione pirata, mai autorizzata dall’autore e neppure integrale – il curatore tuttavia replicò, esibendo una lettera nella quale Taguieff si dichiarava d’accordo con la traduzione del suo testo. In particolare Droit contesta a Taguieff l’aver frequentato la nuova destra e pubblicato saggi sulle riviste del movimento, analogamente a quanto fatto da diversi intellettuali di sinistra come Serge Latouche, Alain Caillé e Ignacio Ramonet che, per Le Monde, non avrebbero dovuto collaborare con riviste come Krisis, trimestrale lanciato nel 1988 da de Benoist e tutt’oggi aperto a intellettuali della sinistra altermondista.

L’Appello innescò una contropetizione, dove si denunciava il conformismo e la difficoltà per molti ricercatori di lavorare su temi caldi viste le polemiche cui si esponevano, portando Jacques Julliard, su Nouvelle Observateur, a dichiarare “senza mezzi termini” che “la campagna condotta da Le Monde contro Taguieff, eminente studioso del razzismo e dell’estrema destra, è vergognosa”, e sarebbe stato meglio che i quaranta firmatari dell’Appello “avessero vigilato piuttosto sui crimini etnici nell’ex Jugoslavia”. La campagna si amplierà allorché de Benoist, con il suo rifiuto della duplice dicotomia fascismo/antifascismo e destra/sinistra, si confronterà con intellettuali organici al Pcf, spingendo la stampa, sia di sinistra che frontista, a condannare tali incontri, segno, secondo loro, di una “tentazione nazionalcomunista” o “rossobruna”.

Il rossobruno Mélenchon


Lo scontro apre l’odiosissima pratica del dossieraggio e della schedatura, usata a sinistra contro chi cerca di mettere in discussione i postulati del pensiero dominante. Oltre all’Appello di Le Monde, spunteranno infatti vari dossier: il primo fu scritto dal giallista Didier Daeninckx e dalla giornalista Mariette Bernard, e parla di “relazioni pericolose” fra comunisti ed estrema destra, poi lanciate sul grosso della stampa nazionale a denunciare il “complotto ‘rossobruno’ atto a destabilizzare la Repubblica”. Gli attacchi portano de Benoist a difendersi definendo il tutto una “querelles d’Ancien Régime”.

L’accusa rispunterà nel 2018, quando il ballottaggio francese fra Marine Le Pen e Emmanuel Macron scatena i media su assurde convergenze noeuro e antimondialiste fra la leader frontista e il leader della sinistra JeanLuc Mélenchon: quest’ultimo, con poco meno del 20%, ha preferito non dare indicazioni di voto e, tra altre, una testata liberal come NextQuotidiano si è spinta a ipotizzare che dietro tale silenzio ci fosse una sorta di vicinanza, poiché “la Le Pen piace [a sinistra] perché è nazionalista, proprio come Mélenechon, e per le sue posizioni critiche nei confronti dell’euro e dell’Unione europea. Insomma la logica è molto semplice: il nemico del mio nemico è mio amico. E così la Le Pen finisce per essere ‘il male minore’”.

E questo nonostante Mélenechon abbia stabilito che il populismo di destra e Macron sono simili – e le recenti parole euroriformiste di Marine Le Pen lo confermano (22). “Lo slogan elettorale della Le Pen è Au nom du Peuple, quello di Mélenechon La force du Peuple, dettagli che ci aiutano a capire perché la sinistra faccia fatica a schierarsi con Macron”; il tutto mentre l’economista Jacques Sapir, dalla parte del Front, spiega che l’idea del “fronte repubblicano” contro i lepenisti è un “mito conservatore di un’indecenza assoluta”, ipotizzando anche che al primo turno ci sia stata una vittoria culturale delle “forze sovraniste”.

E così un falso antifascismo, del tutto funzionale al sistema – dato che l’Ue tanto difesa dai progressisti sostiene un golpe in Ucraina che utilizza milizie neonaziste con volontari vicini anche a CasaPound, senza contare le destabilizzazioni in Venezuela col supporto della locale ultradestra reazionaria  – viene sventolato per sostenere ciò che è considerato un male minore, ossia Macron, uomo dell’establishment finanziario francese ed ex banchiere d’affari per la Rothschild Cie & Banque, e il suo programma liberista. E Mélenechon diventa un rossobruno.

Italia, la guerra sporca dei cacciatori di rossobruni


In Italia lo scontro ha radici profonde ma meno nobili: si è passato da un’iniziale curiosità quasi morbosa da parte dei quotidiani nazionali nel 1992-1994 per la rivista di Maurizio Murelli che invitava a votare per Rifondazione comunista, nonostante il background destroradicale del grosso della redazione, al dossieraggio a opera dei siti antifascisti militanti con produzione di lunghi elenchi di sigle, movimenti ecc. – tracciando la genealogia già vista – per arrivare all’attuale ‘caccia alle streghe’ all’interno della sinistra verso chi si pronuncia contro l’europeismo, la governance dei flussi migratori e a favore di una risoluzione strutturale della questione (non certo una fatalità, ma una diretta conseguenza di decenni di neoliberismo e neocolonialismo applicato all’Africa), o accenni all’esistenza di un problema sicurezza che partiti come la Lega risolvono da destra e che sarebbe il caso di gestire da sinistra.

La dinamica delegittimatoria è arrivata a un livello tale che perfino Andrea Scanzi se n’è occupato su Il Fatto Quotidiano, scrivendo che “si è assistito in effetti anche a questa sottile strategia messa in atto negli ultimi anni in Italia: alcuni settori della ‘sinistra’, al fine di legittimare il prosieguo di un eclettismo ideologico ‘liberal’, hanno iniziato a tacciare di rossobrunismo tutti coloro che ponevano la contraddizione antimperialista come la contraddizione principale. Ci sono cioè settori della ‘sinistra’ che si presentano come ‘progressisti’, talvolta perfino come ‘comunisti’, ma alla prova dei fatti utilizzano la questione antifascista come prioritaria su ogni altro aspetto (antimperialismo, anticapitalismo, lotta di classe), approdando spesso e volentieri a una posizione morbida, se non conciliante, con il Pd, con il centrosinistra e con le strutture e sovrastrutture che le sinistre tradizionali non avrebbero faticato a definire imperialiste (prime tra tutte Nato, Ue, euro), in nome dell’unità contro le ‘destre’”. Ora, non risulta che Scanzi sia un marxista leninista antimperialista, ma ha fotografato bene la situazione. Dinamica a cui non si è ovviamente sottratta il quotidiano La Repubblica, che ha pubblicato un dossier sui rossobruni mettendo dentro di tutto, da politici come Fassina e D’Attore a intellettuali come Diego Fusaro per arrivare a siti d’informazione come L’AntiDiplomatico o ad associazioni politicoculturali come Marx XXI.

È utile usare nel dibattito la categoria rossobruno? Le riflessioni sono molteplici. Come il neologismo nouvelle droite, rossobruno è stato creato ad arte nel contesto di una precisa contingenza politica. Nel 1979 la stampa progressista francese, faticando a catalogare il pensiero di Alain de Benoist e il Grece, conia il termine nouvelle droite e lo usa contro i gollisti per la collaborazione di alcuni membri dell’associazione metapolitica alle pagine culturali del periodico Le FigaroMagazine, ‘nazificando’ così – visto il background dei membri del Grece – il centrodestra francese; nei primi anni ’90 viene coniato il neologismo rossobruno allo scopo di demonizzare chi, dalla Russia all’Europa occidentale, mette in discussione l’impianto della cultura dominante, il pensiero unico liberale, fatto di postmodernità. In entrambi i casi l’obiettivo è preservare lo status quo sistemico. Come definire l’articolo su Left di Giacomo Russo Spena, che non solo definisce rossobruna tutta la sinistra noeuro, ma la descrive sdegnosamente come “pasdaran dello Stato nazione”?.

Il fatto che a farlo sia una sinistra che ha perso la propria identità è significativo. Scrive Pascale: “Le principali derive revisioniste del nostro tempo (apertura all’identity politics di stampo americano, al cosmopolitismo senza radici e all’immigrazionismo borghese, utopie di ‘riforma dell’Unione europa dall’interno’ e anacronistici ‘fronti popolari’ con la sinistra borghese vengono giustificate proprio con il pretesto della lotta al rossobrunismo. […] [e] nella confusione ideologica in cui versa attualmente il movimento comunista, specie quello italiano, tale categoria è stata fatta propria dai think tank della borghesia liberale per delegittimare paradossalmente soprattutto i comunisti. Il che non deve stupire troppo, dato che la borghesia liberale è già riuscita a conquistare la categoria analitica della ‘sinistra’, bollando i comunisti prima come ‘estrema sinistra’ (anni ’90 e inizio ’00), poi, negli ultimi tempi, di fronte ad alcuni nuovi fermenti teoricopolitici che rischiano di incrinare la narrazione del totalitarismo liberale, come ‘rossobruna’”. den0

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