Libia, tutte le incognite di un Paese diviso
Michela Mercuri, docente alla SIOI e all’Università di Macerata, è una delle analiste più ferrate tra coloro che, in Italia, si occupano dello scenario libico. In vista della presentazione del suo saggio “Incognita Libia”, che l’Osservatorio organizzerà nella giornata di sabato allo Spazio Coffice di Milano, abbiamo voluto intervistarla per porle alcune domande sul futuro del tormentato Paese nordafricano.
Osservatorio Globalizzazione: Professoressa Mercuri, allo stato attuale delle cose come sono evoluti i rapporti di forza in Libia dopo gli sconvolgimenti degli ultimi mesi?
Michela Mercuri: Stallo è la parola più adatta. L’offensiva di Haftar iniziata lo scorso aprile per conquistare Tripoli, seguendo i suoi sponsor internazionali, si è arenata contro le forze fedeli a Serraj, principalmente quelle di Misurata, che avevano già vinto contro lo Stato Islamico a Sirte nel 2016, e dunque in questo momento la guerra, se ancora vogliamo chiamarla così, è un conflitto di posizione, fermo, in cui la bilancia a volte pende dalla parte di Haftar e a volte da quella di Serraj. Va detto però che in questo momento sicuramente le forze fedeli a Serraj si stanno dimostrando molto più forti, continuando a respingere quelle di Haftar che aveva garantito di poter procedere in poco tempo verso Tripoli, animato dal leitmotiv del “liberare la città dal terrorismo” che aveva convinto buona parte della comunità internazionale. Haftar sta arretrando e sembra in svantaggio, trovandosi in un momento di impasse, risultando per ora il grande sconfitto.
Osservatorio Globalizzazione: Esiste la possibilità di andare oltre la dicotomia Serraj-Haftar?
Michela Mercuri: La dicotomia Serraj-Haftar è questione degli ultimi mesi, da quando cioè è avanzata l’avanzata del secondo prima verso il Fezzan e poi verso Tripoli. Ciò non deve farci dimenticare la vera connotazione della Libia, Paese in cui Serraj e Haftar rappresentano sì e no il 30-40% del consenso tra la popolazione, ma in cui il potere è frammentato tra tante milizie. Lo abbiamo visto bene di recente ad Ovest, dove stanno combattendo milizie abbastanza indipendenti come quella di Misurata, strumentalmente alleata con Serraj in funzione anti-Haftar. La Libia è fatta di poteri locali, municipalità, tribù e milizie, attori di cui dobbiamo tenere conto in un processo di pacificazione e stabilizzazione del Paese. Coinvolgere nei vertici di pacificazione solo i poteri principali, marginalizzando i poteri locali, non aiuterà a risolvere la situazione. Questo doveva accadere al vertice di Ghadames dello scorso aprile, poi cancellato, che sarebbe stato un punto di partenza importante per coinvolgere gli attori locali.
Osservatorio Globalizzazione: Il terrorismo islamista rappresenta ancora una minaccia seria?
Michela Mercuri: Il terrorismo islamista è, in questa situazione, il terzo incomodo. In questa situazione di caos miliziani dello Stato Islamico e di altre sigle terroristiche come Ansar al-Sharia hanno trovato nelle maglie dell’instabilità degli spazi all’interno dei quali poter poi rientrare, addirittura virando verso la costa. Molti di questi combattenti, provenienti dai teatri levantini dell’Iraq e della Siria, sono scappati verso il Sud libico, area tendenzialmente incontrollata, che pullula di traffici di ogni tipo, in cui gli ex membri dello Stato Islamico levantino hanno trovato un terreno fertile in cui riorganizzarsi. In questa situazione di caos, potrebbero puntare alla costa. Ci sono stati numerosi attentati rivendicati dall’Isis ed è addirittura circolata l’indiscrezione secondo cui al-Baghdadi si troverebbe in Libia. Questo ci fa capire che in un quadro destabilizzato le milizie islamiste potranno continuare a rappresentare una minaccia per la Libia e i Paesi vicini.
Osservatorio Globalizzazione: Lei è stata a più riprese dura con la politica libica dell’Italia, non solo riguardo alle azioni intraprese dall’attuale esecutivo ma anche in riferimento a quelli che lo hanno preceduto. In riferimento agli ultimi mesi, come ha potuto la Libia sfuggirci letteralmente di mano?
Michela Mercuri: Ritengo, rispetto a numerosi altri analisti di cui ho sentito i pareri, di non essere nemmeno stata troppo dura. Ho sostenuto la coerenza della politica italiana, principalmente quella di Minniti, nel sostenere il programma Onu che ha insediato il governo Serraj. Abbiamo riaperto la nostra ambasciata a Tripoli, siamo l’unico punto di contatto con i misuratini e, d’altro canto, abbiamo tutti gli interessi a Tripoli. L’ENI ricava nella Tripolitania il 70% del petrolio che estrae in Libia, i migranti partono da quell’area. Abbiamo sostenuto Serraj, ma è anche vero che abbiamo parlato poco con Haftar. Le nostre intelligence mantengono con questo un canale aperto, ma avremmo dovuto fare un po’ di più, non solo con Haftar ma anche con i suoi alleati regionali (Emirati Arabi, Arabia Saudita) e gli sponsor internazionali (soprattutto la Russia). Il bilancio della politica italiana non è così negativo, ma ora dobbiamo saper approfittare in questa situazione di impasse del fatto che numerosi attori internazionali, come Russia e Francia, si trovino indecisi, ponendoci come mediatori, vista la nostra posizione di forza a Tripoli, con gli attori che sostengono Haftar, tornando a ricoprire quella posizione importante in Libia che avevamo ai tempi di Gheddafi.
Osservatorio Globalizzazione: Sotto il profilo energetico e della sicurezza degli asset dell’Eni, come valuta il quadro?
Michela Mercuri: L’ENI è l’unico Paese straniera che dal 2011, pochi mesi dopo la morte di Gheddafi, è ritornata ad estrarre stabilmente petrolio in Libia. Eni è ritornata nel Paese e vi è rimasta anche durante la guerra civile del 2014 che ha portato alla fuga di Repsol, Total e del resto delle aziende dei Paesi che avevano voluto nel 2011 l’intervento contro Gheddafi. ENI, come detto, lavora soprattutto a Tripoli ove ha stabilito rapporti con poteri locali e milizie che sono tornati utili dopo la caduta di Gheddafi. Sottolineo una sorta di paradosso: la nostra politica, sia in Libia sia in altri scenari, va al traino dell’ENI, che sin dai tempi di Mattei apre la strada alla politica italiana. Dovrebbe essere il contrario, ma questo capitale di fiducia conquistato da ENI con gli attori locali è un fattore importante che rende il bilancio positivo.
Osservatorio Globalizzazione: Concludendo, ritiene che in Libia gli Stati Uniti, tornati di punto in bianco a far sentire la loro voce, stiano giocando una partita a sé o che sul lungo periodo cercheranno l’appoggio di una potenza europea come Italia o Francia?
Michela Mercuri: Credo che gli Stati Uniti non abbiano mai avuto veramente una loro posizione sulla Libia. Barack Obama ha acconsentito nel 2011 all’intervento voluto dalla Francia per perseguire il suo interesse nazionale più per pigrizia che per reale convinzione, perché Francia e Gran Bretagna gli avevano garantito di poter mantenere un certo disimpegno, cosa che poi non è accaduta. Trump sta procedendo sulla strada del suo predecessore, con un certo disinteresse per la questione libica, sebbene il ruolo di potenza degli Usa impone loro di riprendere in mano questo dossier, non fosse altro per l’obiettivo che gli Stati Uniti hanno di combattere a livello mondiale il terrorismo, di cui oggi di fatto la Libia è la “culla”. Credo che sia indispensabile riportare Russia e Stati Uniti nel teatro libico come attori importanti in una mediazione. In particolare, che ci piaccia o meno, gli Stati Uniti sono importanti, perché dialogano con i sauditi, fanno affari con loro, sponsor di Haftar, ma allo stesso tempo hanno un certo potere nei confronti degli attori dell’Ovest libico, che sostengono Serraj. Se in un primo momento Trump, come sembrano confermare alcune indiscrezioni, aveva avallato la linea pro-Haftar, poi sembra averci ripensato, tant’è che il Dipartimento di Stato ha smentito la notizia di un ricevimento di Haftar alla Casa Bianca. Gli Stati Uniti potrebbero ricoprire a distanza un ruolo maggiormente intenso all’interno del quadro libico: per farlo, dovranno però appoggiarsi su attori geograficamente più vicini. L’Italia può approfittare di questa situazione per replicare quanto successo negli Stati Uniti nel luglio scorso, quando Trump delegò Conte a risolvere la questione libica.
Alle risposte precedenti, la Professoressa Mercuri ha voluto condividere con l’Osservatorio Globalizzazione un commento personale riguardante le vicende degli ultimi mesi:
“Abbiamo sottovalutato il fatto che la guerra tra Haftar e la coalizione di milizie che sostenevano Serraj o ad esse si erano unite per ragioni strumentali, come quella di Misurata, ha avuto fin dall’inizio portata regionale. Haftar è armato, finanziato da emiratini e sauditi, anche per scopi religiosi, perché Riad vuole ampliare l’influenza dei salafiti madkaliti nella regione. Dall’altra parte, la risposta dei misuratini è stata portata avanti anche dai finanziamenti dei suoi alleati regionali, in particolare Turchia e Qatar. Sappiamo bene che dalla Turchia sono partiti armamenti, anche pesanti, alla volta di Tripoli. I membri del Libian National Army lo hanno addirittura pubblicizzato sulle loro pagine Facebook, che i contendenti in Libia usano per fare propaganda. Se non riusciamo a comprendere questa dimensione, data dal sostegno turco e qatariota alla fratellanza musulmana tripolina e di sauditi ed emiratini ai salafiti, non capiremo mai la vera portata di questo conflitto, che potrà finire solo quando convinceremo gli alleati regionali a “tagliare la paghetta” ai loro alleati. Anche per la mancanza di questa comprensione la comunità internazionale è rimasta bloccata in uno stato di impasse sul caso libico”.
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