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Trump via subito? Tutte le opzioni in campo

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Trump via subito? Tutte le opzioni in campo

Ancora pochi giorni e Donald Trump non sarà ufficialmente più il presidente degli Stati Uniti d’America.

Forse, potrebbe passare addirittura meno tempo. Dopo le vicende del 6 gennaio, insieme drammatiche e grottesche, stanno prendendo corpo oltreoceano ipotesi di fine anticipata del mandato per il presidente uscente, con il passaggio dei poteri ad interim al vice Mike Pence per il disbrigo degli affari correnti necessario a garantire la transizione verso l’amministrazione Biden.

Le opzioni sul tavolo sono essenzialmente tre: dimissioni, impeachment e utilizzo del XXV emendamento. Andiamo a esaminarle una per una.

Trump esclude le dimissioni

La soluzione più semplice sarebbero le dimissioni volontarie. Addirittura, prima dei fatti di Capitol Hill, questa sarebbe potuta essere l’opzione più conveniente per Trump stesso. The Donald, infatti, avrebbe potuto approfittarne per ottenere da Pence la grazia per i numerosi procedimenti a suo carico, emulando l’ex presidente repubblicano Richard Nixon, il quale si avvalse del sostegno di Gerald Ford a seguito della crisi innescata dallo scandalo Watergate[1].

Questa ipotesi è ormai fuori dal tavolo: troppo grave l’episodio dell’attacco al Congresso, che ha raffreddato i rapporti tra il presidente e il suo vice. Di sicuro, senza alcuna garanzia Trump non si dimette: c’è addirittura chi sostiene che stia contemplando la bizzarra idea di autograziarsi prima della scadenza del mandato.

Ipotesi evidentemente surreale, ma a rigor di logica lo era pure quella di aizzare una jacquerie verso il Campidoglio nel giorno della certificazione del voto dei grandi elettori. Per cui, mai dire mai.

Un nuovo impeachment per Trump

Il procedimento di impeachment è praticamente certo. Potrebbe partire già oggi, fortemente voluto dai democratici e in particolare dalla speaker della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi. È già il secondo per Donald Trump, che superò con successo, meno di un anno fa, il caso Zelensky-Hunter Biden.

Il funzionamento dell’impeachment, regolato dal combinato disposto dell’articolo I (sezione 2, quinto comma e sezione 3, sesto comma)[2] e dell’articolo II, sezione 4[3] della Costituzione americana, è piuttosto noto. Vale comunque la pena di rammentarlo.

Il presidente degli Stati Uniti (così come ogni detentore di una carica pubblica) può, in ipotesi di tradimento, corruzione o altri gravi reati, essere messo sotto accusa dalla Camera dei Rappresentanti e quindi giudicato ed eventualmente rimosso dal Senato. Nel caso specifico del presidente, la maggioranza necessaria per la rimozione è dei due terzi dei senatori.

Le vicende dell’Epifania sono state talmente eclatanti che non si potrebbe escludere del tutto un epilogo spiacevole per il presidente uscente, ma i tempi tecnici sono a favore del tycoon. Tutti e tre gli impeachment presidenziali svoltisi in passato (Andrew Johnson nel 1868, Bill Clinton nel 1998-99 e lo stesso Trump nel 2019-20)[4] sono durati diverse settimane. Ed è naturale che sia così, considerando la delicatezza dell’istituto e il coinvolgimento di entrambe le camere.

Certo, alcuni costituzionalisti sostengono che il procedimento potrebbe andare avanti anche a transizione conclusa e che un eventuale approvazione dell’impeachment impedirebbe a Trump di ricandidarsi alle prossime presidenziali. Tuttavia, questa strada allo stato attuale sembra difficilmente realizzabile, oltre che un po’ forzata.

La strada del XXV emendamento

Più rapido sarebbe il ricorso al XXV emendamento[5], aggiunto alla Costituzione statunitense nel 1967. Esso regola la successione dei poteri presidenziali in caso di morte, dimissioni o qualsiasi altra ragione per cui il presidente non sia più in grado di assolvere il proprio mandato. Si tratta di un’integrazione dell’articolo II, sezione 1, sesto comma della Carta, che già regolava la materia ma in maniera considerata troppo sbrigativa.

La norma prevede alla sezione 4 che, nell’ipotesi in cui presidente non sia in grado di svolgere le proprie funzioni, il vicepresidente possa sostituirlo con una decisione presa insieme a “una maggioranza dei titolari dei Dipartimenti dell’esecutivo oppure di altro organo, indicato con legge dal Congresso” e comunicata per iscritto alle due camere.

Da notare che anche l’eventuale possibilità per il presidente di opporsi di fronte al Congresso non riuscirebbe a rimetterlo al proprio posto, stante l’imminente fine del mandato.

L’utilizzo di questa previsione era già stato invocato in passato da alcuni commentatori contro lo stesso Trump, poiché in molti nutrono dei dubbi riguardo la sua salute mentale. Secondo questa tesi, il presidente avrebbe seri disturbi del comportamento, che gli impedirebbero di svolgere i propri compiti con necessari integrità e rigore. Quella che allora appariva come una provocazione, ora è diventata quantomeno una possibilità che, stando ai media americani, Mike Pence non avrebbe escluso.

Un Paese da ricucire

Qui però vanno fatte considerazioni di tipo sia politico che pratico. Trump si è reso conto, suo malgrado, di essere giunto a un punto di non ritorno. E, probabilmente consigliato da qualcuno a lui vicino, ha pubblicato un video tutto sommato conciliante. Ha condannato l’attacco al Campidoglio e ha assicurato una transizione ordinata, scongiurando altre sciagure e disordini sociali negli ultimi giorni del suo mandato. Non sgancerà, insomma, le tanto temute bombe nucleari, come temeva la Pelosi.

A questo punto, perché Pence e i repubblicani dovrebbero contribuire a estromettere un uomo che, per quanto perdente e furente, una certa presa sull’elettorato conservatore ce l’ha ancora? Rischierebbe di essere un suicidio politico per l’intero partito. Meglio allora lasciar correre e aspettare la scadenza naturale del mandato.

Dopodiché Trump sarà lasciato al proprio destino e toccherà al nuovo presidente Joe Biden dimostrarsi all’altezza di un compito che si preannuncia fin da subito estremamente arduo. Il leader democratico dovrà dimostrare capacità da pacificatore in un Paese profondamente diviso, così come da lui sostenuto e promesso al momento della vittoria elettorale.

La sfida si preannuncia difficile per la solidità politica e sociale degli Stati Uniti, alla luce degli imbarazzanti episodi di Capitol Hill condannati dall’opinione pubblica e dai leader di Paesi alleati (tra cui Angela Merkel, Giuseppe Conte, Benjamin Netanyahu e molti altri) e risoltisi in una pessima figura e in un danno d’immagine per una nazione che spesso si vanta di essere la più grande democrazia del pianeta.


[1] http://www.historyplace.com/speeches/ford.htm

[2] https://www.senate.gov/civics/constitution_item/constitution.htm#a1_sec2

[3] https://www.senate.gov/civics/constitution_item/constitution.htm#a2_sec4

[4] https://en.wikipedia.org/wiki/United_States_presidential_impeachment

[5] https://www.senate.gov/civics/constitution_item/constitution.htm#amdt_25_(1967)

Giornalista con alle spalle una formazione giuridica, culminata in una laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Perugia. Appassionato di storia, politica ed economia, ma anche di argomenti pop quali sport, enogastronomia e musica rock. Libero pensatore.

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