Turchia, Armenia, Azerbaijan: il “grande gioco” del Caucaso meridionale
Le relazioni tra Armenia e Azerbaigian, dopo mesi di pace fredda, sembrano essere sul punto della svolta. E il merito è anche dell’insospettabile Turchia, che sarebbe pronta ad un grande gesto per diventare il paciere de facto del Caucaso meridionale.
La notizia è di quelle (apparentemente) inaspettate: Turchia e Armenia sono al lavoro per ripartire da capo, cioè dal 1991, anno in cui la prima riconobbe l’indipendenza della seconda pur tuttavia congelando lo stabilimento di relazioni diplomatiche a causa della concomitante guerra nel Karabakh.
Molte cose sono cambiate da quel lontano 1991 ad oggi, ed altre sono rimaste uguali: tra Turchia e Azerbaigian è sempre “una nazione, due stati”, tra Azerbaigian e Armenia è sempre un’alternanza di guerra fredda e calda per la sovranità del Karabakh e tra Armenia e Turchia è sempre gelo a causa dell’annosa questione del genocidio – la cui oggettività storica, comunque, è materia di dibattito: ad oggi, invero, risulta riconosciuto soltanto da 33 Paesi –, ma i rapporti di forza tra gli attori sono mutati e lo stesso Caucaso non è più quello di una volta.
I più credono che il Caucaso continui ad essere il cortile di casa del Cremlino, ma la verità è che questa regione geostrategicamente rilevante per i destini dell’Eurasia è da tempo uscita dalla condizione storica della postsovieticità. La Georgia, per quanto bloccata nelle sue ambizioni dai conflitti congelati in Abchasia e Ossezia del Sud, prosegue il cammino verso l’Europa. La Cina ha ivi costruito alcune delle fermate più importanti della Nuova Via della Seta. La Turchia esercita un’influenza multidimensionale crescente, e non soltanto in Azerbaigian. Ed una costellazione variegata di attori è presente nella regione, dove cerca di colmare come e quanto può la progressiva ritirata della Federazione russa e le zone grigie; attori come il Pakistan, il Qatar, gli Stati Uniti, la Francia, la Bielorussia, la Serbia, la Bulgaria, la Grecia, la Spagna, gli Emirati Arabi Uniti e persino l’Italia – che da anni è il principale partner commerciale dell’Azerbaigian, nonché il suo principale alleato nell’Unione Europea.
Non deve sorprendere, alla luce della mutevolezza di questa regione, che l’Armenia di Nikol Pashinyan, dopo quasi un anno di pace fredda con l’Azerbaigian di Ilham Aliyev, sembri intenzionata a rimescolare le carte sul tavolo tentando un azzardo tanto rischioso quanto profittevole per tutti: la normalizzazione delle relazioni bilaterali con la Turchia. Una normalizzazione di cui si parla da tempo, che alla Russia non dispiace – Sergei Lavrov, non a caso, ha invitato i due Paesi ad andare avanti – e che potrebbe fare contenti tutti.
Pashinyan, uscito a pezzi dalla guerra ma vincitore dalle elezioni, potrebbe giocare la carta turca sia in casa – rassicurando un’opinione pubblica che serba una fobia a tratti irrazionale verso tutto ciò che è turcico – sia all’estero – vedendo nella normalizzazione un modo per prevenire crisi sul fronte occidentale e per smarcarsi, seppure debolmente, dal protettorato russo.
La Turchia, similmente, potrebbe sfruttare la mossa per togliersi di dosso l’immagine di potenza bellicosa e sciovinista, presumibilmente (ri)entrata nel Karabakh per terminare ciò che iniziarono gli ultimi ottomani e i primi kemalisti, ma anche per proporre un più pragmatico do ut des alla polemistica controparte. Perché se è vero che al mondo nulla è gratuito, il prezzo della pace potrebbe essere l’accettazione che non soltanto il Karabakh è perduto, o meglio azerbaigiano, ma che l’unica soluzione ai conflitti con Baku è la fine delle schermaglie di confine e dei sabotaggi del piano di ripresa e rinascita delineato a Mosca tra novembre 2020 e gennaio 2021. Piano che prevede, tra le altre cose, la riapertura dei principali corridoi economici e di comunicazione tra Karabakh e Nakhchivan, in particolare quello di Zangezur. Corridoi il cui sblocco interessa tutti, in particolare Turchia, Russia e Azerbaigian, che nei mesi scorsi hanno lanciato una rotta ferroviaria collegante Ankara a Mosca (via Baku).
Alla Russia non dispiace un avvicinamento tra Armenia e Turchia per una serie di ragioni. In primo luogo non potrà che essere limitato ed estemporaneo, perché troppe ed insormontabili sono le differenze che rendono le due nazioni inimiche da secoli. In secondo luogo ha il potenziale per dare impulso al processo di pace e alla diffusione di stabilità nella regione – che Mosca continua a vedere in termini di cortile di casa, e che dunque desidera tranquilla.
L’Azerbaigian, infine, non può che accogliere positivamente il dialogo tra Pashinyan ed Erdogan. Innanzitutto, come già scritto, v’è la consapevolezza che tale rapporto – se e quando verrà instaurato – non sarà né incisivo né esteso. E non va dimenticato, poi, che un’eventuale intromissione della Turchia nel processo di pace non potrebbe che influenzare il risultato complessivo e finale a favore dell’Azerbaigian – la pace, di nuovo, ha un prezzo.
I negoziati sottobanco tra Turchia e Armenia hanno avuto luogo sullo sfondo di altri eventi eloquenti, come la riaccensione della controversia del fiume Okchuchay – inquadrabile all’interno del contesto del processo di pace armeno-azerbaigiano, più nello specifico da ritenere uno strumento utile a Erevan per esercitare pressione negoziale su Baku –, e vanno letti nell’ambito dell’evento più importante, cioè l’avanzamento delle discussioni tra le diplomazie armena e azerbaigiana in materia di pace.
Se le trattative turco-armene e armeno-azerbaigiane dovessero andare a buon fine, pur non risolvendo la questione del Karabakh, il processo di pace regionale riceverebbe un impulso significativo e, cosa non meno importante, questa volta feliciterebbe tutti: vincitori, vinti e spettatori.
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