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(Non) andrà tutto bene?

(Non) andrà tutto bene?

E comunque, no, non andrà tutto bene.

Non andrà tutto bene a prescindere da cosa accadrà in autunno sul piano sanitario.

Non andrà tutto bene perché di fronte a calamità pubbliche che coinvolgono (in misura ovviamente variabile) tutti, l’unico atteggiamento giusto dovrebbe essere quello della collaborazione, della disciplina e dell’aiuto reciproco.

Dovrebbe cioè attivarsi quella forma antropologica fondamentale – che ha consentito alla specie umana di cavarsela comparativamente bene – per cui si fa fronte comune a un nemico comune. E nel fare fronte comune si accettano sacrifici, e si forniscono aiuti, si dà credito e si pretende di averne.

Solo in questo modo, cioè solo facendo ogni sforzo possibile, dall’alto e dal basso, per concepire una condivisione delle responsabilità e degli oneri, attraverso ogni classe ed ogni ceto, solo così si potrebbe affrontare un urto che finirà inevitabilmente per colpire tutti.

L’idea che siamo di fronte ad un momento destinato a passare presto è illusoria. La presente crisi ha tutte le caratteristiche di una crisi non a V, ma ad L, in cui ci si stabilizza nel medio periodo su di un livello di produzione e consumo più basso. Peraltro già prima degli eventi del 2020 la situazione era socialmente erosa in gran parte dei paesi maggiormente industrializzati, soprattutto in Europa. Una simile situazione non può essere affrontata con l’usuale metodo darwinista della competizione che selezionerebbe gli agenti economici più sani, perché il numero dei vincenti è troppo esiguo e la condizione dei perdenti è troppo grave.

Di principio, a livello politico apicale, sia interno che europeo, una parziale consapevolezza di ciò sembra esserci e i (limitati) interventi a fondo perduto o l’allentamento delle regole europee testimoniano di un barlume di coscienza che la strada di un rapido ritorno al business as usual non è percorribile.

Ma questo barlume di coscienza è fragilissimo, e non è minimamente supportato da una disposizione popolare affine. Di ciò non c’è da stupirsi, visto che non si passa indenni da mezzo secolo di indottrinamento teorico e pratico, per cui l’unica forma funzionale di comportamento è la lotta di tutti contro tutti.
Che questa lotta prenda le forme della concorrenza economica, o della lotta rivendicativa per tutele legali particolari, o del semplice quotidiano mors tua vita mea, non ha importanza.

Si tratta di un atteggiamento di fondo, diffuso e ampiamente maggioritario, per cui la concessione di credito o l’accettazione di una disciplina per il bene comune, non hanno più alcun senso.

L’unico istinto rimasto è quello di scuotersi di dosso ogni onere, e di cercare un colpevole, un soggetto o gruppo verso cui far convergere discredito, per stagliarsene al di sopra, ed accreditare così per contrasto sé stessi e le proprie richieste.

Lavoratori statali vs. lavoratori privati, vecchi vs. giovani, nord vs. sud appaiono più che mai come tribù sul piede di guerra, alla ricerca, come e più di prima, di tutti gli argomenti possibili per screditare la ‘controparte’, sperando di trarre qualche beneficio dal discredito del competitore.
A questa tendenza si aggiunge poi la battaglia simbolica che avviene nei confronti di tutto un serraglio di soggetti semimitologici, da Soros a Bill Gates, dalla Cina alla Russia, dall’OMS al Bilderberg, da Trump a Big Pharma, che funzionano come punching ball per ridurre lo stress.
Ovviamente tutti questi soggetti, e molti altri meno noti, sono soggetti reali, che perseguono realmente i propri interessi, come sempre, ma il loro carattere mitologico è dato dalla loro funzione psicologica: nessun sa propriamente chi di questi stia facendo cosa, o perché, ma questo non ha alcuna importanza, perché l’unica cosa che conta è che tirandogli un po’ di freccette sui social si ha l’impressione di star lottando, di difendersi da un’aggressione che ci ha messo in difficoltà.
Si tratta di una reazione nervosa, che non ha mai né alcun fondamento dimostrabile, né alcuna conseguenza pratica.
Sono epiche battaglie negli stagni dei social, che hanno la funzione di permettere a molti di ‘sentire di star lottando’.
Infatti l’automatismo comportamentale appreso è uno e uno soltanto, il confronto competitivo nei termini di diffidenza ed aggressione.
Chi lo fa sopravvive psicologicamente una giornata in più, e domani è un altro giorno.

Tutto ciò sarebbe folclore, se non segnalasse appunto una disposizione di fondo fallimentare, in cui ciascuno cerca solo di liberare sé da ogni onere, anche minimo, e al contempo di contrattaccare. E’ qualcosa che appartiene all’etologia più che specificamente all’antropologia. La mascherina è vissuta come la briglia dal cavallo selvaggio, o la museruola dal lupo. Ogni richiamo alla responsabilità viene visto come una minaccia oppressiva. E questo naturalmente non vale solo ‘in basso’, ma con perfetta continuità a tutti i livelli di censo e potere. La logica secondo cui il soggetto abbiente si chiede come può evitare di contribuire al bene comune è la stessa per cui il soggetto non abbiente cerca di calpestare chi gli sta attorno per accedere a una fetta più grande.

Dunque, molto semplicemente, la nostra disposizione rispetto a questo grande problema collettivo è strutturalmente fallimentare.

Forse è anche inutile lamentarsene, perché non poteva essere diversamente.

Ma sia come sia, sotto queste condizioni non andrà affatto tutto bene.

Andrea Zhok (Trieste, 1967) si è formato presso le università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. Attualmente insegna Antropologia Filosofica presso l’Università degli Studi di Milano. Tra le sue pubblicazioni monografiche: "Il concetto di valore: tra etica ed economia" (Mimesis 2001); "Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo" (Jaca Book 2006); "Emergentismo" (Ets 2011); "La realtà e i suoi sensi" (Ets 2012).

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