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L’Ungheria oltre l’Occidente: la grande strategia di Viktor Orban

Orban Ungheria

L’Ungheria oltre l’Occidente: la grande strategia di Viktor Orban

L’Ungheria è la nazione protagonista del secondo articolo di Emanuel Pietrobon dedicato alle culture politiche che guardano oltre l’Occidente. Buona lettura!

L’Ungheria è uno dei nuovi protagonisti dell’arena internazionale e non è questione di tifo politico, di presunte simpatie per Viktor Orban: è un dato di fatto. Questo piccolo Paese dell’Europa centrale, che per via del suo percorso storico è solerte identificato come culturalmente appartenente al mondo balcanico e all’Est slavo, è uscito distrutto dai traumi del Novecento: prima la dissoluzione dell’impero, smembrato a Versailles con il Trattato del Trianon, poi i traumi della Seconda guerra mondiale, della dittatura comunista e di una durissima transizione all’economia di mercato.

Ancora oggi l’Ungheria è un Paese in via di sviluppo e affronta una serie di sfide che ne minacciano il futuro: la crisi delle culle, lo stallo in uno stadio di crescita avanzata ma non arricchente, una posizione geografica scomoda che la rende vulnerabile alle crisi migratorie provenienti dal Medio Oriente, la difficoltà di trovare un modello economico che la renda meno dipendente dalle importazioni e dagli investimenti esteri perché, scarsa di risorse e priva di uno sbocco sul mare, è perennemente in balìa delle tendenze distruttive provocate dalla globalizzazione.

Fidesz e Orban oltre l’occidentalismo

È in questo contesto di grande incertezza e di sfide epocali che il popolo ungherese ha dato fiducia ad un partito politico che continua ad essere incompreso in gran parte dell’Europa occidentale: Fidesz. Fondato nel 1988, ma al potere soltanto dal 2010, questo partito è riuscito ad essere talmente enigmatico che in passato ha ricevuto finanziamenti anche da George Soros, l’uomo-sponsor del liberalismo.

Lo stesso co-fondatore di Fidesz, e suo attuale capo, Viktor Orban, ha usufruito del denaro del magnate e speculatore finanziario ungherese per perfezionare i suoi studi. È di dominio pubblico il fatto che, nel 1989, Orban ricevette una borsa di studio dalla Fondazione Soros per recarsi al Pembroke College dell’università di Oxford e lì imparare l’arte della scienza politica dal filosofo hegeliano Zbigniew Pelczynski.

Nessuno aveva compreso all’epoca Orban e il disegno di Fidesz e nessuno sembra comprendere oggi, a dieci anni dall’insediamento alla presidenza del consiglio dei ministri del primo e a trentadue anni dalla fondazione del secondo. Quello che sta succedendo in Ungheria, un piccolo Paese dalle grandi aspirazioni, è semplice: il passato è tornato in scena e reclama il proprio posto nel presente e nel futuro di una nazione che, storicamente, mai ha fatto parte del cosiddetto Occidente.

Nel 2020 sono accadute molte cose, completamente ignorate al di fuori dell’Ungheria – che viene ingiustamente trascurata dai media e dagli analisti politici perché ritenuta, a torto, geopoliticamente irrilevante – ma che invece sono meritevoli di una lettura in quanto fondamentali per capire a che punto sia la de-occidentalizzazione nel Paese di Attila e quale sia la proiezione dell’agenda estera di Fidesz.

Febbraio – aprile: l’emergenza sanitaria causata dall’esplosione della pandemia di Covid19 si allarga rapidamente in tutta Europa. Ad aiutare la piccola Ungheria per mezzo di ingenti carichi di aiuti umanitari non è l’Unione Europea – almeno, non subito – ma il Consiglio Turco. Uzbekistan, Kazakistan, Turchia; questi i primi Paesi che rispondono alle chiamate di aiuto di Budapest e Orban lo evidenzierà più volte nei mesi successivi, lanciando una critica neanche troppo velata all’indirizzo di Bruxelles.

Aprile: il presidente rumeno Klaus Iohannis sventa un tentativo concertato del Partito Social Democratico e del secessionismo ungherese di concedere larga autonomia, anticamera per una potenziale indipendenza, alla cosiddetta Terra dei Siculi, una regione magiara nel cuore della Transilvania. Il presidente rumeno punta il dito direttamente contro Budapest, facendo il nome del primo ministro ungherese ad una conferenza stampa: “Cosa vi ha promesso Viktor Orban in cambio di questo accordo?”.

Maggio: All’indomani dei fatti nella Terra dei Siculi, Orban pubblica sul suo profilo Facebook un mappamondo antico nel quale viene ritratta la Grande Ungheria; protestano e si preoccupano i governi di Romania e Croazia.

Giugno: in occasione del centenario del Trattato del Trianon, l’accordo di pace di Versailles focalizzato sul destino dell’impero austro-ungarico e che ne determinò la completa disgregazione, viene pubblicato un sondaggio da parte dell’Accademia Ungherese delle Scienze – non proprio un organo filogovernativo. I risultati sono fonte di giubilo per Orban e Fidesz, una conferma del fatto che hanno ragione di esistere e di combattere contro l’occidentalizzazione del popolo magiaro, figlio di Hunor e Magor. Questi i punti salienti: il 94% degli intervistati ritiene che il trattato del Trianon sia stato “ingiusto ed eccessivo”, l’85% crede che sia stato la “più grande tragedia” accaduta all’Ungheria nel corso della sua storia, il 70% è convinto che quel foglio di carta che ha riscritto per sempre la geografia del Paese sia stato il frutto delle invidie geopolitiche delle grandi potenze.

Luglio: vengono pubblicati i risultati di uno studio sulle origini genetiche del popolo magiaro condotto dall’Istituto di Ricerca per la Nazione Ungherese. Gli scienziati hanno analizzato i resti dei  re della casa Arpad, la prima dinastia reale d’Ungheria, concludendo che verosimilmente sarebbero provenuti dall’Asia centrale, dall’Afghanistan settentrionale più precisamente.

Qualcosa di incredibilmente profondo e potente lega l’agenda asiatica di Fidesz, che ha portato l’Ungheria a diventare membro osservatore del Consiglio Turco, il finanziamento dell’irredentismo ungherese in Romania e nel resto d’Europa, la scoperta che i magiari vivono le conseguenze del Trianon come se fosse accaduto ieri e una ricerca sulle origini degli eredi di Attila: la consapevolezza della propria identità.

Il richiamo dell’Ungheria profonda

Orban, proprio come Erdogan in Turchia, è l’espressione della rivolta dell’Ungheria profonda contro l’occidentalizzazione forzata del Paese, un Paese che dall’Occidente è stato smembrato, poi lasciato in balìa dell’imperialismo sovietico e infine sfruttato come una fabbrica a basso costo.

Non si può capire l’ascesa di Orban, e l’incredibile supporto di cui gode, senza prendere in considerazione tutto questo. Ed è tremendamente semplicistico ridurre il fenomeno Fidesz a qualcosa di contingente ed estemporaneo, destinato ad evaporare nel tempo, e bollare Orban come un autocrate dalle tendenze dittatoriali, perché a questo punto è doveroso ricordare che il secondo partito più seguito del panorama nazionale – e che è in costante crescita – è Jobbik, una forza di destra radicale – recentemente reciclatasi moderata per rubare voti a Fidesz – dal cui ventre fertile sono nati gruppi di vigilanti, organizzazioni paramilitari e altri partiti neofascisti, come Mi Hazank, che sono estremamente attraenti per i giovani ovvero coloro che dovrebbero essere più liberali e affascinati dallo stile di vita occidentale.

Da un decennio a questa parte nelle scuole e nelle università ungheresi si studia sempre meno l’Europa ed è scomparsa l’enfasi sull’europeità dei magiari, mentre nei curricula di studio hanno fatto apparizione temi come il turanismo, il panturchismo, le origini asiatiche degli unni; i libri di storia sono stati riscritti e maggiore rivelanza è stata data al passato glorioso dell’impero ungherese, del suo ruolo di defensor fidei e delle sue innumerevoli guerre.

Uno dei sintomi più evidenti della rinascita dell’Ungheria profonda è la riscoperta del folklore: eventi e feste popolari di stampo etno-culturale non sono mai state così partecipate e sentite come nell’era di Fidesz; si pensi alla marea umana che attrae annualmente la celebrazione del Busójárás, una festa carnascialesca di origine slava.

Ma la cosa più importante è che il folklore non è stato commercializzato, non è ancora caduto vittima della mercificazione tipica di ogni uso e costume che accade nelle società capitalistiche. Si pensi al Natale, che nei paesi occidentali ha un senso sempre più laico e consumistico, e alla Pasqua, il cui senso cristiano sta addirittura venendo censurato in Paesi come l’Inghilterra. Non vi sarebbe nulla di identitario nella popolarizzazione del carnevale slavo-ungherese per scopi commerciali, ma il punto è che non è avvenuto.

Infine, vi è il fatto che Fidesz, coerentemente con l’agenda anti-occidentale perseguita, promuove un tipo di migrazione da e verso l’Ungheria avente due direttrici: l’area Visegrad, e la sfera eurasiatica nella quale i pensatori turanisti del primo Novecento speravano di dar vita ad un’alleanza fra i popoli ugrofinnici, altaici, turchi e mongoli. Ogni anno, migliaia di studenti provenienti dall’Asia centrale, dalla Turchia, dalla Mongolia, dalla Corea del Sud e dal Giappone scelgono Budapest come destinazione per i loro studi, sulla base di un programma governativo, lo Stipendium Hungaricum, che offre loro borse di studio ed alloggio.

Magiarismo, turanismo e panturchismo questi sono i nuovi vettori che stanno guidando l’agenda estera di Fidesz e che stanno conducendo ad una ri-nazionalizzazione delle masse; e il punto di arrivo finale di tutto questo sarà la de-occidentalizzazione dell’Ungheria ed il suo ritorno allo stato primordiale, che è asiatico.

La grande strategia di Fidesz

Ma che cosa sono queste tre scuole di pensiero che animano l’agenda di Fidesz e ottengono grande riscontro anche nel pubblico, soprattutto fra i più giovani?

Il magiarismo, come intuibile, è il movimento che mira alla costruzione di una sfera egemonica pan-ungherese, ruotante attorno a Budapest, nell’Europa centro-orientale. È nel contesto del magiarismo che va inquadrata l’agenda espansionista di Orban a detrimento della Romania, in Transilvania, dell’Ucraina, nella Transcarpazia, e della Croazia, nella Baranja.

Il panturchismo è una scuola di pensiero che affonda le sue origini sia in Ungheria che in Turchia e che promuove un’unione dei popoli di origine turcica stanziati nell’Eurasia, dai Balcani alla Cina. È nel nome del panturchismo che la Turchia di Erdogan sta finanziando la costruzione di centri culturali e università, portando avanti iniziative di stampo culturale ed identitario e finanziando partiti o movimenti autonomisti/secessionisti ovunque si trovino popolazioni turciche: dalla Gagauzia moldava alle repubbliche siberiane di Tuva e della Jakuzia.

Il richiamo identitario proveniente dal panturchismo si è rivelato incredibilmente potente; perciò Fidesz ha deciso di introdurlo nella propria agenda estera. È soltanto avendo chiaro questo quadro che si può comprendere la decisione di Orban di entrare a far parte del Consiglio Turco, che recentemente ha aperto un ufficio di rappresentanza a Budapest, e di costruire un sodalizio con Ankara che spazia dagli affari economici alla collaborazione accademica e culturale, fino al reciproco appoggio in ambito diplomatico.

Infine vi è il turanismo. Si tratta di una scuola di pensiero nata a cavallo fra il 19esimo e il 20esimo secolo negli ambienti intellettuali dell’impero austro-ungarico e dell’impero ottomano con l’obiettivo di costruire un’alternativa ideologica al panslavismo e al pangermanesimo, due forze che insieme stavano riscrivendo la geografia dell’Europa centro-orientale e dei Balcani a detrimento del triangolo Budapest–Vienna–Istanbul. In sostanza, i turanisti si appellavano ai popoli uralo-altaici e turchi stanziati in Europa affinché si unissero in un’alleanza in ragione della loro comune identità etnica e spirituale. Questi popoli erano, e sono, i magiari dell’Ungheria, i finni di Finlandia e Paesi Baltici, i tatari dell’impero russo, e gli ottomani. A latere, alcuni turanisti hanno provato ad estendere l’idea di un’alleanza fino ai popoli residenti nelle regioni più remote dell’Asia, come i mongoli, i coreani e i giapponesi, considerati vicini spiritualmente in quanto fonti di conoscenze antiche e propensi ad uno stile di vita conservatore.

Rispolverando il turanismo, Orban non soltanto ha provato di avere un bagaglio culturale molto vasto sulla storia dell’Ungheria, riconfermandosi un intellettuale di eccelsa erudizione ancor prima che un politico, ma ha anche percorso l’unica via possibile per un Paese che altrimenti sarebbe condannato all’irrilevanza geopolitica in quanto carente di risorse naturali, privo di uno sbocco sul mare e continuamente esposto ai disegni egemonici delle maggiori potenze europee, proprio come in passato. Oggi, l’Ungheria è tanto vicina al mondo turco quanto alla Corea del Sud e del Giappone, sempre sulle orme del turanismo, e se di Europa si parla è solo per una questione geografica.

Budapest guarda all’Oriente

Quindi, delineata brevemente la storia magiara, appare chiaro come l’Istituto di Ricerca per la Nazione Ungherese non stia compiendo alcun un tentativo di manipolazione storica per fini politici, come qualche media occidentale ha denunciato: i magiari, cugini degli unni, erano una delle tribù nomadi stanziate fra l’Asia centrale e la Siberia che prima dell’anno Mille giunsero nell’Europa orientale. La vera manipolazione della realtà oggettiva è continuare a dipingere gli ungheresi come un popolo europeo.

Orban, nel recupero del pensiero turanista e panturchista – entrambi declinati in un senso cristianeggiante, coerentemente con il passato dell’impero ungherese di Antemurale Christianitatis –sta tentando di costruire un futuro per l’Ungheria che non sia quello dell’anonimato. Infatti, l’occidentalizzazione comporta omologazione identitaria, conformismo ideologico e amnesia storica – ovvero perdita di coscienza nazionale – tre elementi che, in definitiva, lavorano per la trasformazione di popoli, culture e nazioni in surrogati e sottoprodotti dell’America.

Essendo, quello di Fidesz, un disegno ideologico intrinsecamente antioccidentale e con lo sguardo rivolto alle radici e all’Oriente, è naturale che sia anche cristiano ed illiberale.

Il primo punto è un riferimento al fatto che fra i progetti più ambiziosi di Orban vi è la ri-cristianizzazione dell’Ungheria, che nell’epoca comunista è stata ateizzata con la forza e da allora è rimasta una società profondamente secolare. Si inquadrano nell’ambito di questo progetto la riscrittura della costituzione, il maggiore spazio concesso alle chiese cristiane nell’arena pubblica, il partenariato instaurato con il Vaticano nella difesa dei cristiani perseguitati nel mondo, e l’introduzione delle nuove generazioni ai valori cristiani.

Ma perché il cristianesimo sarebbe antitetico all’Occidente? Pensiamo al semplice fatto che le origini di questo concetto, di cui abbiamo dubitato sulla sua esistenza genuina, si riconducono alla Rivoluzione francese: l’evento che ha manifestato la natura intrinsecamente e ferocemente atea ed anticlericale del liberalismo illuminista. Fu l’epoca del genocidio vandeano, motivato dall’anticattolicesimo, e dell’abolizione di Dio nel nome dei culti panteistici e paramassonici della Ragione e dell’Essere Supremo. Eppure, questo episodio storico, il vero spartiacque fra l’Europa della Tradizione e quella della Modernità, continua ad essere rappresentato come il momento in cui i presunti ideali dell’uguaglianza, della fratellanza e della libertà avrebbero prevalso sulle forze dell’oscurantismo.

Il cristianesimo è antitetico all’Occidente perché quest’ultimo ha come proprio fondamento una rivoluzione atea che ha tentato di cancellare il cristianesimo dalla storia dell’Europa. Perciò essere cristiani significa essere antioccidentali, e il progetto di Orban è antioccidentale nella misura in cui ambisce a preservare ed esaltare l’identità cristiana della nazione magiara.

Infine vi è il secondo punto, quello dell’illiberalismo. Il primo ministro ungherese ha esposto il suo personale pensiero sulla democrazia e sul futuro dell’Ungheria nel luglio 2018, in occasione di un discorso pubblico fatto alla comunità magiara di Băile Tușnad (Romania). Ogni anno, più o meno nello stesso periodo, è tradizione che Orban si rechi in Transilvania per parlare ai suoi connazionali dei traguardi raggiunti da Fidesz in Ungheria e nel mondo. Due anni fa, però, Orban volle condividere qualcos’altro: una visione, sperando di spingere i propri connazionali a riflettere sul mondo che li circondava e sul futuro che avrebbero voluto per i loro figli. Il discorso di  Băile Tușnad, anche in ragione della sua lunghezza, può essere ritenuto un vero e proprio manifesto politico, e ciò che segue ne è un riassunto a grandi linee:

  1. Esiste una profonda divisione culturale fra l’Europa occidentale e l’Europa centro-orientale; la prima tenta da sempre di egemonizzare l’ultima sventolando la presunta superiorità del liberalismo e degli altri valori che ne guidano le azioni, l’ultima ha il diritto–dovere di difendersi da questa prepotente sopraffazione e avrà successo nel resistere soltanto se acquisirà piena consapevolezza della propria peculiare identità, che è cristiana, conservatrice ed etno-nazionalista, che le sarà fondamentale non solo per affrontare l’Europa occidentale ma anche minacce più gravi e pressanti come il mondialismo, il multiculturalismo e l’ideologia di genere.
  2. L’Europa centro-orientale, a guida possibilmente magiara, è chiamata a fermare il declino della civiltà europea, che viene ritenuto pericolosamente avanzato. La decadenza dell’homo europeus si sta manifestando in quattro forme: la perdita dello spirito religioso (la scristianizzazione), la perdita della creatività (a causa dell’autocensura, dell’esaltazione della mediocrità, della tendenza alla massificazione e della dittatura del politicamente corretto), la perdita dello spirito d’avventura e la perdita dell’attitudine imprenditoriale.
  3. Il declino della civiltà europea, e in particolare le quattro forme suscritte, è alla base della degenerazione degli Stati democratici liberali in Stati non-democratici liberali, caratterizzati dal dominio di forze politiche e culturali che pur autodefinendosi liberali disprezzano la libertà, soprattutto di pensiero e di religione, e tentano di omologare le idee e i valori dei loro abitanti a quelli del potere dominante.
  4. L’Europa centro-orientale a guida magiara ha una sola possibilità di sopravvivenza, che consiste nel prendere atto dello scontro in corso ed elaborare un’alternativa al liberalismo occidentale. Quest’alternativa, secondo Orban, è la democrazia cristiana. Il nome potrebbe indurre in errore ma non si tratta di un progetto teocratico quanto di un sistema che “protegga lo stile di vita maturato dalla cultura cristiana (…) sostituisca l’elite liberale con un’elite democratica cristiana (…) e difenda i valori scaturiti dalla fede, come la dignità umana, la famiglia e la nazione”.
  5. La democrazia cristiana è illiberale, un termine che Orban utilizza senza accezione negativa perché significa semplicemente che nasce in contrapposizione al liberalismo.

Dibattito sull’Occidente

Classe 1992, è laureato in Scienze internazionali, dello sviluppo e della cooperazione all’università degli studi di Torino con una tesi sperimentale intitolata “L’arte della guerra segreta”, focalizzata sulla creazione di, e sulla difesa dal, caos controllato. Presso la stessa università si sta specializzando in Studi di area e globali per la cooperazione allo sviluppo – Focus mondo ex sovietico. I suoi principali campi di interesse sono geopolitica della religione, guerre ibride e mondo russo, che negli anni lo hanno portato a studiare, lavorare e fare ricerca in Polonia, Romania e Russia. Scrive per e collabora con diverse testate, tra cui Inside Over, Opinio Juris – Law & Political Review, Vision and Global Trends, ASRIE, Geopolitical News. Le sue analisi sono state tradotte e pubblicate all’estero, ad esempio in Bulgaria, Germania, Romania, Russia.

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