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La lezione di Federico II per il Medio Oriente

Federico II

La lezione di Federico II per il Medio Oriente

Lo scorso 28 agosto si è tenuto a Baghdad un summit regionale che ha riunito i rappresentanti dei principali attori dell’area MENA. Allo stesso tavolo si sono seduti premier, ministri ed ambasciatori di Iraq, Turchia, Libano, Egitto, Kuwait, Yemen, Iran e pressoché tutte le monarchie del Golfo. L’unico leader europeo presente era il presidente Francese Emmanuel Macron in qualità di co-organizzatore dell’evento insieme al governo iracheno. La Conferenza di Baghdad può essere vista come un importante segnale di distensione nei rapporti fra le potenze del Golfo Persico dopo un periodo di forti tensioni. La scelta dell’Iraq come paese ospitante indica sicuramente l’interesse della dirigenza di Baghdad a tornare ad avere un ruolo importante nella regione dopo anni di crisi ma ha anche un valore simbolico per Iran e Arabia Saudita. Il colloquio fra i rappresentanti dei due schieramenti è avvenuto proprio nella capitale del paese dove attualmente si incrociano le sfere di influenza dei due avversari. In seguito alla caduta di Saddam Hussein Iran e Arabia Saudita hanno fatto a gara per contendersi il vuoto lasciato dal leader baatista, un processo ulteriormente accelerato dal progressivo ritiro delle forze americane iniziato nel 2011. A fare d’attrito all’espansione della loro influenza in Iraq è stata solamente la comparsa dell’ISIS e la presenza sul territorio di milizie proxy sostenute da ambedue le potenze. A questi fattori si è aggiunta inoltre la riluttanza degli stessi leader politici iracheni, già divisi al loro interno su faglie etniche, religiose e territoriali, ad accettare definitivamente l’uno o l’altro paese straniero come proprio patrono. 

L’importanza di un simile incontro non dev’essere sottovalutato da parte delle cancellerie europee perché rivela come tra due fronti apparentemente monolitici come Iran e Arabia Saudita esistano canali carsici di comunicazione che non necessitano della mediazione occidentale per funzionare. Negli ultimi mesi erano già emersi segnali di riavvicinamento tra le parti nonostante il previsto cambio della guardia a Teheran tra riformisti e conservatori, da molti ritenuti meno flessibili e più inclini al conflitto dei predecessori. In realtà in un classico sfoggio di pragmatismo le massime cariche del paese, dalla Guida Suprema Ali Khamenei al nuovo ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian hanno sottolineato la priorità delle relazioni con i soggetti politici regionali, sauditi inclusi, mettendo apparentemente in secondo piano i rapporti con l’Europa e gli Stati Uniti, rei di aver mantenuto un comportamento incostante se non addirittura apertamente aggressivo nei confronti dell’Iran. Che si tratti di una strategia comunicativa o meno è fondamentale per l’Europa tenere in grande considerazione le conseguenze e gli input strategici che questo tipo di summit possono produrre, soprattutto in un momento di instabilità internazionale dovuta alla pandemia e all’acuirsi della crisi afghana. Il rischio può essere quello di una progressiva esclusione dalla regione con conseguenze molto pesanti sul piano della sicurezza internazionale. Prima che la tragedia di Kabul raggiungesse il suo apice il principale tema sul tavolo dell’Europa in ottica MENA era la trattativa per il ripristino dell’accordo nucleare iraniano (JCPOA) in discussione a Vienna, di vitale importanza tanto per la Repubblica Islamica quanto per l’Unione Europea.

Eventi come la Conferenza di Baghdad possono essere considerati quasi un contraltare ideologico alla “maximum pressure strategy” portata avanti contro l’Iran dall’ex Presidente americano Donald Trump e proseguita, senza mutamenti apprezzabili, dall’amministrazione Biden. Solo di recente abbiamo assistito all’eliminazione di due figure apicali iraniane come Qassem Soleimani e Mohsen Fakhrizadeh sotto Trump e la ripresa dei bombardamenti contro le basi proxy sciite nel Levante da parte della nuova amministrazione. Senza contare la continua escalation di sanzioni da parte del Dipartimento di Stato americano. 

Una simile combinazione di deterrenza hard e restrizioni economiche non sembra aver portato affatto ad un’accelerazione del processo diplomatico ma ha anzi reso più difficile il raggiungimento di una soluzione diplomatica alla contesa. Se i paesi membri dell’Unione Europea vogliono rafforzare il partenariato con le nazioni dell’area MENA, incentrato su dossier come il terrorismo, l’immigrazione e la sicurezza energetica sarà necessario uno sforzo maggiore rispetto a quello dimostrato finora nel caso del JCPOA.  

Riflettendo sul recente summit in Iraq mi è tornato alla mente un altro evento storico piuttosto remoto in cui, nonostante fossero coinvolti soggetti molto forti militarmente, fu il dialogo e non la forza bruta a portare alla risoluzione di un conflitto in Medio Oriente. Mi riferisco all’accordo siglato nel 1229 d.C. dall’imperatore Federico II di Hohenstaufen ed il sultano Ayyubide del Cairo al-Kāmil. In quell’occasione fu concluso un negoziato che concedeva nuovamente la sovranità su Gerusalemme ai cristiani dopo che questa era stata riconquistata da Saladino quarantadue anni prima. Nonostante la Città Santa venisse formalmente consegnata alle forze cattoliche il negoziato concedeva larga libertà di culto ai musulmani e la tutela dei loro luoghi santi in Gerusalemme. Tutto questo avvenne senza che fosse sparsa una singola goccia sangue a differenza delle precedenti incursioni crociate in Terrasanta.  Le fonti dell’epoca fanno trasparire come sia al-Kāmil che Federico II furono sottoposti a forti pressioni da parte dei loro sudditi ed alleati, che disapprovavano non solo i termini dell’accordo ma anche la modalità con la quale Gerusalemme passava da uno schieramento all’altro. Centri di potere molto influenti che agivano alle loro spalle, come il Papato e i famigliari del sultano, avevano interesse che il negoziato fallisse e si passasse direttamente alle armi per risolvere la contesa. Ciononostante le ottime capacità politiche di entrambi i leader prevalsero sul desiderio di vendetta e sul fanatismo religioso. Dal punto di vista del sovrano del Cairo un ennesimo scontro con i “Franchi” sarebbe stato uno spreco di forze preziose utile a consolidare la sua presa sull’Impero Ayyubide, diviso tra i discendenti di Saladino. Per quanto riguarda Federico II, desideroso di completare la promessa crociata e di appropriarsi de facto del titolo di Re di Gerusalemme, fu decisiva nel successo diplomatico la sua straordinaria humanitas, che gli valse il giusto appellativo di Stupor Mundi. L’imperatore cattolico parlava fluentemente l’arabo e nutriva una notevole curiosità per la cultura mussulmana, caratteristiche che permisero ad al-Kāmil di avvicinare con successo Federico. Fondamentale fu la sapiente mediazione dell’ambasciatore del sultano, l’Emiro Fakhr al-Dīn Ibn al-Shaykh, che divenne amico personale dell’Hohenstaufen, facilitando notevolmente i rapporti fra i due sovrani.

Esempi storici di successi diplomatici tra occidente e oriente come quello portato avanti da Federico II ed al-Kāmil non devono essere dimenticati. Dimostrano la necessità di una classe dirigente preparata, che sappia promuovere relazioni bilaterali proficue, regionali ed extra regionali. La cooperazione fra le nazioni per essere duratura deve costruirsi attraverso un’azione diplomatica di alto livello protetta sì da strumenti di difesa ben affilati, ma allo scopo di tutelare il dialogo, non di imporlo attraverso la forza. 

Laureato in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano, ha conseguito un Master di Primo Livello in Middle Eastern Studies presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Studioso di storia contemporanea e appassionato di studi strategici, i suoi interessi spaziano dalla Prima Guerra Mondiale alle moderne security policy dell’area MENA.

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