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Trump e l’iniezione di disinfettante: l’ignoranza della solitudine

Trump e l’iniezione di disinfettante: l’ignoranza della solitudine

L’ignoranza delle elite è una delle conseguenze più problematiche dell’era neoliberista: ce ne parla approfonditamente Lucio Mamone.

A diversi lettori non suonerà certamente nuova la storia del turista americano in Italia che, ripensando alla triste sorte dei Pellerossa confinati nelle riserve, chiede mosso da irrefrenabile curiosità: «Ma voi gli antichi Romani dove li avete messi?» Per parte mia, ho sentito almeno un paio di versioni di questa storia, il che mi induce a pensare che si tratti di una leggenda metropolitana, magari con qualcosa di vero. In questi giorni però la storia ha conosciuto una spassosa rivisitazione con un Americano che, sbalordito dall’efficacia del disinfettante contro il Coronavirus, questa volta si chiede: «Perché non iniettarlo direttamente?». Rispetto all’originale il remake vanta un’incontestabile veridicità, oltre ad un cast d’eccezione: il Presidente degli Stati Uniti.

Dopo aver finito di ridere della straordinaria stupidità di quest’uomo, è forse opportuno fermarci a pensare su un elemento ben più ordinario che questa vicenda fa emergere e che a suo modo riguarda la cultura occidentale nel suo complesso. Il progetto illuminista, su cui il nostro modello di civiltà in buona parte si fonda, ha espresso infatti la fiduciosa aspettativa che gli individui, una volta sottratti alla superstizione imposta dall’autorità religiosa e data loro la possibilità di ricevere un’istruzione, sarebbero stati finalmente liberi dall’ignoranza e padroni del proprio destino. Nelle parole di Kant, l’Illuminismo era e sarebbe stato «l’uscita dallo stato di minorità che l’uomo deve imputare a se stesso». Nonostante il sapere umanistico e il sentimento filantropico ad esso intimamente legato, parti fondamentali di questa grandiosa aspirazione, siano ormai caduto in generale discredito, l’Illuminismo sopravvive oggi per lo più come prodotto degenerato nello spirito tecnocratico dominante, secondo cui i mali della società odierna si devono all’eccessivo potere della gente ignorante, non in grado cioè di esibire una patente accademica di qualche tipo. Ma se ora torniamo al nostro caso, ciò che non sarebbe passato per la mente ad un contadino analfabeta o ad una casalinga priva di ambizioni intellettuali, è stato affermato, con  l’autocompiacimento di chi crede di dire qualcosa di brillante, da Donald Trump, capo di stato, miliardario, nonché baccalaureato in economia in una delle università americane più prestigiose.

La gaffe di Trump, insomma, non può essere liquidata come semplice ignoranza, come nel caso di chi non possiede una nozione elementare ma pur sempre tecnica come la differenza tra virus e batteri, perché un’esperienza minima di economia domestica sarebbe stata sufficiente per essere a conoscenza delle conseguenze nocive dell’ingestione dell’amuchina. Non solo ignoranza quindi, ma una vera e propria dissociazione dal «Mondo della vita», con la conseguente perdita di quel suo sapere pratico, spontaneamente appreso e riprodotto, definito da Husserl come doxa. È esattamente qui che la singolare vicenda assume un significato generale che coinvolge l’intero rapporto tra organizzazione sociale e sapere, così come questo è andato strutturandosi nella storia recente del nostro modello di civiltà.

Comunità e Modernizzazione

Per secoli il processo di modernizzazione in Occidente ha proceduto dissolvendo le comunità tradizionali, producendo però allo stesso tempo comunità di tipo nuovo sulla base tanto dell’evoluzione del sistema produttivo quanto di fattori non economici come la ristrutturazione dello spazio politico. In questo modo la comunità di villaggio piano piano spariva e la famiglia si ridimensionava, ma entrambe lasciavano il posto al quartiere operaio ed alle associazioni studentesche, al partito ed al sindacato. L’avvento della società di massa di per sé non è quindi stato il momento di rottura con la vita comunitaria, ossia con quella condizione che ha accompagnato l’uomo per l’intero corso della sua storia, per quanto già con l’inizio del secolo scorso la potenzialità disarticolante ed atomizzante della modernizzazione fosse divenuta manifesta. Potenzialità che ha visto la sua prima, unilaterale espressione con l’affermazione dei regimi totalitari a cavallo tra le due guerre mondiali, nei quali sono state mobilitate enormi energie nel tentativo di distruggere o infiltrare tutte le comunità di mezzo tra istanza totalitaria ed individui e negare in questo modo agli uomini la possibilità di organizzare autonomamente la propria vita associata. Chiusa questa parentesi, la modernizzazione ha ripreso il suo corso recuperando l’ambivalenza dinamica rispetto alla comunità, alternando fasi prevalentemente depressive a fasi prevalentemente produttive di legami comunitari.

Nonostante la seconda parte del ventesimo secolo abbia visto l’affermazione di strutture comunitarie tra le più egualitarie e libertarie di ogni tempo, il conflitto più o meno potenziale tra modernizzazione e comunità non è mai stato definitivamente risolto, nemmeno nelle versioni più riuscite della sintesi liberal-democratica. All’appuntamento con la globalizzazione l’Occidente si è così presentato con un modello aggiornato di organizzazione sociale, definito appunto neoliberale, che ancora una volta propende verso quell’anticomunitarismo integrale che aveva precedentemente caratterizzato l’esperienza totalitaria. Oltre ad una componente anticomunitaria oggettiva, dunque non necessariamente programmata o coscientemente perseguita, il neoliberalismo è animato da una costellazione teorico-ideologica che è giunta, in forma del tutto inedita, a negare sul piano analitico l’esistenza stessa della società come dimensione dell’intersoggettività che eccede la somma dei comportamenti individuali. In altre parole, l’individualismo metodologico alla base del neoliberalismo porta a concepire la società come nient’altro che un insieme di individui in interazione tra loro all’interno di un determinato sistema di regole, rifiutando in questo modo la specificità dei soggetti collettivi (da cui, ad esempio, l’assunto per cui i mercati altro non sono che il punto d’incontro tra investitori privati). L’individualismo metodologico neoliberale non ha dunque come obiettivo polemico l’esistenza della società in quanto tale, ma la sua morfologia interna ed, in particolare, le comunità. Non può a questo punto sorprendere che la maggior furia dissolutrice si abbatta oggi proprio verso quelle comunità frutto della socialità moderna quali l’università e la scuola, ridotte a diplomifici, o i partiti politici, ridotti a comitati elettorali per mettere in connessione elettori e candidati.

La conformazione individualistica della nostra società trova oggi eco in un atteggiamento culturale diffuso di diffidenza verso l’essere comunitario e, ancora più radicalmente, di sostanziale incomprensione di cosa una comunità sia e di cosa significhi farne parte. Si è fatto cenno al ridimensionamento della funzione sociale della scuola. Questa non va esclusivamente pensata come il risultato di un’imposizione o di una cattiva amministrazione dall’alto. Sempre più spesso sono gli stessi genitori degli studenti, se non quando gli studenti stessi, a farsi portatori dell’istanza per una scuola come semplice veicolo di un sapere neutrale e tutto orientato alla futura “ricerca del lavoro”. In questa “visione ideale” non viene tanto richiesto alla scuola di ridurre la quantità di nozioni impartite, quanto di “ottimizzare” il tempo a disposizione, riducendo al minimo i momenti di discussione e socialità, ed assumere finalmente la funzione di un non-luogo da attraversare senza “distrazioni” e “condizionamenti”. Ci si aspetta insomma che gli studenti ricevano dalla scuola un compito, ma non un’identità sociale, ossia una posizione da cui dar forma alla loro vita presente e attraverso cui avere accesso alla società. Il rapporto con la scuola deve essere, secondo questo modo di pensare, “puntuale”, perché lo studente deve essere lasciato libero di trovare il proprio posto nel mondo altrove. Ma dove si colloca esattamente questo altrove? In realtà da nessuna parte, quanto piuttosto viene così affermato il presupposto normativo per un essere umano quanto più possibile libero da relazioni sociali stabili, vincolanti e costitutive dell’identità personale, in una parola: da legami comunitari.

La condizione dell’uomo senza comunità: l’abbandono e l’ignoranza

La condizione dell’uomo de-comunitarizzato è stata al centro delle riflessioni di Hannah Arendt in due delle sue opere più significative, Le origini del totalitarismo e Vita Activa. Nella prima Arendt mette in luce come proprio tale condizione sia lo scopo perseguito dai regimi totalitari che, attraverso il principio organizzativo del terrore, lasciano «in ogni individuo la sensazione di essere abbandonato da tutti e del tutto. (…) L’esperienza fondamentale della vita associata che sotto il dominio totalitario viene politicamente realizzata è l’esperienza dell’abbandono (Verlassenheit).» Nell’esplicitare come la Verlassenheit vada esattamente intesa, Arendt la contrappone alla condizione apparentemente affine dell’Einsamkeit, ossia la solitudine in senso stretto. Scrive Arendt: «L’abbandono nasce quando un uomo, per un qualsiasi motivo personale viene cacciato via da questo Mondo, o quando, per un qualsiasi motivo storico-politico, questo Mondo abitato in comune va in pezzi e rigetta se stesso. (…) Nell’abbandono gli uomini sono veramente soli, ossia abbandonanti non solo dagli altri uomini e dal Mondo, ma anche da quel Sé che ciascuno può ancora essere in solitudine (in der Einsamkeit). (…) Nell’abbandono Mondo e Sé, e dunque l’autentica capacità di pensare e l’autentica capacità di esperire, periscono insieme. Ciò che spinge così facilmente gli uomini moderni nei movimenti totalitari e li predispone così bene per il dominio totalitario è l’ovunque crescente abbandono. È come se tutto ciò che tiene insieme gli uomini crollasse, cosicché ciascuno è abbandonato da ogni altro e non può più fare affidamento su nulla.» Queste poche righe sono già sufficienti a chiarire come l’abbandono sia una variante radicale di solitudine che si avverte non nell’isolamento dagli altri, quanto piuttosto nel venire a mancare di una connessione con gli altri che invece dovrebbe esserci e, ancor di più, nell’essere intrappolati in una rete di relazioni estranianti in cui l’individuo, avvertendo in esse un disagio se non direttamente un pericolo, si disciplina nell’autoannichilimento del Sé. Che questo sia il senso specifico che Arendt intende dare alla solitudine dell’uomo sottoposto ad un dominio totalitario è per altro confermato proprio dalla scelta del termine Verlassenheit, derivante dal verbo Verlassen, il quale a sua volta può avere tanto l’accezione negativa dell’abbandonare/essere abbandonato quanto quella positiva dell’affidarsi, esprimendo dunque in entrambi casi un nesso relazione forte che, nel primo, viene negato e, nel secondo, istituito. L’esperienza totalitaria finisce quindi, nella visione di Arendt, per mostrare in negativo come il Sé e il Mondo di ciascuno si sviluppano contestualmente a partire dai legami fiduciari che questi è in grado di creare con gli altri uomini, mentre con la dissoluzione di tale fiducia si cessa di percepire le relazioni sociali come “proprie” e, di conseguenza, di poter avere una sfera relazionale dove potersi “sentire a casa”.

Al termine del passaggio sopracitato Arendt associa l’abbandono percepito dagli uomini nei regimi totalitari con una tendenza ben più generale, «ovunque crescente». Tale associazione risulta, alla luce del suo sistema di pensiero, né casuale né arbitraria. In Vita Activa, opera successiva a Le origini del totalitarismo, Arendt ritorna sul tema dell’abbandono, ma questa volta contestualizzandolo all’interno di un’interpretazione complessiva della società moderna. L’analisi prende qui le mosse dal riconoscimento di tre possibili orientamenti dell’attività umana: il lavoro, ossia quell’attività finalizzata alla riproduzione della vita, il produrre, strutturato secondo i criteri della razionalità strumentale in funzione della realizzazione di opere durevoli, e l’agire, l’unico orientamento direttamente finalizzato all’esercizio della libertà. Mentre i primi due orientamenti mettono in relazione l’uomo primariamente con la materia, l’agire lo pone direttamente in comunicazione con gli altri uomini e permette la realizzazione della libertà nella possibilità di vivere in un pluralismo di rapporti aperti allo sviluppo personale. Solo l’agire ha dunque come condizione necessaria l’esistenza della società e si realizza autenticamente solo nell’eccedenza dalla ragione strumentale. Si è parlato di orientamenti dell’attività umana, poiché le tre categorie dell’agire, del lavorare e del produrre non vanno pensate come rigidamente separate, ma sono riconoscibili in esse delle zone di intersezione e contaminazione, per cui, se da una parte la socializzazione tra gli uomini può avere lo scopo di realizzare una certa opera, d’altra parte in questa attività produttiva realizzata insieme gli uomini sono portati spontaneamente a creare momenti di convivialità, sviluppare liberamente legami di amicizia, scambiarsi esperienze e saperi, il tutto prescindendo dal loro obiettivo contingente. Sulla scorta di questa concettualizzazione Arendt rileva come la modernità abbia attivato una crescita esponenziale delle capacità produttive e lavorative, a cui però ha fatto seguito una progressiva perdita del senso dell’agire, testimoniata ad esempio dalla regressione della competenza linguistica, quantomeno tra gli alfabetizzati. Il risultato di questo processo di lunga durata è, secondo Arendt, l’attuale «società del lavoro», che uniforma cioè la pluralità dell’attività umana al solo “lavorare”, deprimendo così, attraverso lo sforzo di riproduzione dell’esistente, la progettualità del produrre e, attraverso l’enfatizzazione della divisione funzionale, la libertà dell’agire. Anche a questo proposito può essere utile riconsiderare l’accenno fatto alla decadenza del sistema educativo, questa volta per quanto riguarda l’università. Per chi ha modo di osservare il mondo accademico da vicino, lo spettacolo dell’appiattimento della ricerca sulla “sopravvivenza nel” e “riproduzione del” l’apparato fa ormai parte del proprio bagaglio di disillusione quotidiana, con professori e ricercatori posti di fronte all’alternativa tra l’irrilevanza o il sacrificio di tutto il proprio tempo per stare al passo con le scadenze di bandi e pubblicazioni, senza più neanche l’ambizione di dire qualcosa che duri oltre il tempo di un convegno o la libertà di lasciar filtrare nel proprio specialismo il richiamo del reale. È in questo movimento espansivo della socialità funzionale, istituzionalmente mediata e organizzata in vista di un fine specifico, a scapito della “meno performativa” socialità spontanea e plurale che Arendt riconosce l’origine dell’abbandono, che trova sì compimento in quei regimi che aspirano a divenire il fine della totalità delle attività umane, ma che emerge sempre più chiaramente come un effetto collaterale della modernizzazione stessa.

Abbandono della comunità ed impoverimento educativo

La condizione di abbandono, spesso ritenuta esclusivamente causa di malessere psicofisico, ci permette, ad un esame più attento, di trovare finalmente risposta al nostro interrogativo politico di partenza sul perché assistiamo a manifestazioni dell’ignoranza più ingenua persino tra i vertici della società con la maggiore offerta formativa di sempre. Già Hannah Arendt, come accennato, ha potuto mostrare tramite la sua analisi del totalitarismo come, nella solitudine dell’abbandono, «Mondo e Sé, e dunque l’autentica capacità di pensare e l’autentica capacità di esperire, periscono insieme». Quando gli uomini infatti non incontrano semplicemente gli altri attraverso relazioni occasionali e vincolate da una ragione prettamente strumentale, essi mettono in comune non solo il proprio tempo, ma si ritrovano ad affrontare insieme tutta una serie di situazioni che li porta a sviluppare un sapere condiviso e per buona parte prodotto senza il bisogno di alcuna programmazione. Al contrario, quando gli uomini sono privati di comunità dove poter agire in modo non predeterminato, ciascuno impara solo ciò che coscientemente ricerca. Tale effetto generativo è stato troppo spesso misconosciuto dall’Illuminismo, che ha piuttosto visto unilateralmente nella comunità una forza repressiva che induce pregiudizio e conformismo negli uomini, ignorando in tal modo la produzione e condivisione di sapere che la vita comunitaria promuove, persino nelle sue varianti autoritarie.

Non è tuttavia solo nella trasmissione di conoscenze vere e proprie che la comunità svolge la sua funzione educativa. Altrettanto fondamentale per il buon uso della ragione da parte dei singoli è la possibilità di esporre le proprie opinioni al confronto con una pluralità di altri uomini, come ben sapeva ad esempio Platone, il quale, nella metafora della linea nel sesto libro della Repubblica, riconosce sia il primato della credenza collettiva sull’immaginazione individuale, per quanto riguarda l’opinione, che il primato della logica dialettica della noesis sulla logica meramente deduttiva ed assertiva della dianoia, per quanto riguarda la scienza, e dunque in entrambi i casi la superiorità di una forma di sapere che ha nella polis il proprio interlocutore rispetto al sapere che prescinde da essa. Ciascuna comunità finisce così per divenire una forma di intelligenza collettiva affinata attraverso molteplici pratiche e discussioni, la quale fornisce ai suoi membri un senso comune con cui misurarsi, nonché uno standard di ragionevolezza da superare per l’elaborazione di idee originali. E non è un caso che si assista oggi al declino della competenza politica, sapere comunitario per eccellenza non solo per il suo riferimento alla collettività, ma anche perché appreso tramite l’esercizio di funzioni sociali costitutivamente plurali.

Si vede bene a questo punto come l’atomizzazione della società generata da quarant’anni di regressione neoliberale, nel distruggere la comunità, stia comportando un’iper-responsabilizzazione degli individui circa il proprio sapere. Privati delle fonti di conoscenza comuni e di occasioni per l’esercizio della ragione, essi dovranno dedicare dispendiose risorse cognitive per l’acquisizione d’informazioni che avrebbero altrimenti appreso senza grandi sforzi in comunità e che, in molti casi, non apprenderanno affatto. La conseguenza più eclatante di tutto ciò è ben rappresentata dalla figura dell’esperto privo di competenza già nei campi confinanti con il proprio specialismo, nonché ignaro di banalità di ogni tipo. Alla luce di queste considerazioni si comprende come l’“ignoranza” sia oggi più un fenomeno trasversale che non una linea di demarcazione. Anzi, a voler considerare la cosa da un punto di vista dinamico, l’ignoranza caratteristica del nostro tempo si rivela un fenomeno riguardante principalmente i ceti tradizionalmente colti, perché, se la crescente scolarizzazione segna un progresso rispetto all’analfabetismo di massa del passato, la scarsa preparazione e consistenza intellettuale delle classi dirigenti è invece, quantomeno per la storia moderna, una realtà recente.

Fatto a sua volta tutt’altro che casuale, se riconosciamo come l’alienazione dalla comunità appaia sempre più una precondizione per il successo nelle professioni di maggior prestigio e non solo un destino per lavoratori malpagati. In questo quadro gli evidenti squilibri di un uomo emblematicamente solo come Trump, con una vita trascorsa tra yesman e comparse, perdono parte del loro carattere individuale, tanto che questo tentativo di rendere conto di un’affermazione assurda come quella sul disinfettante finirà forse, paradossalmente, per risultare quasi come una sua giustificazione.


Nato a Reggio Calabria, classe 1990, è dottorando in Filosofia presso la Goethe Universität di Frankfurt am Main. La sua attività di ricerca ha come principale focus la teoria politica ed è particolarmente rivolta all’analisi della categoria di totalitarismo nel suo rapporto con la modernità.

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