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Il futuro delle politiche statunitensi in Medio Oriente

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Il futuro delle politiche statunitensi in Medio Oriente

Il Medio Oriente resterà importante per la futura amministrazione statunitense, a prescindere dal vincitore delle elezioni del 3 novembre. Nel contesto del dossier “AMERICANA”, scopriamo le linee guida della politica americana in Medio Oriente con il primo contributo per l’Osservatorio di una giovane e preparata analista, Annachiara Ruzzetta. Buona lettura!

A poco più di un mese dalla sigla degli accordi di Abramo sulla normalizzazionedei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, l’amministrazione Trump si prepara ad affrontare le ultime battute delle presidenziali statunitensi contro l’avversario democratico, Joe Biden. Entrambi i candidati hanno mostrato cautela nell’esprimere opinioni dirette circa la politica estera del Paese. Questo perché per gli elettori, la pandemia di COVID-19, l’economia in retrocessione e l’ondata di proteste contro il razzismo sistemico sono state questioni più pressanti da affrontare. Per quanto strategicamente importanti siano gli accordi di Abramo, gli elettori in Wisconsin e Michigan non contempleranno il Medio Oriente al momento del voto.

Resta comunque da chiedersi quale sarà il futuro di questa regione sia nel caso di una seconda amministrazione Trump, che di un ritorno ad un establishment democratico a guida Biden. Per citare un articolo molto discusso del 2019 di Tamara Cofman Wittes, ex funzionario del Dipartimento di Stato sotto Obama, e Mara Karlin, ex funzionario del Pentagono, il Medio Oriente “conta notevolmente meno” per gli Stati Uniti rispetto al passato.

Di certo, il ruolo di deus ex machina giocato da Trump in questi anni ha favorito un graduale allontanamento militare di Washington dai conflitti interni della regione – vedi il ritiro delle truppe dal Nord-Est della Siria -, ma pensare ad un Medio Oriente scevro dalle influenze di Washington è ancora difficile. Gli accordi siglati lo scorso settembre alla Casa Bianca tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein sono testimonianza del fatto che questa regione rappresenta ancora un’area di grande interesse strategico ed economico per gli Stati Uniti, e passerà del tempo prima che tali interessi saranno oscurati da una logica totalmente isolazionista. Questa è la visione del Medio Oriente che Joe Biden, candidato alla presidenza democratica, erediterebbe nel caso di vittoria il prossimo 3 novembre.

Le politiche estere degli Stati Uniti in Medio Oriente nel secondo dopoguerra


Se si guarda alla politica estera di Washington adottata nei confronti della regione, si nota una graduale mutazione nel corso del tempo che riflette dinamiche internazionali e domestiche. Dal realismo all’idealismo, dall’isolazionismo all’interventismo, passando attraverso l’unilateralismo e il multilateralismo, nel corso della storia degli Stati Uniti queste correnti di pensiero hanno determinato diverse linee di condotta entro le quali l’America ha agito definendo il percorso sia dell’interesse nazionale sia dello scenario globale.

La fine della Seconda Guerra Mondiale ha segnato l’instaurazione di due ordini globali coesistenti. Da una parte, l’ordine binario della Guerra Fredda, che strutturava le dinamiche internazionali intorno all’asse USA-URSS; dall’altra parte, un ordine liberale e democratico, in cui gli Stati Uniti si sono posti come riferimento in ambito economico e giuridico. E sono stati proprio i tentativi di limitare l’influenza sovietica e di proteggere gli interessi economici, in particolar modo petroliferi, a guidare la politica estera americana nel Medio Oriente – come dimostra l’inclusione della Turchia nella NATO voluta da Harry Truman o la dottrina antisovietica Reaganiana del rollback, con il sostegno alle popolazioni locali impegnate a contrastare i russi, come i mujaheddin afghani.

La fine della Guerra Fredda ha segnato l’inizio di un ordine mondiale unipolare, nonché l’incremento delle mire statunitensi in Medio Oriente, come dimostrano le iniziative intraprese in Kuwait e in Afghanistan dai Bush. Un ulteriore esempio di plenipotenza è da ritrovarsi nell’amministrazione Clinton, la cui politica estera era basata sul doppio contenimento di Iraq e Iran, vale a dire limitare il potere di Saddam Hussein e prevenire l’espansione dell’influenza sciita della Repubblica Islamica. 

L’amministrazione Obama è stata fortemente influenzata dalle conseguenze che la politica estera perseguita dal suo predecessore all’indomani del 9/11, la cosiddetta War on Terror, ha avuto. Domesticamente, l’opinione pubblica statunitense era provata da anni di guerra al terrorismo in cui la presidenza Bush aveva cercato di prevenire ogni minaccia unilateralmente, come testimonia il caso dell’Afghanistan e dell’Iraq.

Sul fronte geostrategico, Obama ha dovuto agire in una realtà né bipolare, come durante la Guerra Fredda, né unipolare, come gli anni ’90 e i primi anni 2000. Il mondo si presentava difatti come inter-polare. Secondo il politologo Grevi, il processo di globalizzazione delle risorse e la ridistribuzione dei sistemi di potere tra le potenze emergenti, in pieno zeitgeist post 9/11, hanno portato all’affermazione di un sistema internazionale multipolare e interdipendente, in cui gli Stati Uniti non ricoprivano più una posizione di assoluta egemonia.

Questi cambiamenti nel sistema internazionale hanno influenzato la dottrina di Obama in politica estera. Seppur apparentemente non interventista nelle fasi iniziali, l’amministrazione Obama ha dimostrato di tenere agli interessi nazionali attraverso un utilizzo della forza militare più flessibile e accompagnato all’uso del soft power. Secondo Krieg, l’approccio adottato da Obama è fondato sul concetto di “guerra surrogata”, che enfatizza azioni multilaterali attuate in cooperazione con attori locali e componenti tecnologiche. L’appoggio ai movimenti popolari delle Primavere Arabe, la distensione nei confronti dell’Iran con l’accordo sul nucleare (JCPOA), e i tentativi (incompiuti) di pacificare Israele e l’Autorità Palestinese sono testimonianza di tale approccio, che è stato spesso definito fallimentare e non in linea con gli interessi di alcuni storici alleati di Washington, fra cui Riyadh e Abu Dhabi.

L’isolazionismo diplomatico di Trump e l’internazionalismo liberale di Biden

Un momento di svolta, e di sollievo per alcune monarchie del Golfo, si è avuto con l’elezione di Donald Trump. Trump si è presentato come elemento di rotturarispetto all’internazionalismo liberale di Obama. L’uscita dal JCPOA, la decisione provocatoria di spostare l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme e il supporto al Presidente Egiziano al-Sisi hanno di fatto smantellato il multilateralismo dell’amministrazione Obama, in favore di un’assertività che ha premiato tanto l’ “America First” quanto gli incontri bilaterali e un approccio meno accondiscendente con avversari e alleati. Trump è perciò un esempio di unilateralismo e isolazionismo americano ibrido, dato che la sua politica estera ha finito per diventare perlopiù la brutta copia della “Dottrina dei Due Pilastri” teorizzata da Henry Kissinger, il più fidato dei consiglieri del presidente Nixon in materia di politica internazionale, la cui dottrina conciliava il realismo con il multilateralismo e i mezzi diplomatici – il cosiddetto realismo manageriale.

I recenti “accordi di Abramo” attestano questa condotta generale. L’amministrazione Trump ha infatti accantonato l’internazionalismo dell’amministrazione precedente, per una politica tanto contradditoria quanto deleteria sui delicati equilibri di una regione già aspramente divisa. Dalle accuse mosse contro il Qatar di sostenere il terrorismo internazionale, alla vendita di F-35 ai nuovi alleati emiratini, Trump ha puntato tutto su Arabia Saudita, Emirati, e Israele. Nei fatti, la normalizzazione dei rapporti tra Israele, EAU e Bahrein – che è bene ricordare godono di un tacito sostegno saudita – non nasce dal nulla, dato che alla base di questi negoziati c’è una convergenza tattica tra gli interessi degli attori coinvolti. Il loro è un matrimonio di interesse, non di amore. Tale accordo apre opportunità di espansione economica, politica e militare senza precedenti per i tre paesi con il fine di aumentare il commercio, la cooperazione tecnologica, il turismo e, più importante per gli interessi di Washington, la cooperazione strategica contro Teheran. Trump insomma si è detto fautore di una “nuova pace”, che altro non è che la formalizzazione di un fronte anti-iraniano e anti-turco che fa affidamento su armamenti e sistemi di sicurezza sempre più sofisticati e investimenti sempre più consistenti. Se politicamente, l’intesa rafforzerà probabilmente la tendenza dei Paesi del Golfo a voler “stabilizzare” la regione tramite l’esportazione del proprio autoritarismo, per ora ha soltanto ottenuto l’effetto indesiderato di saldare i rapporti bilaterali Pechino-Teheran. Una continuazione della presidenza Trump confermerebbe solo questa condotta generale, e andrebbe a cementare le nuove alleanze strategiche e gli squilibri di potere che questi accordi hanno portato alla luce del sole.

Per quanto riguarda il candidato democratico, in un articolo su Foreign Affairs, Joe Biden ha sottolineato il fatto che “gli Stati Uniti sono pronti a guidare di nuovo” la scena internazionale dopo quattro anni di presidenza Trump. La posizione di Biden si sviluppa nell’alveo dell’internazionalismo liberale ed è radicata nella convinzione che un ritorno al multilateralismo dell’amministrazione Obama sia necessario ad affrontare le attuali sfide globali. Rientrano in quest’ottica il suo desiderio di riaffermare i valori democratici a livello domestico, in modo che gli Stati Uniti abbiano di nuovo la credibilità di guidare la comunità internazionale con il proprio esempio di potenza democratica e civilizzatrice che predilige la diplomazia a scapito dell’uso della forza, ritenuta accettabile solo per motivi “umanitari”.

Nonostante un bagaglio professionale-politico di grande rilievo, che vanta soprattutto una vicepresidenza ad Obama, Biden è rimasto vago nel definire i suoi obiettivi in politica estera. Le sue posizioni in materia di politica estera in Medio Oriente si sono alternate a fasi di irridente interventismo, come nel caso del sostegno per l’invasione dell’Iraq nel 2003, e di bilanciamento diplomatico: fu proprio a Biden che Netanyahu si rivolse per favorire un riavvicinamento tra Israele e Turchia, dopo che i due paesi avevano interrotto ogni rapporto nel 2010.

Nel caso di una possibile vittoria il prossimo 3 novembre, Biden assumerebbe toni retoricamente più duri con gli alleati autoritari dell’America in Medio Oriente, specialmente con l’Arabia Saudita, e riconsidererebbe il coinvolgimento statunitense nel conflitto in Yemen e, soprattutto, una ripresa del dialogo con Teheran. Visto il ruolo che Biden ha giocato nel corso della sua carriera nel rafforzamento dell’ordine liberale internazionale, risulta legittimo che il candidato scelga un approccio in linea con questa visione del mondo. Tuttavia, sono da valutare i profondi cambiamenti a cui la regione è stata interessata negli ultimi anni, associati agli evidenti limiti che questa dottrina ha mostrato nella regione. Il Medio Oriente è diventato il luogo in cui gli ideali della politica estera statunitense nell’era successiva alla Guerra Fredda sono andati a morire: promozione della democrazia, costruzione della nazione, controinsurrezione, intervento umanitario e soluzione dei due stati. Perciò non è detto che la scelta di Joe Biden di prediligere un ritorno allo status quo dell’era Obama si riveli il metodo più efficace per affrontare le sfide di una regione in continua evoluzione, specialmente in un momento storico-sociale in cui il coronavirus resta il pensiero primario dei cittadini che andranno alle urne, al di là di promesse sulla ricostruzione di una leadership globale.

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  8. Il futuro delle politiche statunitensi in Medio Oriente – di Annachiara Ruzzetta
  9. Consuma et impera”: la crisi ecologica secondo l’amministrazione Trump – di Francesco Giuseppe Laureti.
  10. Trump contro Biden: si scrive post-ideologia, si legge propaganda – di Camilla Pelosi.
  11. Continuità o transizione? Le elezioni Usa e la politica energetica – intervista a Gianni Bessi

“Americana”, il dossier congiunto di Kritica Economica e Osservatorio Globalizzazione, è realizzato col patrocinio dell’associazione culturale “Krisis”.

Classe 1998, sta conseguendo una laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, con specializzazione in studi del Medio Oriente, presso l'Università di ricerca di Amsterdam, nei Paesi Bassi. Appassionata di geopolitica mediorientale, i suoi ambiti di interesse prediletti riguardano prevalentemente la politica internazionale e i fenomeni migratori, specialmente se legati al cambiamento climatico. Al momento, sta finalizzando i suoi studi con una tesi incentrata sul processo di Environmental Peacebuilding tra Israele, l’Autorità Palestinese e la Giordania. Ha preso parte ad un programma estivo organizzato dall’università Sciences Po di Parigi per un corso incentrato su Human Security, e attualmente contribuisce da freelance a testate giornalistiche internazionali come VICE World News.

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