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Giovanni Jatta e l’eccellenza museale ruvestina

Giovanni Jatta e l’eccellenza museale ruvestina

Per la serie “Ritratti” di questa settimana, Andreas Massacra tesse le lodi di un turismo tutto da scoprire, attraverso la biografia di Giovanni Jatta. Buona lettura!

Il 14 settembre scorso l’Enit ha pubblicato il suo rapporto sulla stagione turistica appena conclusa, rilevando come più del 90% degli italiani sia rimasto in Italia per trascorrere le ferie. Malgrado l’annata nera dal punto di vista degli incassi, il presidente Giorgio Palmucci, alla presentazione del report ha visto il lato positivo nella riscoperta del cosiddetto “turismo lento”, quello fuori dai grandi circuiti tradizionali, alla riscoperta di antichi borghi e mete meno conosciute. Quindi il “Ritratto” della settimana lo dedichiamo ad un personaggio di spicco di una città fuori dai circuiti maggiori: il magistrato, avvocato e archeologo Giovanni Jatta. 

Giovanni Jatta nacque a Ruvo (oggi Ruvo di Puglia) il 21 ottobre 1767 da Francesco Jatta, originario di Conversano, e da Lucia Jurilli nipote del medico Domenico Cotugno, in una famiglia di modeste origini e disponibilità economiche. Dopo i primi studi, specialmente umanistici, compiuti a Ruvo sotto la guida degli ecclesiastici Consolo e Sancio, proseguì la sua istruzione nel seminario di Nola, spostandosi poi a Napoli, dove studiò giurisprudenza con Michele Cianciulli, alto magistrato, membro eminente del governo borbonico e poi ministro di Giustizia di Giuseppe Bonaparte. 

A Napoli sul finire del XVIII secolo, essendo ospite per diversi anni di Cotugno, ebbe modo di familiarizzare con le antichità ruvestine che l’illustre parente deteneva. Del resto, dal ritrovamento dell’antica Ercolano e di Pompei nel 1738 e 1748, nel Regno di Napoli il collezionismo di reperti archeologici era diventato una moda e l’archeologia, che in quel tempo stava nascendo come scienza, aveva suscitato l’interesse sia di storici di professione che di dilettanti. Ruvo di Puglia non faceva eccezione nella ricerca dei reperti, essendo stata in passato uno degli antichi centri di attività dei ceramisti e una ricchissima necropoli.

Svolse il suo praticantato di avvocato presso lo studio di Francesco Ricciardi conte di Camaldoli che fu segretario di Stato e ministro di Giustizia di Gioacchino Murat e, nel 1820, del governo costituzionale, acquistando presto fama di valente avvocato. Nella frizzante atmosfera, se paragonata a quella di Ruvo, della città partenopea, si era decisamente avvicinato al liberalismo, sviluppando una certa ostilità verso la supremazia nobiliare, tanto nel 1794 il parlamento ruvestino lo designò come avvocato della città contro le vessazioni dei baroni locali. Dopo un’accurata ricerca archivistica, durata 3 anni, iniziò un lungo procedimento giudiziario, lungo più di un decennio contro il feudatario Ettore Carafa, Conte di Ruvo e Duca di Andria e la sua potente famiglia. Lo scopo di Jatta era separare contea e ducato, restituendo le terre demaniali al Comune e dare respiro alla lotta dei contadini, per fare in modo che pascoli e terreni incolti venissero convertiti a grano e altre coltivazioni arboree. Regalista e liberale, la sua carriera professionale e politica vide una battuta d’arresto con la Rivoluzione francese: accusato di propaganda di idee liberali, alla fine del 1798, Jatta fu dapprima esule in Svizzera, quindi in Francia. 

Rientrò a Napoli, al seguito di Jean Étienne Championnet, nel gennaio 1799, occupandosi, dopo la proclamazione della Repubblica napoletana, dell’organizzazione della guardia civica; fu quindi mandato a Ruvo per placare i moti antirepubblicani, cosa che fece senza spargimenti di sangue. La Repubblica non durò nemmeno un anno e il 12 dicembre 1799, fu condannato all’interdizione dai pubblici uffici e allontanato da Napoli. Continuò a patrocinare, una volta tornato a Napoli, Ruvo contro i Carafa, che si erano ripresi i feudi nel 1801, arrivando finalmente ad una convenzione nel 1805.

Nel settembre di quello stesso anno si recò a Madrid per una causa affidatagli dal Principe di Migliano contro la Real Hacienda de Espana. Quando all’inizio dell’anno seguente la Francia invase il Regno di Napoli, tornò in patria per difendere proprio quei nobili che aveva avversato, solo però nei casi in cui i diritti di proprietà fossero certi e documentabili.

Su invito di Giuseppe Bonaparte, entrò nella magistratura nel quadro della riforma giudiziaria promossa dal governo francese: a Napoli assunse dunque il ruolo Regio procuratore di prima istanza nel marzo del 1809 e fu incaricato di riordinare il tribunale civile. Nel 1812 fu promosso Regio procuratore generale sostituto nella corte di appello di Napoli, e poco dopo procuratore generale presso il Consiglio delle prede marittime. Nel 1814 affiancò il suo antico maestro Cianciulli nella sezione del codice di diritto civile, deputata a proporre modifiche alla legislazione in vigore. Con il ritorno a Napoli di Ferdinando di Borbone nel 1815 Jatta rimase, come gran parte degli alti funzionari, nei suoi ruoli e nelle cariche giudiziarie, tanto che nel 1818 fu nominato membro della commissione incaricata di redigere un codice di procedura per la giurisdizione su prede e naufragi.

Diede il suo appoggio morale ai moti del 1820 con l’opuscolo “I piffari scordati“. Egli riteneva che le cause dei moti fossero le politiche portate avanti negli ultimi 4 anni dal governo regio. Da un lato il suo liberalismo costituzionalista lo privò della fiducia dei realisti, dall’altro il suo ruolo di funzionario lo rendeva sospetto agli occhi dei rivoluzionari. 

Il 15 giugno 1821, dopo il rovesciamento del governo costituzionale, le giunte di scrutinio, nominate dalla giunta provvisoria di governo per esaminare la condotta degli impiegati, lo esonerarono da tutte le cariche. Decadendo anche dall’avvocatura, continuò la professione di consulente legale, e quando nel 1830 salì al trono Ferdinando II non fece istanza per essere reintegrato nella magistratura. Malato di gotta restò a Napoli dedicandosi alla professione di consulenza legale e al collezionismo di antichità. Legatissimo alla sua terra d’origine decise di reperire quanto più materiale possibile della Ruvo antica acquisendo fin dal 1820 reperti dal mondo antiquario ruvestino che da almeno quaranta anni saccheggiava l’antica necropoli. Giovanni che fino al 1820 non si era occupato di archeologia, fu coadiuvato dal fratello Giulio nella creazione di una raccolta di ceramiche antiche. Dopo aver formato un nucleo consistente di reperti archeologici comprandolo sul mercato antiquario di Napoli e dai predatori di tombe ruvestini, dapprima partecipò, insieme al fratello Giulio, a società di scavi costituitesi a Ruvo, poi promosse scavi nei fondi di proprietà di famiglia, demandando il compito di ricomporre le parti mancanti delle singole opere al suo restauratore di fiducia, don Aniello Sbani.

Prima del 1780, anno dei primi ritrovamenti, la città di Ruvo era praticamente sconosciuta agli studiosi di storia antica. Le informazioni sulla città antica si limitavano alle monete che i contadini vendevano a caro prezzo frantumando i vasi che trovavano nei loro terreni. Sull’onda lunga degli scavi resinari, si capì l’importanza di questi vasi ed iniziarono così vere e proprie ricerche. Attorno al 1820 il grande entusiasmo provocò la nascita di vere e proprie società di scavo che andarono a sostituire il mondo di piccoli antiquari che aveva due difetti: disorganizzazione del lavoro e trascuratezza di molti reperti non destinati ad una proficua vendita. Il nome di Ruvo e della sua necropoli diventò noto in tutto il Regno. 

A Napoli Giovanni si dedicava a interpretare i miti dipinti sulle ceramiche, scegliendo i vasi in base alla finezza del disegno, la bellezza dello stile e la rappresentazione mitica; intratteneva una fitta corrispondenza con il fratello, seguendo i restauri dei pezzi, cercando di rivendere al meglio i vasi meno interessanti; curava inoltre i rapporti con archeologi e collezionisti.

La raccolta di vasellame datato dal VII al IV secolo a.c. e proveniente dall’agro ruvese ma anche da Taranto, Canosa e terre elleniche, fu completata verso il 1835; lo spirito della raccolta e della collezione era volto da un lato all’esaltazione storica della terra natia e dall’altro all’opposizione all’esportazione di tanti oggetti d’arte. Infine, la famiglia Jatta pur modestamente benestante, non era blasonata e i due fratelli cercarono così di darle lustro. I criteri di scelta privilegiavano la particolarità della forma e la qualità pittorica; questa impostazione portò purtroppo alla dispersione dei corredi e alla perdita delle terrecotte non decorate. Nel 1836 alla morte di Giulio, Giovanni, cessati gli acquisti, aveva il problema di sistemare, per esporla, quella che era la più grande collezione privata di ceramiche del Regno. 

Dopo una lunga corrispondenza con la cognata Giulia Viesti, si decise a costruire una casa-museo, che facesse sia da abitazione per tutta la famiglia, si da sala d’esposizione. Così nel 1840 diede inizio alla costruzione di Palazzo Jatta in stile neoclassico, di fianco alla tardo barocca chiesa di San Domenico a Ruvo, sotto la regia dell’architetto bitontino Luigi Castellucci.

Nel febbraio 1844 Jatta pubblicò la sua opera maggiore, “Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo nella Peucezia”. L’opera di vasta erudizione ha valore soprattutto per quanto concerne la storia rubastina medievale e moderna lasciando irrisolte le questioni sulla fondazione della città che Jatta attribuì agli arcadi identificandola con Netium, toponimo citato da Strabone, tra Canosa e Ceglia Messapica. Jatta avrebbe voluto che tutta la collezione, inventariata all’epoca della morte di Giovanni in circa 500 esemplari, fosse donata al Re ed esposta al Museo Archeologico di Napoli, come collezione autonoma.

Morì a Ruvo il 9 dicembre del 1844. La collezione Jatta però rimase a Ruvo, su richiesta della cognata che amministrava l’eredità di Giulio per conto del figlio Giovannino. Quando il nipote divenne maggiorenne decise di riorganizzare a Palazzo Jatta la collezione: i circa 2000 pezzi da museo vennero catalogati e disposti in 5 sale (ora 4) secondo un criterio di “bellezza” seguendo il gusto dell’epoca. Infatti, quelli più grandi, ritenuti più belli e più importanti sono collocati sopra colonne di legno nelle ultime sale, mentre gli altri trovano posto nelle vetrine delle prime stanze.

Il museo voluto da Giovanni Jatta è l’unico esemplare in Italia di collezione privata ottocentesca rimasta tuttora inalterata dalla concezione museografica originaria. Il museo è tutt’oggi disposto secondo il volere dei fondatori. La quinta sala conteneva un ricco medagliere, rubato nel 1915 e mai più ritrovato. Nel 1991 lo Stato ha provveduto ad acquistare il museo inaugurando l’apertura nel 1993. 

14 – Porfirio Diaz, tra dittatura e positivismo

15 – Karl Rappan, il riformatore del calcio europeo

16 –Jose Hermano Saraiva, lo storico divulgatore

17 – Thor Heyerdahl, un esploratore ai confini del mondo

18 – Giovanni Jatta e l’eccellenza museale ruvestina

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Laureato magistrale in Scienze Filosofiche all'Università degli Studi di Milano, è attualmente consigliere comunale nel paese di Cesano Boscone.

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