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I giovani in campo per il “No” al referendum sul taglio dei parlamentari

I giovani in campo per il “No” al referendum sul taglio dei parlamentari

Il comitato giovanile “NOstra” è da diversi mesi tra i più attivi per sostenere l’opposizione alla riforma costituzionale che sarà votata al referendum del 20-21 settembre e che prevede il taglio del numero dei parlamentari a 400 deputati e 200 senatori. L’Osservatorio ha dialogato con un rappresentante del comitato “NOstra”, Alessandro Francescangeli, sulle posizioni del gruppo sulla riforma e sulle motivazioni del “No” all’imminente referendum. Buona lettura!

Ciao Alessandro e grazie mille per la disponibilità. Il vostro comitato giovanile per il No al referendum sul taglio dei parlamentari è stato uno dei primi a sorgere, in una fase in cui, prima della quarantena, il dibattito politico sul tema era nullo e ci si avvicinava in sordina al voto. Quali sono state le motivazioni che vi hanno spinto alla discesa in campo?

Il nostro Comitato è nato alla fine dello scorso anno con la volontà di occupare quello spazio pubblico lasciato totalmente deserto dai soggetti politici. Il taglio dei parlamentari sembrava (come sembra tutt’ora) un boccone amaro che le forze politiche, anche quelle più attente e responsabili, erano disposte a ingoiare pur di non turbare neonati equilibri di governo o, comunque, non inimicarsi parte dell’elettorato sulla base di una facile quanto dannosa retorica. Insomma, il referendum, vuoi per comodità politica, vuoi per interesse, appariva come qualcosa che dovesse passare sotto silenzio, nell’idea che meno se ne fosse parlato, meno danni avrebbe fatto a sé e meno benefici avrebbe apportato ai suoi sostenitori. Ma la Costituzione non si cambia nel silenzio. La Costituzione non può essere uno strumento di governo. Una battaglia in senso “ostinato e contrario”, in primis contro l’assordante silenzio che ci circondava, andava fatta e nessuno sembrava disposto a combatterla. Esporsi significava, in una comunicazione dominata dalla vuota retorica sul taglio delle poltrone e dei costi, essere accusati di essere dalla parte della “casta”, dei privilegi. Secondo noi invece è tutto il contrario: saranno i giovani e le persone più distanti dai centri di potere a essere tagliate fuori dal sistema politico. Per questo è nata l’idea di un comitato giovanile dal colore trasversale, nella convinzione che proprio noi giovani saremo i più danneggiati da questa riforma e dall’idea di politica e delle istituzioni che l’ha portata avanti.

A febbraio l’Osservatorio Globalizzazione ha lanciato un appello per evitare di ridurre il dibattito sul referendum al tema del risparmio, sostenendo che la democrazia mai poteva essere accomunata a un costo. Troviamo corrispondenza completa nella vostra posizione a riguardo. Quali sono le altre motivazioni politiche che vi spingono a posizionarvi per il No?

Occorre mettersi d’accordo su cosa significa “politiche”. Il nostro Comitato è formato da giovani, militanti o meno, di tutte le colorazioni. Questo perché siamo fermamente convinti che quando si parla di Costituzione, la politica, nel senso del perseguimento dell’interesse di parte, debba essere lasciata fuori. Le motivazioni sono quindi politiche, sì, ma primariamente di politica istituzionale, costituzionale e, se vogliamo, anche “generazionale”. In estrema sintesi, è nata in noi la consapevolezza che la tutela delle istituzioni rappresentative e dei circuiti democratici sia conditio sine qua non per la possibilità di elaborare e strutturare un’azione politica e sociale per la difesa dei diritti dei giovani, nonché delle minoranze in generale. Non si possono risolvere i problemi che affliggono la nostra generazione (dalla precarizzazione del lavoro, all’emigrazione) senza affrontare la questione istituzionale e le condizioni giuridiche e politiche del meccanismo della rappresentanza. Come ha sintetizzato Jacopo Ricci nel documento che uscirà nei prossimi giorni “per noi questione istituzionale e questione sociale sono da considerarsi in stretta correlazione, sì che non può essere pensabile il risolvimento della questione sociale senza il risolvimento della questione istituzionale”.

Massimo Cacciari ha recentemente scritto che il referendum è un “puro gesto di ossequio alla deriva delegittimante le istituzioni rappresentative e tutti i corpi intermedi che forze di diverse e anche opposte “scuole” stanno conducendo da decenni”. Come, a vostro parere, si inserisce la riforma nel quadro degli stravolgimenti del sistema politico italiano iniziato coi referendum del 1992 e 1993?

La stagione referendaria dei primi anni Novanta si colloca a cavallo di un profondo solco storico (la fine del “secolo breve”, avrebbe detto Hobsbawm). Al contesto politico internazionale in Italia si sono aggiunti fattori peculiari interni (penso chiaramente alle inchieste giudiziarie, ma anche alla strategia terroristico-mafiosa di quegli anni) e regionali (il Trattato di Maastricht, ad esempio). A questi radicali cambiamenti la classe politica, anche quella rimasta “sana”, non ha saputo opporre nulla, non facendo altro che assecondare le tendenze delle forze prevalenti, fornendogli per la prima volta gli strumenti giuridici, anche costituzionali, per rendere cogente il cambio di paradigma. Se le scuole di partenza erano “opposte”, come dice Cacciari, alla fine, venuta meno l’alternativa, si sono tutti accodati a quello che era diventato un pensiero unico. Secondo una metafora di Fabrizio De André che mi pare molto azzeccata, tutti si sono messi a seguire il feretro del defunto ideale dell’utopia, accompagnandolo nostalgicamente “tra i flauti”, lasciando poi una “pace terrificante”.

Il “mercato” è diventato negli anni Novanta il nuovo faro alla luce del quale leggere le Costituzioni: dai diritti al sistema di governo (basti leggere, ad esempio, gli atti del convegno di Ferrara dell’Associazione italiana dei costituzionalisti del 1991 per rendersene conto). In un tale quadro inizia un’opera di decostruzione e delegittimazione delle istituzioni parlamentari e democratiche. Per i partiti, delegittimati o personalistici, il Parlamento diventa un ingombro del passato la cui unica funzione – da assicurare anche al prezzo di stravolgerne il ruolo – è quella di assecondare il soggetto che andrà al Governo. Stravolgere in senso maggioritario la composizione del Parlamento, magari con premi di maggioranza o escludendo le minoranze dallo stesso, significa svuotare il Parlamento dalle proprie funzioni: legislative, di indirizzo politico e di controllo (e lo ha ricordato la Consulta nel dichiarare costituzionalmente illegittime due delle ultime leggi elettorali). In un sistema parlamentare è il Parlamento a dover indirizzare il Governo, non il contrario.

La riforma sul taglio dei parlamentari si presenta come una parziale discontinuità rispetto ai metodi perseguiti (non più le “grandi riforme”, ma operazioni mirate, sulla scia della modifica riforma del 2012), ma sostanzialmente dotata di una continuità nel merito, coerente con il disegno e la logica retrostanti alle politiche perseguite negli ultimi trent’anni (tant’è vero che tutte le grandi riforme prevedevano un “taglio” dei parlamentari). Ecco quindi che un aspetto positivo (una riforma puntuale) può trasformarsi in un modo più subdolo e pericoloso di delegittimazione e decostruzione dell’impianto costituzionale: un passo alla volta, nel silenzio dell’opinione pubblica, risulta più facile aggirare gli anticorpi politici e giuridici della Carta. Insomma, se il Parlamento è in crisi (e lo è da tempo), questa revisione costituzionale lungi dal tentarne un rilancio continua nella stessa direzione volta al suo indebolimento.

La pandemia e le sue conseguenze sanitarie, sociali ed economiche hanno ribadito, piuttosto che affossato, il ruolo decisivo giocato dalla rappresentanza e dal dibattito parlamentare nel coerente funzionamento di una democrazia, specie nelle fasi emergenziali. Il governo troppo spesso ha optato per rischiose fughe in avanti su regolamenti e decreti: le opposizioni più volte – non senza elementi sostanziali a loro favore – hanno lamentato lo svuotamento del dibattito, ma a loro volta hanno spesso preferito i social network o la piazza come centro di contestazione e di presentazione di richieste al governo. I partiti odierni, dopati dalla sindrome maggioritaria, devo nuovamente abituarsi al dibattito parlamentare?

La pandemia ha determinato un quadro di intervento peculiare, senza precedenti storici, su cui quindi è difficile in questo momento dare valutazioni. Forse per la prima volta gli strumenti legislativi eccezionali a disposizione del Governo erano pienamente giustificati (anche se probabilmente sono state fatte scelte infelici, ma non illegittime). A mio parere, tuttavia, non può essere agevolmente presa a metro di paragone. Certa è invece la tendenza di praticamente ogni forza politica che si trova in minoranza di denunciare le compressioni del dibattito parlamentare, per poi operare nel medesimo modo una volta raggiunto un posto nell’esecutivo (si pensi all’approvazione della legge di bilancio nel dicembre 2018 e alle lamentele – giuste! – di chi fino all’anno prima aveva legiferato a colpi di decreti legge, mozioni di fiducia e deleghe al governo tanto frequenti quanto generiche nella forma e importanti nei contenuti).

È chiaro che il Parlamento ha bisogno di riacquistare il ruolo primario che la Costituzione gli assegna. Ciò passa anche dalla consapevolezza della classe politica. Ma il dibattito parlamentare, per essere realmente tale, deve poi essere dotato di effettivi poteri decisionali. Ad esempio, è sicuramente da guardare con positività la parlamentarizzazione della crisi di Governo del primo Conte, ma oltre a portare il dibattito nel Parlamento è fondamentale che tale organo riacquisti una dignità, frutto dell’indipendenza dal Governo, dalle élites di partito, nonché anche dalle scelte “sovranazionali” che troppo spesso si trova meramente a ratificare. Tornare a discutere nelle aule parlamentari è condizione necessaria, ma non sufficiente, affinché il Parlamento possa svolgere il suo ruolo costituzionalmente necessario.

Il governo ha più volte ribadito di voler vincolare la riforma all’approvazione futura di una legge elettorale proporzionale. Tuttavia, ci sembra che riducendo il numero dei parlamentari ci sia il rischio di accentuare la deriva maggioritaria della nostra governance politica: più potere verticale alle segreterie di partito per la scelta degli eletti, meno potere di scelta ai cittadini, accentuazione del mito della “snellezza” che porta con sé le logiche della ricerca di un vincitore chiaro e netto nel processo elettorale. Possiamo affermare che una vera democrazia proporzionale è impensabile con un rapporto tanto elevato tra numero di elettori e eletti finali?

Che il Governo si preoccupi delle riforme costituzionali è già un problema di per sé. “Siano vuoti i banchi del Governo”, ammoniva Calamandrei in Costituente. Il potere di revisione costituzionale è appannaggio del Parlamento e dovrebbe essere svolto con la ricerca della più amplia maggioranza possibile. La Costituzione non ha previsto che la legge elettorale debba essere proporzionale. Se tale scelta era sicuramente implicita all’epoca dei costituenti (per ragioni storico-politiche), non si è voluto sottrarre al decisore politico la scelta in proposito. Ma la Costituzione parla chiaro: la formulazione originaria del testo, in vigore dal 1948 al 1963, prevedeva un’esplicita correlazione tra numero di eletti e numero di elettori, esplicitando la ratio per cui non è una questione di numeri (né di costi) quella che deve guidare alla definizione della composizione delle Camere, ma è una questione di rappresentatività. La riforma del 1963 ha soltanto reso implicito tale criterio, non modificando né i numeri, che di fatto sono rimasti gli stessi, né il ruolo del Parlamento.

Il tema della legge elettorale è all’attenzione del dibattito pubblico da tre decenni almeno e rappresenta un sintomo di un assetto politico e partitico che non riesce a trovare nuovi equilibri e vive una profonda crisi della rappresentanza politica. Ma è alla rappresentanza politica e al ruolo del Parlamento per come delineato dalla Carta che deve guardare il legislatore nel disegnare la legge elettorale. Come ha affermato la Corte costituzionale: «in una forma di governo parlamentare, ogni sistema elettorale, se pure deve favorire la formazione di un governo stabile, non può che esser primariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività» (sent. n. 35 del 2017).

Con la legge elettorale non si deve garantire l’asserita necessità della “governabilità” (che, come spiega Zagrebelsky, «indica l’esigenza che la società sia resa, per quanto possibile, una superficie tutta piana, dove non si incontrano ostacoli e resistenze, su cui possano planare le misure finanziarie e (anti)sociali necessarie per garantire la sopravvivenza del quadro economico e degli interessi che vi si muovono»), ma in primis eguaglianza e rappresentatività del voto.

Il fatto che si voglia vincolare politicamente la riforma costituzionale a una legge (ordinaria) è la prova lampante dello squilibrio di questa riforma. Se, infatti, nel momento in cui il referendum dovesse accogliere la riforma appare necessario cambiare la legge elettorale in senso proporzionale, con meccanismi di tutela delle minoranze, significa che si è ridotto il numero di opzioni costituzionalmente accettabili di regolazione dell’assegnazione dei seggi. Ciò significa che si lascia consapevolmente al legislatore ordinario (che sembra negli ultimi anni avere un favor per la produzione di leggi elettorali incostituzionali, cfr. Corte cost. sent. 1/2014 e sent. 35/2017) la facoltà di relegare sempre di più le minoranze e la rappresentanza fuori dal Parlamento e delegando a un suo intervento, ipotetico nel se e nel quando, la correzione delle storture derivanti dalla riforma.

Un’ottima legge elettorale potrebbe mitigare, se non quasi annullare, le problematiche della riforma. Ma tale legge, semplicemente, non esiste.

Concludendo, come giudichi il crescente movimento sul piano politico, sociale, culturale e mediatico a favore del No al referendum? Perché ritieni che tali forze si siano messe in moto solo dopo la pandemia, rimanendo a lungo silenti quando il referendum era previsto per marzo?

Il crescente movimento per il no è da guardare con occhi di favore, anche se probabilmente rischia di essere tardivo. Non so bene quali valutazioni ci siano state dietro la crescente esposizione di alcune forze politiche e sociali, nonché anche da parte di esponenti del mondo accademico che inizialmente si erano tirati in disparte. Non mi pare (ma spero tanto di sbagliarmi) che sia un carro dei vincitori su cui saltare. Forse, lo spazio occupato dal NOstra ha dato qualche frutto: aperta una breccia nel muro del silenzio, il passaggio è diventato più agevole per tutti. E, in fondo, era quello che speravamo.

(A cura di Andrea Muratore)

Clicca qui per leggere tutte le interviste realizzate dall’Osservatorio Globalizzazione.

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