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Le fragilità ed il fallimento dell’ordine egemonico liberale

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Le fragilità ed il fallimento dell’ordine egemonico liberale

Da qualche decennio a questa parte, gli Stati Uniti si sono impegnati per instaurare un preciso ordine mondiale denominato “ordine egemonico liberale”. Creandolo, buona parte della classe dirigente ed intellettuale statunitense, riteneva di poter risolvere il problema dell’anarchia nelle relazioni internazionali, spalancando le porte ad un futuro di diffuso benessere e di pace. Dopo trent’anni di continui tentativi, tale ordine non è venuto in essere. In questo articolo si cercano di rilevare le fragilità del suo nucleo teorico fondativo, fallacie che mettono in dubbio la vera e propria possibilità di instaurare tale ordine. L’élite statunitense non sembra interessata a cogliere le contraddizioni di tale progetto ed è ragionevole aspettarsi che persisterà nel tentativo. Ma un bilanciamento dei rapporti di forza tra Stati potrebbe porre un freno.

Nel suo studio sulle origini, le crisi e la trasformazione dell’ordine mondiale americano-centrico, John Ikenberry, “uno dei più grandi studiosi della scuola liberale delle Relazioni Internazionali”,[1] comincia la sua analisi sostenendo che negli ultimi duecento anni le democrazie occidentali abbiano continuamente cercato di costruire un ordine mondiale nel quale le relazioni tra gli Stati siano “aperte e basate su regole”,[2] e chiama questo progetto col nome di “progetto liberale”. Dalla seconda metà del ventesimo secolo, continua Ikenberry, gli Stati Uniti si sarebbero dedicati “alla più ambiziosa e radicale opera di costruzione dell’ordine liberale cui il mondo avesse mai assistito: [l’] ordine egemonico liberale”.[3] Entrambi i progetti si fondano su “tre componenti dell’ordine internazionale liberale, [che] si rinforzano a vicenda”.[4] La differenza tra i due progetti può essere ridotta a questo: nel primo l’ordine è, perlomeno fintanto che le tre componenti non si siano pienamente realizzate, garantito dall’equilibrio di potenza; nel secondo invece all’equilibrio di potenza si sostituisce la superpotenza e la volontà dell’egemone, il quale deve ergersi a “Leviatano globale”, ovvero svolgere inter-statalmente la funzione hobbesiana che lo Stato-Leviatano svolge in politica interna nelle relazioni inter-personali.[5]

Sempre secondo il professore dell’Università di Princeton, gli Stati Uniti hanno cominciato a costruire l’ordine egemonico liberale nel blocco occidentale durante la Guerra Fredda, e dopo il crollo dell’Unione Sovietica hanno esteso tale tentativo a tutto il globo. Ancora nel 2010, Ikenberry ritiene che “gli Stati Uniti sono stati fra i paesi di maggior successo nella costruzione dell’ordine [internazionale] nella storia mondiale perché hanno combinato l’esercizio della loro potenza con il sostegno che hanno saputo fornire all’ordine basato su regole.”[6]

L’estensione dell’ordine egemonico liberale dal blocco occidentale all’interno mondo, che dalla fine della Guerra Fredda è stata perseguita apertamente da tutte le amministrazioni presidenziali statunitensi (il primo presidente ad averla messa in dubbio è stato Donald Trump[7]), non è stata ancora ultimata. Ikenberry ritiene che ciò sia dovuto ad una crisi di legittimità. Usando le sue parole: “l’ordine egemonico liberale a guida statunitense si trova oggi ad un punto morto, ma tale situazione di impasse è almeno in parte causata da una crisi di autorità all’interno dell’ordine internazionale liberale, ma non di una crisi dell’ordine internazionale liberale stesso. [L’impasse] deriva anzi dal successo del progetto liberale.”[8]

Quello che si vuole invece qui dimostrare è che tale progetto non si trova ad uno stallo a causa di una crisi di autorità, ma invece perché il suo obbiettivo è strutturalmente impossibile da raggiungere. Detto altrimenti, Ikenberry confonde il sintomo con la causa: la crisi di autorità sofferta dagli Stati Uniti è un sintomo dell’impossibilità, dovuta alla struttura internazionale, di costruire un ordine egemonico liberale.

Al fine di dimostrare ciò, nelle pagine seguenti si svolgerà una critica al progetto di “ordine egemonico liberale” perseguito dagli Stati Uniti e giustificato da Ikenberry. Al fine di svelare le debolezze di questa teoria, occorre (1) dimostrare la fragilità ed il mal riposto ottimismo nelle teorie liberoscambiste ispiranti il “progetto liberale”; (2) dimostrare che le prescrizioni fatte all’egemone per instaurare “l’ordine egemonico liberale” hanno l’effetto di esacerbare le fragilità delle teorie discusse in (1).

Le fragilità del progetto liberale

Il progetto liberale riconosce la struttura anarchica delle relazioni internazionali, che obbliga gli Stati a poter contare solo sulle proprie forze per assicurarsi la sopravvivenza. I pericoli della guerra e di essere annientati sono sempre presenti.

La teoria dell’ordine liberale ritiene che sia possibile risolvere il dilemma della collaborazione tra gli Stati realizzando i postulati delle teorie liberali delle relazioni internazionali. Queste leggi, così come le enuncia Ikenberry, sono le seguenti:

“la prima è il liberalismo commerciale […] secondo cui la diffusione del capitalismo e dei mercati crea interdipendenza economica, guadagni congiunti, interessi condivisi e incentivi alla cooperazione internazionale. La seconda fonte consiste nella teoria della pace democratica […] e sostiene che gli ordinamenti politici repubblicani o democratici cercano di associarsi gli uni agli altri e mostrano di intrattenere relazioni pacifiche. L’ultima fonte è l’istituzionalismo liberale […] sulla supremazia della legge; la tesi di fondo in questo caso è che diritto ed istituzioni internazionali siano il portato di società liberali che formano fra di loro aspettative ed obbligazioni. Ciascuna di queste tradizioni offre un insieme di enunciati su come le democrazie liberali costruiscono e operano all’interno del sistema internazionale”.[9]

La fragilità del progetto liberale è che, nessuna di queste tre leggi, nemmeno se assommate, è in grado di risolvere l’anarchismo intrinseco nelle relazioni internazionali. Muoversi nello spazio internazionale assumendole come vere, rischia anzi di innescare delle crisi molto gravi.

La (a) teoria del liberalismo commerciale, detta anche dell’interdipendenza economica, sostiene che due Stati reciprocamente e sufficientemente dipendenti non si combattono poiché i costi della guerra sarebbero maggiori rispetto a quelli della cooperazione. Poiché il benessere di entrambi gli Stati diventa reciprocamente dipendente, un’azione di guerra finirebbe per danneggiare anche l’aggressore, di conseguenza entrambi gli Stati possono cooperare senza temere un’azione aggressiva da parte dell’altro. La debolezza di questa teoria è che assume senza prima dimostrare che “la prosperità, e non la sopravvivenza, è l’obbiettivo primario degli Stati.”[10] Credere che il motore primo che muova gli Stati sia la ricerca della prosperità significa, così come lo definisce Dario Fabbri, essere vittima della “temporanea illusione dell’economicismo”, ovvero di credere “che il vantaggio economico muova il mondo”.[11]

Alla teoria economicistica si potrebbe obbiettare che, siccome gli Stati che non sopravvivono non possono prosperare, le questioni concernenti la sopravvivenza godono di priorità rispetto a quelle economiche. Si prenda ad esempio la Russia e gli Stati europei alla vigilia del 2014: essi erano molto più interdipendenti di quanto non lo fossero mai stati per tutto il periodo della Guerra Fredda. Ma ciò non ha fermato la Russia dall’intervenire aggressivamente e finanche militarmente, soffrendo conseguentemente una recessione economica, per bloccare l’ingresso dell’Ucraina nella NATO e nell’UE. Questo perché la Russia ritiene che una Ucraina facente parte delle istituzioni atlantiche costituisca una minaccia vitale alla propria sopravvivenza. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, gli scambi economici tra gli Stati europei erano enormi, ma ciò non ne ha prevenuto lo scoppio. Qiao Liang e Want Xiangsui rilevano che la stessa interdipendenza economica può essere usata come arma di guerra non convenzionale da uno Stato contro un altro Stato.[12]

Ci sono molte altre considerazioni non pienamente risolte dalla teoria del liberalismo commerciale: i costi della guerra possono essere inizialmente sottostimati, i guadagni della vittoria potrebbero essere maggiori dei costi o perlomeno sovrastimati, etc. Vi sono anche esempi di Stati che nonostante fossero in stato di guerra continuavano a commerciare tra di loro.

Inoltre, soprattutto per economie fortemente globalizzate, vi è sempre il rischio che crisi economiche a catena spingano gli Stati a proteggersi con misure protezionistiche, o che uno Stato venga economicamente danneggiato dalla globalizzazione e dal libero commercio, rendendo perciò più invitante la prospettiva di guadagno economico ottenibile tramite una vittoria militare. Per esempio, il miracolo economico delle tigri asiatiche fece diminuire il dilemma della sicurezza in Asia, ma la crisi finanziaria del 1997-98 lo fece ritornare il primo piano; la decisione irachena di invadere il Kuwait era in parte causata dall’enorme danno economico che l’Iraq stava subendo a causa dell’aumento kuwaitiano della propria produzione petrolifera all’interno di un mercato fortemente globalizzato.[13] In poche parole, per quanto ci possa essere della verità nella teoria dell’interdipendenza economica, essa non è in grado di dimostrare appieno le proprie conclusioni, poiché “non ci sono le basi per credere che l’interdipendenza economica funga da fondamento sicuro per la pace internazionale, anche se occasionalmente può servire da freno”.[14]

Per quanto concerne la (b) teoria della pace democratica, essa non sostiene semplicemente che i regimi politici democratici e repubblicani mostrano di intrattenere relazioni pacifiche, ma anche che essi “sviluppano ‘vantaggi di contrattazione’ che consentono a loro di sviluppare relazioni di cooperazioni più profonde. Queste relazioni, a loro volta, forniscono meccanismi per segnalare moderazione e impegno che riducono l’insicurezza che altrimenti esisterebbe fra gli Stati fra i quali intercorrono relazioni di potenza ineguali.”[15] Il limite di questa teoria è che si limita a rilevare e dimostrare che le democrazie sono tendenzialmente più pacifiche e perciò riducono la probabilità della guerra, tra l’altro senza essere veramente in grado di spiegare perché. Questa tendenza non può però essere considerata conclusiva poiché i dati storici confermano che le democrazie si sono eccome fatte la guerra (Prima Guerra Mondiale, Guerra Civile Americana[16], India contro Pakistan, etc.).

Ma anche accettando i dati secondo cui le democrazie storicamente sono state meno propense a farsi la guerra, si potrebbe sostenere come fanno Henry Farber e Joanne Gowa, che la pace democratica è in realtà dovuta a fattori esogeni alla teoria: prima del XX secolo il loro numero è limitato poiché il numero dei confini condivisi tra democrazie era circoscritto, mentre dopo il 1945 la pace democratica nel blocco occidentale era dovuta alla minaccia posta dal blocco comunista. Detto altrimenti, la pace sarebbe un risultato dei bilanciamenti sistemico-strutturali e dei calcoli di realpolitik fatti dai due blocchi, non dalla natura democratica dei regimi occidentali.[17] Questa idea è oltretutto in grado di spiegare come mai, sia durante la Guerra Fredda che dopo, vi è una numerosa lista di governi democraticamente eletti ribaltati manu militari da altre democrazie: si pensi ai continui interventi statunitensi in Sudamerica.

L’ulteriore debolezza della teoria della pace democratica è che essa non è valida per relazioni tra democrazie e non democrazie, per cui è sufficiente che al mondo vi sia un regime non democratico affinché quella della guerra rimanga una possibilità.[18] A ciò si aggiunga che lo stesso Michael Doyle, uno dei principali teorici della pace democratica, rileva che le democrazie sono inclini a muover guerra alle non-democrazie con “veemenza imprudente”; o, come nota Richard Tawney, per i liberali “la guerra è o un crimine o una crociata. Non vi è una via di mezzo.”[19]

Neanche l’argomento secondo cui i valori normativi democratici e liberali guiderebbero lo ius in bello e lo ius ad bellum dei regimi democratici è convincente e non sopravvive alla prova dei fatti. Nel suo studio sulla guerra aerea, Robert Pape nota che i regimi democratici sono stati prolissi nel bombardare la popolazione civile dell’avversario;[20] John Tirman riporta che in guerra gli Stati Uniti hanno ucciso milioni di civili, molte volte di proposito;[21] Aleksander Downes nel suo studio sull’uso strumentale delle popolazioni civili in guerra rileva che la tendenza dei regimi democratici di bombardare la popolazione civile dell’avversario sia persino superiore a quella dei regimi non democratici.[22] Riguardo all’argomento secondo cui i politici dei regimi democratici sarebbero restii ad andare in guerra poiché responsabili davanti ai propri cittadini, Stephen Walt rileva che “spesso i dirigenti degli Stati Uniti si rivolgono alle stesse persone più e più volte, anche quando queste hanno ripetutamente fallito nel portare a termine i compiti che erano stati loro assegnati [e] le persone che fanno le cose per bene […] possono pagare un prezzo considerevole per aver portato alla luce verità spiacevoli”.[23] Nel medesimo studio, Walt denuncia l’abilità dei mezzi di comunicazione di massa di giocare sui sentimenti di giustizia e sull’idea dell’universalità dei diritti dell’uomo per convincere il proprio pubblico a muovere guerra contro un regime presentato come antitetico ai propri valori.[24] Carlo Jean rileva nelle guerre umanitarie la decisione politica prevale logicamente sulle considerazioni morali.[25]

La terza idea fondamentale (c) riguarda l’abilità delle istituzioni internazionali liberali di risolvere pacificamente i conflitti di interesse degli Stati. Anche qui, la teoria rileva e discute la “particolare abilità e volontà” e gli “incentivi ed impulsi presenti nelle strutture fondamentali delle società” liberali a “commerciare, negoziare, e cercare di cooperare per ottenere guadagni condivisi”.[26] Walt scrive: “forti regimi internazionali […] possono facilitare la cooperazione tra stati, scoraggiare comportamenti eccessivamente competitivi e rendere meno probabile il verificarsi o un’intensificarsi di dispute violente”.[27] La teoria di Ikenberry attinge a piene mani dalla quella di Robert Keohane,[28] che si impegna a cercare il modo di spingere gli Stati a cooperare in maniera sempre più intensa attraverso le istituzioni internazionali di modo da assicurare che tali cooperazioni risultino proficue per tutti gli attori coinvolti. Ma anche all’interno della sua teoria gli Stati permangono in uno stato di anarchia, per cui il conflitto può sempre scoppiare e gli Stati sono sempre liberi di disattendere o sabotare le istituzioni e le regoli che avevano precedentemente stipulato e che si erano solennemente dichiarati pronti a rispettare.

La funzione egemonica del Leviatano liberale che Ikenberry aggiunge alla teoria di Keohane sembra però avere il pregio di essere in grado di dimostrare che dopo la Seconda Guerra Mondiale i caratteri peculiari dell’egemonia statunitense si collocano fuori da una semplice imposizione egemonica, e che la cooperazione degli Stati europei, insieme alla loro accettazione delle istituzioni liberali e delle regole di gioco che esse impongono, sembrano aver dato luogo ad una cooperazione pacifica e reciprocamente vantaggiosa per tutti gli Stati all’interno del blocco egemonico statunitense. Detto altrimenti, si sarebbe realizzata su scala ridotta e per un periodo di tempo relativamente lungo quell’ordine mondiale liberale egemonico che Ikenberry delinea nella sua teoria.

Tuttavia, non può che balzare all’occhio che i tentativi di estendere tale cooperazione ad altri Stati, in particolare extraeuropei, a Guerra Fredda finita sembrano invece essere stati coatti e talvolta fallimentari. Oltretutto, la teoria della cooperazione istituzionale di Ikenberry presuppone che tra il Leviatano egemonico e gli Stati secondari permanga una forbice di potenza talmente divaricata da permettere all’egemone di soprassedere alle loro azioni e di implementare azioni di polizia e finanche sanzionatorie affinché gli Stati secondari compiano la scelta obbligata della cooperazione. Ma, come annota Barry Posen, “quanta potenza [serva] è una domanda aperta”.[29] La cosa si complica se si mette in conto che la potenza relativa statunitense, impareggiabile rispetto a quella degli Stati europei nel secondo dopoguerra ed alla fine della Guerra Fredda, sta diminuendo, mentre aumenta la potenza degli Stati secondari a cui dovrebbe estesa ed esercitata la funzione egemonica. La possibilità di instaurare su di un piano mondiale tale egemonia diviene perciò dubbia.

Riassumendo, le tre teorie che formano la base dell’ordine liberale sono certamente in grado di promuovere la cooperazione tra gli Stati, ma non sono in grado di risolvere il rompicapo strutturale delle relazioni internazionali: l’anarchismo. Il “progetto liberale” è perciò fragile. Nei prossimi paragrafi si cercherà di dimostrare come il tentativo dell’unipolare di ergersi a Leviatano globale peggiori il già fragile equilibrio offerto dalle tre leggi liberali.

Il fallimento del progetto egemonico liberale

Al fine di ergersi a Leviatano globale, “nei prossimi decenni gli Stati Uniti devono tener duro”[30] ed assolvere tre compiti: “(x) preservare la supremazia degli USA, specialmente nella sfera militare; (y) espandere la sfera di influenza degli USA; e (z) promuovere le norme liberali di democrazia dei diritti umani”.[31]

La (x) rincorsa agli armamenti per mantenere la propria supremazia militare nei confronti degli Stati secondari, presi sia singolarmente che in gruppo, viene fatta all’interno di una struttura anarchica e con un intento necessariamente e dichiaratamente offensivo, per cui l’effetto uguale e contrario non può che essere quello di allarmare gli Stati secondari, specialmente quelli non allineati. Il risultato è che tutti gli Stati non economicistici, non pienamente allineati e non pienamente liberal-democratici saranno spinti dalle semplici logiche di contro-bilanciamento in una collaborazione anti-egemonica più o meno acrobatica.[32] In risposta a tale contro-bilanciamento, gli Stati Uniti dovranno aumentare ulteriormente la propria capacità militare, alimentando il circolo vizioso. Ciò che sfugge a questa logica viziosa è che tali coalizioni anti-egemoniche non sono per nulla naturali, ma nate dall’esigenza comune di controbilanciare l’aspirante egemone. Si prendano come esempio le recenti collaborazioni economiche e militari tra Russia, Cina e Iran: tre paesi non liberal-democratici, dal passato imperiale e con dei dissapori non completamente dimenticati. Qualora gli Stati Uniti non avessero perseguito una politica di massima pressione nel loro confronti, difficilmente questi tre paesi in via di sviluppo ed affamati di tecnologie e capitali occidentali non avrebbero preferito farsi corteggiare degli Stati europei e Nordamericani. A questo “bilanciamento esterno”, ovvero fatto dagli Stati tramite alleanze e cooperazioni, va aggiunto il “bilanciamento interno” con cui uno Stato che si sente minacciato cerca di assicurare la propria sopravvivenza, per esempio dotandosi di armi nucleari, uno dei pochi espedienti in grado di minacciare direttamente gli Stati Uniti.[33]

Il secondo obbiettivo, quello di (y) estendere la sfera d’influenza degli Stati Uniti, porta gli USA ad imbarcarsi in un enorme numero di impegni in tutte le parti del mondo, obbligandoli ad una condizione di iper-estensione, ed allo stesso tempo a rifiutare che gli altri attori diventino in grado di supplire autonomamente alle loro esigenze. Per esempio, gli Stati Uniti hanno spinto la NATO ad allargarsi a molti altri Stati a ridosso della Russia, conseguentemente causando una reazione russa di contro-bilanciamento,[34] senza però permettere che gli Stati europei o l’UE sviluppassero capacità militari significative all’infuori delle istituzioni della NATO stessa, per timore che nel lungo periodo questi avessero potuto diminuire l’influenza USA in Europa prima, ed affrancarsi dalla tutela statunitense dopo.[35] Ne consegue perciò che “l’assertività della Russia [causata dall’allargamento della NATO] ha accresciuto i timori dei suoi vicini, spingendoli ad appellarsi collettivamente agli Stati Uniti e alla NATO per ottenere ulteriori garanzie di protezione”.[36] In Europa è quindi richiesta una ulteriore presenza militare statunitense per proteggere Stati già difficilmente difendibili ma che, se non fossero entrati nell’Alleanza Atlantica, non avrebbero innescato, da parte russa, il processo di bilanciamento e contro-bilanciamento militare.

La credibilità, dote che l’egemone deve per forza mantenere per spingere gli Stati secondari a rispettare le regole del gioco, ossessiona la sua classe dirigente, che ormai “ha accettato l’idea che il mancato rispetto dei loro impegni porterà a sfide ovunque […] esagera la propria disponibilità e la infonde di valori: i nostri amici sono sempre dei piccoli liberali democratici assediati da criminali ed aspiranti tiranni.”[37] Alcuni Stati alleati diventano pigri e restii a contribuire a provvedere alla propria sicurezza, obbligando l’egemone a provvedere alla loro; altri Stati “intraprendono azioni sfrontate [approfittando] del bisogno di credibilità degli Stati Uniti”.[38]

Se a ciò si aggiunge “il drammatico aumento” degli impegni statunitensi in tutte le regioni del mondo avvenuto nel periodo post Guerra Fredda, si può notare che “sotto l’egemonia liberale, in breve, gli Stati Uniti continuarono ad accollarsi nuovi impegni di sicurezza senza rinunciare alle sue altre obbligazioni […] La ‘sfera di influenza’ americana non è mai stata più grande, ma quanta influenza gli Stati Uniti esercitino realmente in questi posti non è per nulla chiaro”.[39]

L’obbiettivo di (z) diffondere valori liberal-democratici causa un ulteriore peggioramento del già fragile equilibrio internazionale. Innanzitutto esso sovrastima la capacità statunitense di modellare le culture e le istituzioni degli altri Stati, oltre ad ignorare l’attaccamento degli individui alla propria cultura e al desiderio di stabilità. A ciò va aggiunto che l’intervento militare venga visto come legittimo per abbattere regimi non liberal-democratici e per cominciare i processi di ingegneria sociale, aumentando il risentimento della popolazione locale verso la benignità dell’egemone, diminuendone ulteriormente la credibilità ed aumentandone la crisi di legittimità.

Ma (z) è anche molto pernicioso, poiché, siccome la teoria dell’ordine egemonico liberale interpreta l’instaurazione di tale ordine come il modo migliore per mettere tra parentesi il problema dell’anarchia nelle relazioni internazionali, i propugnatori di (z) “credono che così facendo renderanno meno probabili i conflitti ed aumenteranno ulteriormente la sicurezza degli USA”.[40] “La diffusione di questi valori”, scrive Barry Posen, “non è solo ritenuta essere buona in se stessa, è ritenuta essere positiva, se non essenziale, per la sicurezza degli Stati Uniti. L’idea è che gli Stati Uniti possono essere veramente sicuri solo in un mondo pieno di Stati come noi, e fintanto che gli Stati Uniti hanno il potere di perseguire questo risultato, dovrebbero farlo.”[41] Questo spiega perché “fondamentalmente, l’egemonia liberale ha cercato di rifare la politica mondiale ad immagine e somiglianza degli Stati Uniti e per il beneficio degli Stati Uniti.”[42] Il “senso di superiorità” ed il “senso di insicurezza”[43] con cui l’egemone approccerà, all’interno della struttura anarchica internazionale, gli altri attori internazionali (i quali devono diventare a sua immagine e somiglianza per ragioni di sicurezza interna degli Stati Uniti) per perseguire la propria missione ordinatrice (che è ritenuta buona sia per gli Stati Uniti che per tutti gli altri) spiega perché, nei rapporti diplomatici, Washington “tende semplicemente a dire agli altri quello che vuole che facciano. Se si rifiutano di obbedire, i dirigenti degli Stati Uniti minacciano o passano alle maniere forti.”[44] Se infine si tiene a mente che il progetto egemonico è fragile e che il progetto egemonico liberale non può che andare a sbattere contro strutturali punti morti, si capisce perché “una volta sguinzagliato sulla scena mondiale, l’unipolare liberale diventa presto dipendente dalla guerra.”[45]

Lo stato di guerra permanente che risulta da questo circolo vizioso nega all’ordine egemonico liberale la caratteristica di ordine.

Conclusioni e prospettive future

L’obbiettivo di questo articolo è stato quello di dimostrare che l’impasse in cui gli Stati Uniti sono andati a sbattere non è una semplice crisi di autorità, ma un sintomo dell’impossibilità di instaurare un ordine egemonico liberale su scala globale. La fragilità del progetto liberale è insita nel seguente postulato delle teorie liberali: la struttura internazionale è anarchica, ma (1) se si riesce a porre in essere le tre leggi liberali sulle relazioni internazionali (a, b, c) non ci sarebbero più ragioni di farsi la guerra. Il problema dell’anarchismo verrebbe essenzialmente risolto. Il (2) progetto egemonico liberale aggiunge la variabile dell’egemone-leviatano, a cui sono affidati tre compiti (x, y, z) per porre in essere e far rispettare l’ordine instaurato tramite (a, b, c). Tuttavia, si è cercato di dimostrare che (a, b, c) non sono pienamente soddisfacenti. La struttura mondiale rimane perciò anarchica e l’ordine liberale è un ordine fragile. In più, l’azione dell’egemone risulta paradossalmente in un ulteriore aggravamento della fragilità di tale ordine.

Dopo trent’anni di tentativi, verrebbe da chiedersi se gli Stati Uniti persevereranno nel loro obbiettivo. Stephen Walt, John Mearsheimer e Barry Posen, tre dei più noti sostenitori di un approccio realista per gli Stati Uniti e forti critici del progetto egemonico liberale, notano con rammarico che le loro idee siano aliene sia in ambito accademico che in quello politico e mediatico. Questi ambienti, affermano, sono dominati da persone religiosamente fedeli al progetto egemonico liberale e rimangono pressoché sorde e cieche ai continui fallimenti della politica estera statunitense, e ignorano persino considerazioni di costo-beneficio.[46] Né l’insofferenza del pubblico statunitense verso i continui impegni all’estero né l’elezione di Trump del 2016, parzialmente ottenuta grazie alle sue sfuriate contro la politica estera della casta mediatico-accademico-politica statunitense, hanno segnato un cambiamento in politica estera.

La classe dirigente statunitense imparerà dai propri errori? Non necessariamente. Al di là di ciò che è già stato detto nelle pagine precedenti, gli Stati Uniti si estendono su di un territorio estremamente generoso e sicuro e “godono della situazione privilegiata di stato-isola, e su scala continentale.”[47] Ragioni per cui, “specialmente dal 1993, gli Stati Uniti hanno avuto il lusso di poter intervenire ovunque decidessero e poi ritirarsi se le cose andavano male – come hanno fatto in Vietnam, Iraq, Somalia e Libia – lasciando la popolazione locale al suo destino.”[48]

Oltre alla radicale ed attualmente non in vista cambiamento di mentalità nella classe dirigente statunitense, c’è un’altra possibilità che obbligherebbe a cambiare approccio. Nel suo tentativo di proporre una teoria del mondo unipolare, Nuno Monteiro rileva che l’attore unipolare abbia essenzialmente tre possibilità, tra loro strategicamente molto diverse: l’attore unipolare, consapevole della propria potenza e della assenza di attori che possano nuocergli, può ritirarsi dalla scena mondiale; l’attore unipolare può rimanere protagonista cercando di mantenere lo status quo; l’attore unipolare può compiere azioni assertive per cercare di trarre ulteriori benefici modificando a proprio vantaggio lo status quo.[49] Questo significa che “dire che il mondo è unipolare è descrivere la distribuzione sistemica della potenza, non la strategia della sola grande potenza.”[50] Il progetto egemonico liberale, per quanto sia strutturalmente destinato al fallimento, può essere perseguito solo da un attore unipolare. Gli Stati Uniti decisero di perseguire il progetto egemonico liberale nella situazione di unipolarità generatesi con il crollo dell’Unione Sovietica. Perciò una ri-distribuzione sistemica della potenza all’interno della struttura mondiale, per esempio a seguito della continua crescita cinese e/o il solidificarsi di un triangolo Pechino-Mosca-Teheran, strapperebbe l’unipolarismo agli Stati Uniti e bloccherebbe di conseguenza il progetto egemonico liberale. Per lo meno fino a che il Leviatano non si ritroverà di nuovo in una situazione di unipolarità.


[1]             Così lo definisce l’editore italiano in John G. Ikenberry, Leviatano Globale. Le origini, le crisi e la trasformazione dell’ordine mondiale americano, prefazione di Vittorio Emanuele Parsi, traduzione di Antonio Zotti, UTET, Novara, 2013.

[2]                                                John G. Ikenberry, Liberal Leviathan. The Origins, Crisis, and Transformation of the American World Order, Princeton University Press, Princeton, 2012, p. XI. Mie tutte le traduzioni fatte da lavori in lingua straniera. Alcune delle citazioni riportate sono tratte da versioni digitali, per cui il numero delle pagine potrebbe essere diverso da quell’edizione cartacea.

[3]             Ibid, p. XI

[4]             Ibid, p. 64

[5]             Questa teoria è sviluppata da Ikenberry nel suo After Victory. Institutions, Strategic Restraint, and the Rebuilding of Order after Major Wars, Princeton University Press, Princeton, 2001. Ikenberry specifica che questo studio forma la base della teoria del Leviatano globale.

[6]             John G. Ikenberry, Liberal Leviathan, op. cit,  p. XV.

[7]             Si faccia attenzione. Donald Trump l’ha messa in dubbio, non la sua amministrazione.

[8]             Ibid, p. 280.

[9]             John G. Ikenberry, Liberal leviathan, op. cit, p. 62-3.

[10]           John J. Mearsheimer, The Grand Delusion. Liberal Dreams and International Realities, Yale University Press, 2018.

[11]           Dario Fabbri, La temporanea illusione dell’economicismo, in AA. VV, Il potere del mito, Limes, rivista italiana di geopolitica, 2/2020.

[12]           Quiao Liang, Want Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG, 2001.

[13]           John J. Mearsheimer, The Tragedy of Great Power Politics, University of Chicago, 2001, p. 371.

[14]           John J. Mearsheimer, The Great Delusion, op. cit, p. 212-3.

[15]           John G. Ikenberry, Liberal Leviathan, op. cit., nota a p. 173. Corsivo aggiunto.

[16]           Per quanto questa guerra venga detta civile, gli Stati Confederati si erano costituiti come Stati pienamente indipendenti dal nord prima che la guerra scoppiasse. La guerra si può perciò considerare a pieno titolo come una guerra tra due Stati formalmente e praticamente indipendenti. 

[17]           Henry Faber, Joanne Gowa., Polities and Peace, in International Security, 20, 2, p. 123-147.

[18]           Si tenga a mente che una democrazia può sempre trasformarsi in un regime non democratico. Inoltre, nel ventennio 2000-2020 il numero dei regimi democratici si è notevolmente contratto.

[19]           Citazioni tratte da John J. Mearsheimer, The Great Delusion. Si prendano per esempio gli Stati Uniti ed il Regno Unito, che dalla fine della Guerra Fredda sono stati in un pressoché costante stato di guerra.

[20]           Robert A. Pape, Bombing to Win. Air Power and Coercion in War, Cornell University Press, 1999.

[21]           John Tirman, The Deaths of Others: The Fate of Civilians in America’s Wars, Oxford University Press, Nuova York, 2011.

[22] Alexander B. Downes, Targeting Civilians in War, Cornell University Press, p. 3.

[23]           Stephen M. Walt, The Hell of Good Intentions. America’s Foreign Policy Elite and the Decline of U.S. Primacy, Farrar, Straus and Giroux, Nuova York, 2018, p 195.

[24]                         Ibid, in particolar modo il capitolo 4, p. 149-193.

[25]           Carlo Jean con Germano Dottori, Guerre umanitarie. La militarizzazione dei diritti umani, Dalai Editore, Milano, 2012.

[26]           John J. Ikenberry, Liberal Leviathan, op. cit, p. 63.

[27]           Stephen M. Walt, The Hell of Good Intentions, op. cit, p. 65.

[28]           Robert O. Keohane, After Hegemony. Cooperation and Discord in the World Political Economy, Princeton University Press, Princeton, 1984.

[29]           Barry R. Posen, Restraint. A New Foundation for U.S. Grand Strategy, Cornell University Press, Cornell, 2014, p. 62.

[30]           John J. Ikenberry, Liberal Leviathan, op. cit, p. XV.

[31]           Stephen m. Walt, The Hell of Good Intentions, op. cit, p. 71.

[32]           Si veda Hou Aijun, È l’America che ci ha avvicinato alla Russia, in AA. VV, Cina-Russia, la strana coppia, Limes, rivista italiana di geopolitica, 11/2019, p. 53-58.

[33]           Per una analisi dettagliata del bilanciamento esterno ed interno come risposta ad uno Stato che persegue una strategia di egemonia liberale, si veda Barry R. Posen, Restraint, op. cit, p. 28-35.

[34]           Si veda John G. Mearsheimer, Why the Ukraine Crisis is the West’s Fault: The Liberal Delusion that Provoked Putin, in Foreign Affairs, 2014. Si rimanda anche al mio La reciproca percezione di Russia ed UE, in Eurasia. Rivista di studi geopolitici, 2/2020, p. 141-154.

[35]           Si veda John L. Harper, American Visions of Europe After 1989, in (edito da) Christina V. Balls e Simon Serfaty, Visions of America and Europe: September 11, Iraq, and Transatlantic Relations, Center For Strategic and International Studies, 2004. Citazione riportata da Stephen M. Walt, The Hell of Good Intentions, op. cit.

[36]             Paul J. Bolt, Sharyl Cross, China, Russia, and Twenty-First Century Global Geopolitics, Oxford University Press, Oxford, 2018, p. 203

[37]           Barry R. Posen, Restraint, op. cit, p. 33.

[38]           Ivi, p. 44. Tra esempi che Barry Posen dà per il primo gruppo vi sono gli Stati atlantici europei, mentre per il secondo vi è Israele.

[39]           Stephen M. Walt, The Hell of Good Intentions, op. cit, p. 76.

[40]           Ivi, p. 74.

[41]           Barry R. Posen, Restraint, op. cit,p. 6.

[42]           Stephen M. Walt, The Hell of Good Intentions, op. cit, p. 78.

[43]           John J. Mearsheimer, The Great Delusion, op. cit, p. 51.

[44]           Stephen M. Walt, The Hell of Good Intentions, op. cit, p. 88.

[45]           John J. Mearsheimer, The Great Delusion, op. cit, p. 147.

[46]           È importante sottolineare che un approccio realista alle relazioni internazionali da parte degli Stati Uniti non comporterebbe per nulla un loro ritorno al benigno isolazionismo di interguerra memoria, per quanto la loro azione verrebbe spogliata degli abiti morali e sarebbe più moderata. Gli autori di scuola realista dicono molto chiaramente che gli Stati Uniti debbono mantenere il maggior controllo possibile sulle risorse naturali, lo spazio marittimo, aereo-spaziale e cibernetico mondiali e prevenire il costituirsi del continente eurasiatico in una unità politica. Se quindi i rapporti russo-europei sono attualmente tesi per via del tentativo statunitense di abbracciare l’Eurasia all’interno della propria egemonia, per direttiva di scuola realista le tensioni russo-europee verrebbero comunque artificiosamente mantenute tese per prevenire il costituirsi di un asse Berlino-Mosca.

[47]           Carlo Terracciano, L’isola del mondo alla conquista del pianeta, Prefazione di Claudio Mutti, Introduzione di Giacomo Gabellini, Anteo Edizioni, Cavriago, 2012

[48]           Stephen M. Walt, The Hell of Good Intentions, op. cit, p. 100.

[49]           Nuno P. Monteiro, Theory of Unipolar Politics, Cambridge University Press, 2014, in particolare si veda il capitolo 3.

[50]                           Ibid, p. 63        

Marco Ghisetti è dottore in Politica Mondiale e Relazioni Internazionali e in Filosofia. Ha lavorato e studiato in Europa, Russia ed Australia. Si occupa principalmente di geopolitica, sia pratica che teorica, teoria politica e filosofia politica, con particolare attenzione per le correnti Neo-Eurasiariste e il pensiero comunitarista. Collabora con la rivista di geopolitica "Eurasia" e l'Osservatorio Globalizzazione.

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