Fenomenologia della stampa “indipendente”
Come mai una rivista politologica di taglio scientifico e analitico decide di pubblicare un pezzo come quello di Orazio Maria Gnerre – riferentesi a fatti di attualità (incluse vicende personali dell’autore)? Innanzitutto nella filigrana del pezzo possiamo intravedere un’analisi spietata del funzionamento dell’informazione attuale: qui siamo nel pieno della componente analitica che fa parte della nostra missione. Prima della missione c’è però la visione, e la nostra ha al centro due ben precisi valori costitutivi: la democratica libertà di espressione nei limiti del rigore analitico e concettuale, e per l’appunto, il rigore analitico e concettuale! Vediamo questi due valori sempre più messi in discussione ad opera della comunicazione di massa, comunicazione di massa che ha messo Orazio Maria Gnerre, studioso e politologo, nel proprio tritacarne. Noi apprezziamo i suoi studi e non apprezziamo la penna di chi (basta vedere quanto apparso in questi giorni sulla grande stampa) pretenda ad esempio di spiegare Salvini con Evola, o Putin con Dugin (in merito a queste questioni il Professor Giuseppe Gagliano ha fatto chiarezza proprio su questi pixel). Meno ancora, ci piace chi lo fa scagliando accuse di “fascismo” a destra e a manca. L’antifascismo, per noi, è una cosa serissima, e sul modo in cui andrebbe interpretato a riportato ad efficacia si è espresso il nostro direttore Professor Aldo Giannuli sul suo blog (http://www.aldogiannuli.it/fascismo-antifascismo-una-coppia-concettuale-ancora-attuale/). Pacifico dunque ribadire che le opinioni contenute nel pezzo che pubblichiamo siano le opinioni personali del suo autore – riferite peraltro a vicende sempre personali che egli ha, ahilui, subito. Pacifico altrettanto che lasciare uno spazio di completa autodifesa allo studioso Orazio Maria Gnerre ci sia sembrato non solo coerente con la nostra missione, ma persino doveroso.
In questi ultimi giorni in cui in Italia è esploso il cosiddetto Russiagate, sono stato tirato in ballo dalla stampa per aver incontrato (in tre occasioni distinte, ancorché pubbliche: un’intervista e due conferenze) Gianluca Savoini, il leghista filorusso che è salito agli onori delle cronache. Malgrado io abbia precisato più volte (l’ultima delle quali a Repubblica) di rifiutare categoricamente l’ipotesi di un legame politico tra me e Savoini, avendo specificato allo sfinimento la mia lontananza dal partito di cui è rappresentante – «di cui non condivido né la politica economica e fiscale (liberista), né la politica internazionale (l’atlantismo), né l’ideologia (l’occidentalismo, l’islamofobia…), né in ultimo l’impostazione metodologica (la guerra tra poveri)» – c’è qualcuno che ancora non vuole farsene una ragione. E, vi assicuro, non mancano dei motivi molto precisi per ciò.
Quello di cui mi si accusa a mezzo stampa e in assurdi post di noti parlamentari come Lia Quartapelle (PD) è di essere indagato per il “reclutamento di mercenari da spedire nel conflitto in Donbass dalla parte dei filorussi”. Purtroppo, la storia dell’indagine non è falsa. Sono più di cinque anni che sono sotto indagine per questo motivo, ed ancora purtroppo non sono mai stato sentito dai magistrati o rinviato a giudizio. Sarebbe inutile aggiungere che mi ritengo (e sono!) innocente, e sono convinto di avere il modo per provarlo. Come ho avuto modo di dire a Repubblica, sarei molto contento se l’iter giudiziario accelerasse. Ma attendo pazientemente che ognuno faccia il proprio lavoro. Ad ogni modo, finché la magistratura non si sarà pronunciata, non sarà di questo aspetto che vorrò parlare. Nel frattempo rimando all’intervista di Repubblica, ma ci sarà tempo anche per questo.
Ed è per questo che tralascerò unicamente questo elemento dell’articolo di tale Mattia Salvia di cui voglio parlarvi, dal titolo inverosimile di «Russia, Donbass e Savoini: per capire il sovranismo, iniziate da quest’uomo», dove chiaramente “quest’uomo” sarei io.
Veniamo a Mattia Salvia: da quello che si evince dall’internet, egli è un collaboratore di lungo corso della versione italiana della rivista americana Vice, una specie di giornaletto adolescenziale che ci parla a pie’ sospinto delle gioie dell’utilizzo delle droghe più o meno leggere, dell’arretratezza culturale del popolo italiano e della dignità della prostituzione, anzi no, del sex working (se avete intenzione di passare una serata diversa, guardate con gli amici questa video-intervista della sex worker italo-berlinese e bevete ogni volta che viene usata una parola inglese fuori contesto invece che la sua più comprensibile versione italiana). L’articolo in questione però appare sull’altra testata che adesso da spazio alla sua penna, alias Wired, altro colosso dell’informazione finto-indipendente con sede negli USA.
Il “modello” Vice
Vice e Wired hanno due approcci leggermente differenti, enttambi però mantengono un approccio giovanilistico il cui scopo è quello di farli somigliare a pubblicazioni indipendenti. Questo grazie alla bassa qualità degli articoli, allo stile volutamente poco professionale e confidenziale, e ovviamente agli argomenti e al modo con cui vengono trattati. Un ex collaboratore di Vice con cui abbiamo parlato ci ha confermato come le tematiche di un certo tipo siano selezionate in base ad alcuni criteri di marketing: «questo tipo di rivista si basa su guadagni ricavati dalla permanenza sul sito. Ci sono temi che diventano subito virali – banalmente, tutte le cose per cui è famoso VICE, quindi sesso droga e rock and roll – e dunque fanno un po’ la base». E così ci troviamo di fronte ad articoli che lasciano a dir poco perplessi come questo e questo.
Il fatto che questo sia un metodo ben preciso e uno stile ricercato diviene ancora più chiaro quando si precisa che Vice, nello specifico, è strutturato in un sistema redazionale verticistico, dove i senior la fanno da padroni. «Sulla libertà tematica c’è una figura specifica, l’head of content, che stabilisce la linea editoriale» ci dice la nostra fonte, «l’head of content decide in relazione alle tendenze e alla linea editoriale che vuole dare in quel momento».
La stessa fonte ci conferma come la struttura di Vice, che si suddivide in vari vertical (Noisey, Munchies, i-D e così via…), si avvantaggia grandemente dell’uso dei freelancer: «i collaboratori esterni di norma sono molti in tutte le redazioni perché sono quelli che danno il grosso del materiale». Oltre a questo va anche menzionato l’utilizzo degli stagisti, su cui però la nostra fonte non sapeva molto: «credo che si tratti di stage che durano dai tre ai sei mesi con un rimborso spese, ma dipende credo anche dal fatto che ci sono tanti studenti che magari chiedono il tirocinio per i crediti universitari».
Tra business e flessibilità
Sia Vice che Wired appartengono a compagnie miliardarie. Per fare un esempio, il 16% di Vice Media è detenuto dalla Disney, ad oggi una delle maggiori multinazionali, e nel 2013 Rupert Murdoch, il magnate della comunicazione di massa, per intenderci il proprietario di Sky e di buona parte della carta stampata americana, vi investe 70 milioni di dollari. Fun fact (come scriverebbero i redattori di Vice): la rivista, che ha come argomento privilegiato la presunta ascesa dell’estrema destra e del populismo, fu fondata anche da Gavin McInnes, personaggio che agli italiani dice poco, ma che è una delle figure di riferimento dell’alt-right statunitense, fortemente islamofobo, celebre per essersi inserito un dildo nel deretano in diretta streaming per protestare contro l’Islam (sic!). Wired invece appartiene al colosso americano dell’editoria Condé Nast (società controllata del gruppo Advance Publications), i proprietari di Vanity Fair e di Vogue per intenderci. Per spiegarci sul volume di affari che fa girare Condé Nast rimandiamo a questo.
Malgrado però gli investimenti messi in campo, Vice non sembra essere in grado secondo alcune fonti di trattare decentemente i freelancers o di pagare decentemente i propri autori. È pur vero che in Italia, a causa degli alti tassi di disoccupazione, del costo più basso della vita e degli ormai logori ammortizzatori familiari i soldi pagati da Vice possono sempre far comodo a uno studente, e hanno un impatto sul potere d’acquisto superiore a quanto ne avrebbero negli USA. Secondo un precedente articolo per il momento irreperibile online (ma citato qui sul Fatto Quotidiano) la testata avrebbe licenziato in Italia a seguito della richiesta di maggiori diritti.
Ma a conferma di quanto riportato, nell’articolo del Fatto e secondo la loro fonte si legge: «La situazione, va detto, era abbastanza ingarbugliata […] erano diversi i casi di redattori di fatto mascherati da collaboratori, alcuni pagati con il regime dei diritti d’autore, o di part-time impiegati a tempo pieno».
Ipoteticamente è questa
condizione di sudditanza economica che promuove il fenomeno che negli USA è
stato definito “la mentalità da setta
di Vice”, e che in Italia si
riflette nell’atteggiamento adolescenziale dell’everybody-is-stupid-except-me,
tipico peraltro dei semicolti contro il suffragio universale (ne avrete
conosciuto almeno uno nella vostra vita, e magari vi sarete accorti che non
aveva più qualifiche accademiche di coloro che criticava).
Le inesattezze di Mattia Salvia
«Non ci sono autori particolarmente politicizzati» dice la nostra fonte, ma «sappiamo che ora dobbiamo essere contro Salvini, e dunque siamo contro Salvini». O scrivi così, o ti occupi di altro.
Ed è qui che ritorniamo all’articolo su di me e alla figura di Mattia Salvia. La nostra fonte non conosce bene la posizione del Salvia all’interno di Vice, ma ipotizza si tratti di un collaboratore esterno, ancorché di lungo corso. Questo personaggio nella sua esistenza si è occupato di me ossessivamente. Mi ha intervistato per Vice già nel 2017, con l’articolo dall’emblematico titolo di Populismo, sovranità e meme su Putin: nella mente dei rossobruni italiani. Mi hanno più volte segnalato il fatto che mi citasse a ripetizione su Twitter (dove mi definiva “inquietante e interessantissimo”). Infine, questo “fantastico” pezzo su Wired, dove sono diventato nientemeno che la mente occulta del sovranismo italiano (se ho ben capito la tesi del complotto sottesa al testo, già dalla tenera età dei miei vent’anni, non male!).
Oltre ad essere per lui “interessantissimo”, l’ossessione del Salvia nei miei confronti si manifesta in una formula reiterata nell’intervista come nel pezzo di Wired in cui mi si descrive come “elegantissimo”, dilungandosi in maniera abbastanza creepy su aspetti secondari del mio vestiario o (brividi…) della mia pettinatura. Ma malgrado queste belle (!?) parole che il Salvia ha ogni volta per me, non smette però di cercare di danneggiarmi con gli strumenti della menzogna o della decontestualizzazione di concetti e frasi.
Già nel 2017 l’articolo che scrisse nei miei confronti travisava volontariamente tutte le mie affermazioni. Come si può controllare dalla versione completa che ho conservato e ripubblicato dell’intervista, nel rispondere gli sono state spiegate per filo e per segno (e sotto sue domande) le mie prese di distanza abbastanza nette nei confronti di fenomeni come l’alt-right o della cosiddetta “ondata populista di destra”, per cui non mi riconosco e sono anche estremamente critico nei confronti di personaggi come Salvini, Trump, oggi Boris Johnson. Semplicemente, non sono il mio retroterra politico, al di là di qualsiasi valutazione in merito. Stiamo parlando del centrodestra globale con coloriture xenofobe nel secondo caso, ancor peggio del suprematismo bianco nel primo. Le mie posizioni sono – abbastanza notoriamente – anticapitaliste e a favore dell’autodeterminazione dei popoli. Non proprio Bolsonaro e Trump, ecco… Ovviamente, salvo qualche citazione estrapolata e decontestualizzata, l’articolo mi accostava ça va sans dire al populismo di destra, all’alt-right e (proprio così!) al bomberismo.
Il nostro ha anche avuto il coraggio di scrivere, a cappello di questa oscenità, che «quello che più mi ha colpito di questi personaggi è la loro ritrosia e paranoia. Tutti sono stati molti cauti e restii a farsi intervistare: alcuni hanno preteso di rispondere a domande scritte, altri hanno voluto che ci sentissimo prima via telefono per avere prova delle mie buone intenzioni». Pensate adesso, solo per un momento, se non avessi risposto per iscritto a queste domande. Non conserverei la prova provata della cattiva fede dell’intervistatore. D’altronde, chiosa il Salvia cupamente, «in parte capisco le loro ragioni».
Nell’articolo su Wired invece siamo veramente al tripudio della malafede. Ho già detto che non commenterò – per ora – della questione giudiziaria. Ci saranno tempi, modi e sedi opportune. Concentriamoci sugli artifici messi in campo dal suddetto per sovvertire il senso di parole, frasi, affermazioni. La prima, e la meno grave, è la ritrita etichetta di “rossobrunismo”. Ho già spiegato, e vi invito a leggerlo, il perché non accetti questa etichetta né ritengo mi si possa applicare. Andate a vedere la risposta sulla versione completa dell’intervista già linkata. La seconda è che il personaggio, dopo aver notato correttamente che nella mia teoria la destra e la sinistra non abbiano più senso (d’altronde sulla specularità della destra e della sinistra parlamentari si era ben espresso Marx) scrive che il mio compito sarebbe quello di unire la destra e la sinistra nella lotta contro le società liberali. Insomma, vorrei unire due entità che secondo me non hanno più senso. Forse per creare qualcosa con meno senso ancora? Non sarebbe comunque possibile superare la mancanza di senso dell’articolo del Salvia, quindi recedo dal tentativo. Ma, scherzi a parte, la mia teoria comunitarista non ha a che fare con l’unione di destra e di sinistra, men che meno nella lotta alle società (di qualsiasi orientamento ideologico esse siano). Semplicemente credo che esistano ben altre soggettività politiche, più che un’astratta destra e un’astratta sinistra.
Ma andiamo avanti… Sorvoliamo ad ampie falcate anche sull’aver tirato in mezzo la figura di mio padre, le cui idee in materia religiosa o sociale non capisco cosa debbano spiegare delle mie. A differenza di quello che il Salvia sostiene di mio padre, io sono un grande sostenitore di Papa Francesco e del suo messaggio a mio avviso fortemente connotato in senso politico. D’altronde mio padre sarà pure un conservatore, come notato dal Salvia, ma è ben poca cosa rispetto a chi come lui sostiene apertamente di avere parenti razzisti. Non dev’essere facile essere parenti del piccolo Mattia. Eppure, per rimanere in tema religioso ed evangelico, le colpe dei padri non ricadano sui figli. Le colpe del Salvia sono ben altre…
Oltre questo le solite scemenze, ormai veramente stancanti, sul comunitarismo interclassista. Gli basterebbe leggere il bel Marxismo e Cristianesimo del celeberrimo sociologo dichiaratamente comunitarista Alasdair MacIntyre (ripubblicato quest’anno da NovaEuropa) per comprendere l’enormità della sua affermazione. Ma non pretendiamo tanto: sarebbe bastata la mia risposta alla sua stessa intervista, nella quale asserivo «la lotta di classe è ancora viva», e questo perché vi è ancora (e molto di più di prima) proprietà di pochi dei mezzi di produzione. Tema peraltro fondamentale anche nell’ecologismo comunitarista (vedi tragedia dei commons).
Errori e imprecisioni
Le cose gravi, che esulano veramente dalla speculazione politologica, e volendo tralasciare come detto la discussione su fatti al vaglio degli inquirenti ancora tutt’altro che accertati, sono le seguenti: il povero Répaci, che mi intervistò per Il Giornale, e che al netto di qualsiasi sua collaborazione con Il Talebano, ha il difetto congenito non di essere un leghista, come superficialmente supposto dal Salvia, ma un trozkista (si scherza!). Il passaggio in cui si parla impunemente di una mia foto con Igor Girkin anche detto Strelkov, laddove questa foto non esiste e non è mai esistita. E già qui mi chiedo come si possa corrispondere uno stipendio a un giornalista che scrive di prove fotografiche senza averle, senza nemmeno voler parlare della rilevanza penale di questa affermazione. E poi piccole furbizie in cui si limano e si espungono concetti che potrebbero far apparire unbiased le mie risposte, come i riferimenti all’Human Rights Watch o all’ONU rispetto alle violazioni di diritti umani del Governo di Kiev sui civili del Donbass. Oppure il parlare della conferenza di San Pietroburgo (il “covo di nazisti, fascisti e antisemiti” cit.), “dimenticandosi” però di citare la mia risposta a Repubblica in cui si ribadiva la mia assoluta ignoranza sulla lista dei partecipanti, e il fatto che a quella conferenza poi nemmeno ho parlato. Ripeto: tutte cose scritte nero su bianco che il Salvia, semplicemente, non riporta, cambiando scientemente la verità in quello che lui preferisce.
Il tutto condito dalla finissima interpretazione politologica, per cui anche se fra “questi ambienti” non meglio precisati (ipotizzo intenda la Lega e i “rossobruni”) non ci sono veri e propri legami, sicuramente c’è uno “sfioramento”. Ora, apprendo che il Salvia abbia studiato filosofia, e d’altronde non mi sembra un fine politologo. Comprenderebbe altrimenti che la politica non è un insieme di scatole chiuse, ma un emiciclo in movimento. In parlamento il Partito Democratico e Forza Italia “si sfiorano”, e non mi sembra un caso nazionale. Ho partecipato alle manifestazioni per l’OXI, conosco i membri del movimento internazionale di Varoufakis, ho pubblicato il testo di un ideologo di Syriza, però non mi sembra si parli del grande complotto tra Tsipras e i rossobruni. La politica è il campo della dialettica e della mediazione e Salvia rimane sconcertato dalle sue meccaniche come un ragazzino alla prima lezione di educazione sessuale che scopre alcune cose della natura dei rapporti umani che non immaginava.
Ancora due parole sul Salvia che ci permetteranno di giungere alla conclusione: quando venni da lui intervistato, decisi di scambiarci due chiacchiere, per capirne l’orientamento politico e rassicurarmi sulle sue intenzioni. Egli sostenne di essere comunista, ma di aver fatto entrismo nella redazione di Vice per portare avanti le sue tematiche e le sue idee. D’altronde il ragazzo si definisce su Twitter intellettuale marxista (eh già…). Chiaramente qualcosa del discorso subito non mi quadrò e decisi che comunque proverbialmente non fidarsi era meglio. Solo dopo ebbi modo di scoprire che il suddetto si vantasse nei suoi articoli di aver votato Oscar Giannino (“anche se il comunismo storico rimane un’epoca importante” tipo), e avesse scritto questo pezzo (non più online, ma sapientemente recuperato ad un altro link) dove asseriva nei confronti di poveri precari che «ad un osservatore esterno potrebbe sembrare che tu ritenga un tuo diritto inalienabile essere pagato per svolgere lavori che altre persone sono disposte a fare gratis […]. Finché continuerai a considerare il tuo lavoro in questo modo nessuno ti darà un soldo, e faranno bene». Bell’intellettuale marxista. Anzi, bell’intellettuale proprio.
Un giornalismo “crumiro”
Il punto quindi è proprio questo: in rapporto a giornaletti come Vice o altre testate made in USA con un grande livello di investimenti ed un basso livello di salari, oltre a vere e proprie forme di sfruttamento precariale, che come nella migliore tradizione capitalistica ci regala anche queste specie di crumiraggi del ventunesimo secolo, con i salariati un tanto al chilo che offendono i meno abbienti, magari anche perché sporchi e populisti, si ottiene anche il risultato che si desiderava all’inizio, cioè l’opinione di scarsa qualità. L’opinione di scarsa qualità è in realtà l’asset principale di riviste come Vice, è ciò che le fa apparire indipendenti, come dicevamo prima. Come facciamo a non credere alla buona fede di sinistra di ragazzini che ti chiamano al telefono qualificandosi come comunisti, che esprimono idee che credono essere comuniste (salvo poi demolire ogni forma di resistenza antimperialista o governo socialista nel mondo. Cercate su Vice Venezuela, Cuba, Cina, Corea del Nord ecc.) e che scrivono articoli di una mancanza di complessità disarmante? Non sembrerebbe proprio lo stile di Repubblica-L’Espresso, no? In più, i freelancer, l’armata di Vice, sono anche coloro che più facilmente si conformano alle pressioni redazionali, fino al punto paradossale di arrivare a credere a quello che devono scrivere. Non posso metterci la mano sul fuoco, ma quello che mi disse il Salvia, cioè che l’articolo gli era stato commissionato e che qualsiasi tentativo di espungere concetti anche da lui creduti (all’epoca) non calzanti, come quello sul “rossobrunismo”, era stato osteggiato dalla redazione. Erano gli head of content di cui sopra?
La verità è che, analizzando il verticismo dell’organizzazione di queste riviste, che ci riconduce fino ad oltreoceano, valutando l’impreparazione dei suoi autori che va di pari passo con la boria degli stessi (in fondo sono un romantico, voglio credere davvero che il Salvia abbia pensato di combattere una delirante battaglia per il proletariato internazionale invece che recuperare qualche soldino con un articolo), non posso che pensare che in fondo questo potrebbe essere il futuro del giornalismo in Italia. Futuro che, come detto, va di pari passo con la flessibilizzazione delle posizioni lavorative e con la riforma del mercato del lavoro americanizzante che si sta mettendo in atto da qualche anno a questa parte. Con buona pace degli autoproclamati intellettuali marxisti. Perdonali Lukács, perché non sanno quello che fanno.
Post Scriptum. Mattia Salvia, da “intellettuale marxista” quale dice di essere, poco dovrebbe agitarsi per la mia passione per l’impresa fiumana. Da buon “intellettuale marxista” dovrebbe sapere che da quell’esperienza mossero i passi quelli che poi saranno gli Arditi del Popolo di Argo Secondari.
La redazione dell’Osservatorio Globalizzazione informa che è pronta a concedere diritto di replica sulle colonne del sito qualora le persone o le testate citate volessero esercitarlo.
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