La presidenza Biden e l’illusione dei progressisti
Nella campagna presidenziale appena conclusa negli USA, è stato degno di nota il vigoroso sostegno dato alla candidatura di Biden, da esponenti di spicco dell’ala progressista del partito come Bernie Senders, senatore del Vermont sconfitto alle primarie democratiche, e Alexandria Ocasio-Cortez, membro del congresso eletta nello stato di New York. Loro che rappresentano un’agenda radicale, d’ispirazione socialista, che ambiva a piani rivoluzionari come il “medicare for all”, ovvero l’adozione di un servizio sanitario universale e gratuito, “il green new deal“, cioè il piano di transizione industriale verso energie eco-sostenibili, oltre che la promozione di idee eterodosse in economia, come il cartalismo della MMT, fino al convinto pacifismo o non interventismo in politica estera, sperano adesso che le proprie idee possano trovare posto nel nuovo corso politico del centrista Biden.
La realtà è che le aspirazioni progressiste, radicali e socialiste, sono destinate, con molta probabilità a essere presto disilluse.
Infatti, come la CNN annunciava la vittoria di Biden, in studio John Kasich, ex repubblicano ma sostenitore di Biden e potenziale membro del cabinet, si affrettava a smorzare l’entusiasmo progressista: “I democratici devono chiarire all’estrema sinistra che sono quasi costati l’elezione a Biden”. E ancora che “essere tirato da sinistra non funzionerà…”. Per poi rimarcare che il senato assegnato ai repubblicani è “la cosa migliore capitata a Biden”, alludendo al probabile blocco che il senato cosi colorato, opporrà alle eventuali proposte radicali e socialiste.
Che le posizioni della sinistra siano un problema per Biden lo rivela senza fronzoli anche Bloomberg, secondo la quale Wall Street monitora da vicino le scelte che il neo presidente farà, soprattutto nelle posizioni chiave del Tesoro e della SEC, l’authority che controlla l’attività borsistica. Bloomberg specifica come le idee del senatore Warren (anche lei sconfitta alle primarie democratiche) improntate sulla riduzione delle disuguaglianze di reddito attraverso politiche a favore degli Americani, e non dei giganti della finanza, non siano viste di buon occhio dall’élite capitalistica del paese.
D’altronde è abbastanza curioso che la sinistra radicale, e che chiunque si reputi profondamente progressista possa aver appoggiato Biden, dato che nella sua lunghissima carriera politica non ha mai celato il proprio carattere centrista, e fondamentalmente neoliberista. Tanto per citare alcuni esempi: Biden sostenne la decisione di Clinton di abrogare il “Glass-Stegal Act” (successivamente affermerà di essersi pentito), contribuendo al processo di deregolamentazione finanziaria che porterà al crollo del sistema nel 2007-2008. In politica commerciale si è sempre prodigato a favore delle liberalizzazioni e degli accordi di libero scambio, ferocemente criticati dalle anime socialiste come Senders perché spesso lesivi dei livelli occupazionali e dei salari dei cittadini Americani. Per non menzionare il fatto che è stato favorevole a tutti gli interventi militari a partire dalla guerra in ex-Jugoslavia. La sua “running mate”, Kamala Harris ha anch’ella un passato politico e professionale (quale magistrato) abbastanza opaco per una lente progressista.
A proposito di politica estera Biden ha goduto nella compagna presidenziale 2020 dell’endorsment di Colin Powell (che appoggiò già Obama nel 2008), colui che procurò prove false per legittimare la guerra in Iraq, ai tempi in cui nessuno parlava di Fake News perché solo i media mainstream le diffondevano. Adesso gira perfino la voce che Dick Cheney, ex vice presidente di George W Bush, grande esponente dell’industria bellica statunitense, tra gli architetti della campagna di guerra in medio oriente post-11 settembre, possa figurare tra i consiglieri strategici di Biden. Se venisse confermata sarebbe uno smacco enorme all’elettorato progressista, oltre che un segnale non certo rassicurante per la pace.
I progressisti avrebbero dovuto imparare dalla presidenza Obama, fatta di grandi speranze di cambiamento e rinnovamento nel motto YES WE CAN, dopo 8 anni di guerre promosse dai Neocons repubblicani e la grande crisi finanziaria frutto della speculazione e deregolamentazione. Invece vi furono scarsi risultati in ambito sanitario, pochissimi in ambito di eguaglianza razziale (tanto è che il Movimento Black Lives Matter nacque sotto la presidenza dell’afroamericano Obama), una politica fiscale che dopo gli ingenti stimoli del 2008-2010 passò sostanzialmente all’austerità, nulla in ambito di regolamentazione delle armi (le uniche leggi in materia dell’amministrazione Obama ne hanno esteso, e non ridotto, l’uso!), ed una politica estera in linea con quella di Bush (per la precisione sotto l’amministrazione del premio Nobel Obama gli USA hanno condotto operazioni belliche in ben 7 paesi: oltre ad Iraq ed Afghanistan, lanciate da Bush, vi furono Pakistan, Yemen, Somalia, Siria e Libia). Non è un caso che dopo 8 anni di Obama è stato eletto Trump, il quale si è ritrovato nella paradossale situazione di rappresentare i blue collars della Rust Belt nonostante fosse un miliardario di Brooklyn.
Quello che sembra abbia unito veramente le diverse anime del partito democratico è stato l’odio viscerale verso il nemico comune: Trump, rappresentato a tratti come l’incarnazione del male assoluto da debellare a qualunque costo. Sembra invece che sia passato in secondo piano il fatto che Biden è e resta un esponente di quell’establishment neoliberista, il quale presentandosi illusoriamente come alternativa a Trump (nella logica del meno peggio), rappresenta per certi aspetti un ostacolo ancor più complesso da arginare per le aspirazioni socialiste e progressiste degli americani.
Resta da vedere quanto possa durare un unione costruita su un nemico comune, e se assisteremo “con l’arrivo del nuovo al ritorno del vecchio”, con buona pace del progressismo.
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