“Lo Stato e la guerra” di Krippendorf – Guerra e rivoluzione
Settima puntata dell’analisi di Giuseppe Gagliano sull’opera più importante di Ekkehart Krippendorf, incentrata sullo studio della Rivoluzione francese.
Secondo Krippendorff, la storia non è solo ciò che è rimasto, ma anche ciò che avrebbe potuto essere e non si è realizzato. Generalmente, gli storici guardano con benevola sufficienza ai vinti, a coloro che erano portatori di prospettive, che sono state storicamente sconfitte, bollandoli come utopisti. I vinti, nella storia, vengono quasi sempre considerati con affettuosa commiserazione, perché magari poco rispettosi dei rapporti di forza esistenti.
È possibile istituire un filo rosso, che leghi fra loro la rivolta degli schiavi nell’antica Roma (Spartaco) ai moderni pacifisti. Non si può dire che gli storici non serbino verso costoro una certa simpatia, ma si tratta di una simpatia venata da un certo compatimento. Lo stesso compatimento e la stessa simpatia che viene riservata agli ingenui. Raramente, gli studiosi prendono in considerazione l’idea che il corso degli eventi avrebbe potuto svolgersi differentemente da come si è storicamente realizzato. A buon diritto, la Rivoluzione Francese viene considerato l’evento storico più importante della Storia Moderna, in quanto da esso prende il via la trasformazione dello Stato dinastico in Stato nazionale con ciò che storicamente ne è conseguito.
La Rivoluzione Francese segna anche la nascita della moderna democrazia. Krippendorff, basandosi sugli studi dello studioso tedesco Otto Hintze, prende in considerazione quelle tesi politiche che, molto diffuse in epoca rivoluzionaria, sono state politicamente accantonate nel corso della Rivoluzione in favore di una prospettiva statalista che si rivelerà vincente. Si tratta di teorie di origine rousseauiana sul dissolvimento delle unità statali territorialmente centralizzate in federazioni di comunità agricole auto amministrate. Tali tesi, oggi liquidate dalla storiografia contemporanea come chimeriche e scarsamente attuabili, ebbero in effetti nel XVIII secolo grande diffusione presso l’intellettualità europea dell’epoca, come il già citato Hintze afferma, nel suo Staatseinheit und Föderalismus:
Vi era una sorta di repubblica sovranazionale dei dotti, che si preoccupava poco delle lotte delle monarchie, mentre l’odio fra i popoli, che successivamente avvelenerà il nazionalismo, era all’epoca una cosa abbastanza sconosciuta. Anche la rivoluzione francese, nella sua prima fase, ha caratteristiche umanitarie e pacifiste. Se movimento federale significava il tentativo di fondere volontariamente le piccole patrie, limitate territorialmente, alla grande patria Francia, questa Francia doveva essere da parte sua una famiglia tra le altre famiglie nazionali; il nazionalismo appena nato voleva subito ampliarsi e divenire internazionalismo; si sognava una patria comune europea, una vera e propria patria dell’umanità.
Si trattava di una prospettiva condivisa in principio sia dai girondini, che – per bocca di Mirabeau ancora del 1791 – annunciavano che forse non era lontano il tempo in cui sarebbero stati cancellati i confini fra tutti gli Stati, quanto ai giacobini. Anzi proprio questi ultimi ne erano i più convinti assertori. Nel 1792, il montagnardo Lavicomterié scrisse un libro sulla municipalizzazione della Francia, concludendo: “Che male c’è se vi sono 83 repubbliche, se noi siamo felici”. Federalismo, felicità e pace fra i popoli costituivano un trinomio indissolubile, nei discorsi di molti capi rivoluzionari. Come mai dunque la prospettiva pacifista venne accantonata in favore di quella dittatoriale e militarista?
Occorre preliminarmente dire che la strategia di esportazione della rivoluzione, attraverso le armi, fu portata avanti dalla Destra borghese e da quella parte della Gironda, che faceva capo a Brissot, nell’illusione che lo stato di guerra contro l’Europa fosse compatibile con il mantenimento dei diritti umani all’interno della Francia. È utile anche ricordare come non sia stata la Francia rivoluzionaria ad iniziare la guerra, ma che essa fu attaccata dai grandi Stati monarchici europei coalizzatisi contro di lei. Se ciò accadde fu tuttavia a causa della retorica militarista e nazionalista sviluppata dai Girondini, che minacciava le monarchie nazionali europee, erodendone dall’interno il consenso, oltre a costituire una sorta di pericolosa provocazione. Contro questa strategia, l’appello internazionalista e pacifista dei montagnardi in favore del disarmo unilaterale si rivelò scarsamente efficace. Ancora, nel 1792, l’idea si potessero esportare gli ideali democratici e rivoluzionari, attraverso le baionette, veniva aspramente criticata dai radicali ed in particolare da Robespierre, che, nel convento di Saint Jacob, tuonava giustamente: “Nessuno ama i missionari armati ed il primo consiglio che danno la natura e la ragione è di respingerli come nemici”; lo stesso leader democratico metteva anzi in luce come la guerra avrebbe portato la stessa rivoluzione francese verso un’involuzione burocratica e militarista.
I fatti daranno ragione a Robespierre, che poi tale militarizzazione della rivoluzione si sarebbe attuata compiutamente sotto la sua guida e quella del proprio partito, trascinato in una guerra, che non desiderava, dalla borghesia nazionalista, è solo una delle tante ironie della storia. La militarizzazione della rivoluzione e dell’economia, della società e delle strutture statali fu dunque l’esito di una decisione presa almeno parzialmente all’interno della stessa rivoluzione (dalla Gironda alto borghese). Si optò per una strategia di conquista e di espansione a spese della strategia federativa, pacifista e non militare.
Da allora in poi non fu più possibile tornare indietro. Coerente con questa scelta fu quella di introdurre la coscrizione obbligatoria, anche per l’inutilizzabilità dell’esercito professionale, per ragioni prevalentemente finanziarie. L’appello alla Nazione in armi, al dovere che ogni membro della comunità la difenda attraverso il proprio sacrificio diverrà poi rituale anche al di fuori dei confini francesi e anche in contesti politico-istituzionali diversi rispetto alla Democrazia. Krippendorff cita, con amara ironia, l’Enciclopedia Britannica che, alla voce coscrizione, recita: “non c’è forse nessuna norma del diritto delle varie nazioni che abbia avuto tanta influenza sul destino dell’umanità come questa poco conosciuta legge francese”. Il nuovo esercito rivoluzionario venne poi rapidamente professionalizzato, accantonando quegli elementi di democrazia interna (ad esempio nella scelta degli ufficiali), che la Guardia Nazionale aveva assunto ai suoi esordi. Con la fusione, decisa nel febbraio 1793, fra Guardia Nazionale e vecchio esercito si compì poi il passo decisivo verso la ricostruzione e la continuità dell’apparato militare francese. Attorno al 1797, dopo la fine della dittatura robespierrista e prima dell’avvento di Napoleone, la Francia era, secondo Mc Neill, uno Stato ampiamente militarizzato. Lo studioso britannico, Best, autore del volume War and Society in Revolutionary Europe, rincara la dose, affermando:
La Francia in guerra era un Paese non libero, con un’economia diretta dallo Stato (nella quale invero gli imprenditori se la passavano bene), una stampa controllata, una polizia segreta onnipotente.
Ed ancora:
La Francia negli ultimi anni ’90 era diventata di fatto uno Stato militare, al punto che la sua trasformazione in dittatura militare rappresentò solo la logica fine di un’evoluzione.
Sostanzialmente, anche se Napoleone non si fosse fatto avanti, difficilmente la ricostruzione nazionale sarebbe avvenuta su basi del tutto diverse; lo stesso Krippendorff ci ricorda come Bonaparte non fosse l’unico candidato alla dittatura. Ciò che è importante comunque mettere in luce è che l’alternativa fra centralismo statale e federalismo municipale non si poneva più. Con ciò non si vuole mettere in secondo piano il ruolo di Napoleone, nella storia francese ed europea: la riorganizzazione dello Stato in senso non solo centralistico ma militare, attraverso il recupero di strutture appartenenti all’ancien régime,fu una scelta deliberata e niente affatto obbligata. L’esercito (considerato dal nuovo uomo forte come sinonimo di efficienza) divenne il modello, cui venne improntata l’impalcatura istituzionale della nuova Francia. Il nuovo sistema statale, che derivava dalla riforma napoleonica in Europa e sopravvisse alla sconfitta stessa della Francia, era in definitiva il vecchio ordine statale militare legittimato ora dalla nazione. Secondo Krippendorff, anche questo stato di cose non era comunque privo di alternative.
7 – continua
Nel prossimo capitolo sarà data ampia attenzione all’analisi delle conseguenze dell’epopea napoleonica.
- La ragion di Stato
- Antropologia della guerra
- La nascita di Usa e Urss
- La Grande Guerra
- Max Weber e il concetto di guerra
- La guerre c’est moi! Lo Stato moderno e il concetto di guerra
- Guerra e Rivoluzione
- Guerriglia e istituzioni militari