“Lo Stato e la guerra” di Krippendorf – Max Weber e la figura del combattente
Il pensiero internazionale di Max Weber è al centro della quinta analisi dell’opera di Ekkehart Krippendorf curata da Giuseppe Gagliano.
Krippendorff prende in considerazione il pensiero politico di Max Weber: il padre delle moderne scienze sociali, spesso si occupò di politica internazionale, interesse non sorprendente da parte di un rappresentante della borghesia tedesca. Ciò che sorprende è piuttosto l’uso che lo studioso fa di concetti quali “i doveri di un popolo, imposti dal destino” e l’utilizzo insistito di espressioni come “onore nazionale”. Concetti e parole che sembrano contraddire la pretesa scientificità del pensiero weberiano, reintroducendo nell’analisi, in maniera neanche poi tanto sotterranea, “quei giudizi di valore di cui Weber riteneva di essersi sbarazzato in campo metodologico”. Il rovesciamento della razionalità politica weberiana, nell’ambito dell’analisi della politica mondiale, fu severamente sottolineato dal suo allievo Georgy Lukácks, il quale scriveva:
questa scientificità apparente, questa rigida assenza di valori della sociologia è dunque, in realtà, il livello più alto finora raggiunto dall’irrazionalismo. Per la coerenza logica del pensiero di Weber, queste conseguenze irrazionali emergono più chiaramente.
Weber fu spesso un fustigatore implacabile della condotta della classi dirigenti al potere, nella sua epoca (quella inglese è “un gregge di pecore”, i partiti americani sono “privi di idee, pure organizzazioni a caccia di posti di potere”, quella tedesca “un’orda di pazzi”), deplorò la vanità dei politici parvenu, i quali si compiacevano vanitosamente dell’esercizio del potere, ma non ha mai tradotto la presunta stupidità dei potenti, ch’egli pur bene descriveva in concetto politico, perché avrebbe in tal modo dovuto mettere in discussione quel tabù intellettuale, costituito per lui dalla ragionevolezza del potere statale.
Come tutto cominciò in Europa
Lo storico Mc Neill ha scritto sull’importanza delle epidemie e delle caste militari nella storia sociale europea. Egli considera epidemie e militari come “scrocconi sociali”: elementi patogeni e soldati sarebbero entrambi parassiti (micro parassiti i primi, macroparassiti i secondi). I soldati, specializzandosi nell’uso della forza, sono in grado di vivere senza produrre il cibo o i beni, che essi consumano. La modalità specifica con cui si sviluppa l’apparato militare e le armi che usa sono tanto il prodotto dello sviluppo tecnologico della società quanto delle strutture e dei rapporti sociali di classe: i tipi di armi non sono quindi neutrali dal punto di vista sociale, non sono il prodotto di una tecnologia socialmente imparziale, bensì riflettono i rapporti organizzativi di classe e quelli politici. Una dimostrazione di questo fatto viene rintracciata da Krippendorff nella prevalenza che in età romana tardo imperiale viene attribuita alla cavalleria piuttosto che alla fanteria.
Nella tarda fase dell’Impero romano (di Occidente), la fanteria venne progressivamente sostituita dalla cavalleria armata e i compiti di difesa e di sicurezza – sia all’interno che verso l’esterno – vennero trasferiti a questa. Tuttavia non si trattò di una scelta “tecnica” a favore di un diverso e migliore sistema di armamenti, bensì dell’espressione della strisciante disintegrazione dello Stato e dell’erosione economica. L’esercito parassitario che, in quanto detentore monopolistico dell’uso della forza, andava alzando il sempre di più il proprio prezzo – non da ultimo il prezzo per il sostegno ai candidati al titolo imperiale – alla fine diventò troppo caro, il denaro in metallo scarseggiava ed iniziò un processo di disfacimento dell’esercito stabile. I soldati romani cominciarono ad approvvigionarsi da soli (…), il che condusse ad un indebolimento della disciplina e della predisposizione al combattimento della fanteria. Il lento dissolvimento della fanteria e la sua sostituzione con i cavalieri armati fu un fare di necessità virtù, poiché i cavalieri venivano reclutati dalle classi socialmente ed economicamente meglio collocate ed erano loro stessi in grado di fornire armi e dotazioni costose (…).
La nascita del sistema feudale fra 700 ed anno 1000 e di soggettività politiche, certo molto diverse dallo Stato in senso moderno, fu implementato dalle caste militari, le quali avevano bisogno, dopo il disfacimento dell’Impero romano, di reinserirsi in un contesto istituzionale che ne giustificasse l’esistenza.
Se la ricerca dello Stato fu un processo lungo, faticoso e solo imperfettamente completato, in età medioevale, ciò che riuscì ai guerrieri fu di costituirsi come classe dei cavalieri, la quale impose con successo il monopolio dell’uso fisico della forza in quanto diritto della propria classe (mentre solo più tardi sarà possibile concentrarlo nello Stato centrale). La sottomissione dei contadini resi sudditi, servi della gleba o semiliberi era una conseguenza del fatto che essi venivano spogliati delle armi ed esentati dal servizio di guerra, riservato ai signori (classe dei cavalieri). La fanteria composta da contadini, servi della gleba e schiavi, poteva combattere solo in casi eccezionali e solo al seguito, come truppa di sostegno con armamenti leggeri. Nel XVI secolo, una volta edificato l’edificio statale, l’esercito fu privato dei propri mezzi di produzione (le armi); è a questo punto che si compie la trasformazione dei militari da cavalieri feudali a ufficiali retribuiti. Ciò è forse anche un effetto dello sviluppo dell’economia capitalistica, il cui carattere essenziale è la separazione – imposta con le forme più diverse tra produttori e mezzi di produzione.
5 – continua
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