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Il Racconto del Potere V Puntata – La mafia, i còrsi, i narcos

Il Racconto del Potere V Puntata – La mafia, i còrsi, i narcos

Il Racconto del Potere

(Forum Leggere e Scrivere; 18 Marzo 2013)

Si può fare del cinema storico e politico differente da quello richiamato nella prima puntata?

Per l’Italia mi pare che l’esempio da seguire e che ha insegnato a tutto il mondo è quello di Francesco Rosi (il Professore, lo chiamano nel suo ambiente). Di recente è stato pubblicato “Io lo chiamo cinematografo” (Mondadori, 2012) 500 pagine che condensano un paio d’anni di conversazioni con Giuseppe Tornatore. Leggendo si riuscirà a capire il debito affettivo e professionale di Rosi nei confronti di Luchino Visconti, del quale fu assistente alla regia per La Terra Trema, il suo metodo di lavoro (documentazione, documentazione, documentazione), il suo amore per le storie e gli uomini e le donne che ne sono protagonisti, il peso delle sue origini meridionali, gli affetti familiari, la moltitudine di professionisti, attori, produttori che con altissimo artigianato hanno reso possibili capolavori come: Salvatore Giuliano (1962), Le Mani sulla Città (1963), Uomini contro (1970), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973), Cristo si è fermato ad Eboli (1979). Film indimenticabili e di successo che hanno fatto il giro del mondo.

In tema di mafia aggiungerei un film di Valentino Orsini e dei fratelli Taviani, premiato al festival di Venezia: Un uomo da bruciare (1962); racconta gli ultimi anni della vita di Salvatore Carnevale, un sindacalista socialista siciliano ammazzato dai mafiosi perché capisce che i loro interessi si erano spostati dalle campagne all’edilizia e che bisognava modificare le modalità della lotta politica: dall’occupazione delle campagne formalmente espropriate in base alla Riforma Agraria e mai assegnate ai contadini, alla difesa delle otto ore di lavoro nelle cave, invece delle 12 imposte. Negli anni seguenti i sindacalisti avrebbero avuto condotte meno eroiche e meno oneste; bisogna considerare però che fu operata una selezione darwiniana: ne ammazzarono a decine tra gli anni ’40 e ’50

Ho un debito particolare nei confronti di “Mani sulla Città” e ho apprezzato molto “Un uomo da bruciare”. Un racconto in soggettiva può far capire questa predilezione. Dopo, fornirò un quadro generale, nazionale ed internazionale, nel quale tutto avrà un senso.

Alla fine degli anni ’70 fui eletto al Consiglio di Amministrazione dell’Università di Catania come rappresentante degli studenti in una lista di sinistra. Chiesi ed ottenni di far parte della commissione “Edilizia, Lavori e Spese”: mi sembrava un buon modo per esaminare le relazioni di potere. Accadevano cose strane. I mafiosi di Nitto Santapaola, che aveva il monopolio dello spaccio di eroina in larga parte della Sicilia Orientale, occupavano manu militari il Rettorato; gli impiegati che volevano parlare con me chiedevano, per paura, di incontrarmi nello sgabuzzino delle scope; la ditta Costanzo vinceva tutti gli appalti indetti dall’Università provocando la protesta di altri imprenditori esclusi; l’Intendente di Finanza, membro di diritto del Consiglio, assecondava questi interessi economico-mafiosi: era vicino all’on. Nino Drago della corrente andreottiana.

 Il film di Francesco Rosi raccontava gli accordi sottobanco tra i partiti di maggioranza rappresentati nel Consiglio Comunale di Napoli: mi suggerì le possibili dinamiche fuori scena. C’era però una differenza sostanziale. In quegli anni in Sicilia il PCI era molto pigro quando si trattava di contrastare imbrogli ed imbroglioni. Scrissi una nota riservata per far conoscere quello che avevo visto, senza ottenere alcuna risposta dai dirigenti della Federazione provinciale del PCI. L’architetto di fiducia della ditta Costanzo, iscritto a quel partito, mi chiarì le idee: “Il documento è buono ma stai attento, proteggiti le spalle. Nel partito non tutti la pensano come te.”

Nel 1975 Leonardo Sciascia, eletto come indipendente nelle liste del PCI al Consiglio Comunale di Palermo, si era dimesso polemicamente due anni dopo: la strategia del compromesso storico era applicata in Sicilia con la DC peggiore che si potesse immaginare.

Dopo l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa tornai alla carica; nella sua ultima intervista, concessa a Giorgio Bocca, aveva fatto esplicito riferimento ad alcuni imprenditori catanesi, tra cui la ditta Costanzo: «Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”

Andai a trovare  un investigatore dei Carabinieri che conoscevo; negli anni precedenti aveva svolto indagini sulla famiglia mafiosa degli Aronica che avevano il monopolio del traffico di cocaina ed era riuscito ad arrestarli. Mi disse: “Le indagini precedenti me le hanno lasciate fare; questa non so. Te lo farò sapere.” Lo incontrai per caso un mese dopo; a stento mi salutò.

Che l’Arma dei Carabinieri avesse qualcosa da farsi perdonare mi era stato chiaro già quattro anni prima. Insieme ai dirigenti del PCI ero riuscito a smontare il tentativo di far diventare terroristi alcuni nostri compagni che abitavano in una Casa dello Studente. Si era attivato un agente provocatore, dal cognome blasonato tradizionalmente associato al regime fascista ed alla destra eversiva, ufficiale dei carabinieri (di complemento, diceva lui), studente di Giurisprudenza fuori corso che dormiva in quella Casa, dove girava armato con il consenso del Direttore, noto informatore. Faceva riunioni clandestine con i nostri compagni universitari provenienti dalle provincie della Sicilia centro-orientale, insegnando come confezionare bombe molotov e come difendersi da un imminente, quanto fantomatico, attacco dei fascisti in occasione di una manifestazione della Destra Europea che si sarebbe svolta a Catania. Manifestazione mai tenutasi ma che provocò una contromanifestazione della Sinistra extraparlamentare dove potei riconoscere un altro ufficiale dei carabinieri in borghese, specializzato in azioni poco ortodosse; qualche anno dopo sarebbe stato arrestato perché accusato, e poi prosciolto, di aver passato informazioni alla famiglia mafiosa dei Santapaola che progettavano di eliminare un boss rivale: l’operazione, conosciuta come la strage della circonvallazione, costò cinque morti e suggellò l’alleanza con i Corleonesi di Totò Riina.

Da alcuni documenti esaminati dalla Commissione Parlamentare Stragi è emerso che negli anni ’70 in alcune università italiane è stato attuato un programma simile a quello sventato a Catania. Il progetto era stato definito nel decennio precedente; lo si legge in Lo Stato Invisibile, al Capitolo I (“Le infiltrazioni nel movimento rivoluzionario e nei suoi gruppi armati”) si parla del Convegno dell’hotel Parco dei Principi del 1965, dove si teorizzò la strategia della tensione; si cita anche (pag. 9) un documento firmato dal  capo di Stato maggiore delle forze armate USA (William C. Westmoreland): si ipotizzava di “infiltrare le organizzazioni di sinistra e di spingerle sul terreno della violenza per giustificare nei confronti di governi e opinione pubblica una eventuale stretta autoritaria … Nei casi in cui l’infiltrazione da parte di tali agenti nel gruppo guida dell’insorgenza non sia stata efficacemente attuata, si possono ottenere gli effetti summenzionati utilizzando le organizzazioni di estrema sinistra.” 

Come a dire: “Se mancano i terroristi li fabbrichiamo noi.”

Torniamo alle questioni più specificatamente isolane. Le caratteristiche del sistema politico regionale mi sarebbero state chiare negli anni successivi. Nel 1985 durante una mia ricerca un intervistato, che aveva avuto ruoli amministrativi apicali alla Regione Siciliana, fu molto generoso di informazioni. Mi raccontò i retroscena del cosiddetto scandalo del Palazzo dei Congressi di Palermo di un paio di anni prima. Alla gara d’appalto avevano partecipato alcune cordate imprenditoriali, ognuna con una famiglia mafiosa ed un partito (PCI incluso) di riferimento. L’opera non fu mai realizzata perché vennero in conflitto Bernardo Provenzano e Totò Riina che appoggiavano imprenditori differenti. La ricostruzione fu confermata da alcuni collaboratori di giustizia nei primi anni ’90. 

Il ruolo di Cosa Nostra emerge anche da quello che raccontò un altro mio intervistato che aveva delicati ruoli politico-istituzionali. Era stato commesso un omicidio nell’ambito di un progetto al quale stava lavorando; temendo di aver invaso involontariamente un terreno presidiato da Cosa Nostra chiese a Totò Riina che rispose: “Non è Cosa Nostra”. Lo scambio di messaggi era avvenuto tramite un intermediario ricevuto nella sua segreteria politica presidiata dalla scorta istituzionale che gli era stata assegnata e che, si presume, fosse a conoscenza di chi frequentava quelle stanze.

In quegli anni la Regione Siciliana aveva un governo di fatto a tre: il presidente della Regione Rino Nicolosi (DC), il presidente dell’Assemblea Regionale Salvatore Lauricella (PSI), il Capogruppo del PCI all’Assemblea Regionale Michelangelo Russo. Il mercato delle opere pubbliche era totalmente infeudato: ai partiti di governo toccavano tangenti secondo una percentuale commisurata alla loro forza elettorale, al presidente della Regione (chiunque fosse) toccava il 10%, a Riina il 3%. Tutti gli appalti al di sotto di una certa cifra (50 milioni di lire) erano assegnati ad imprese scelte da Cosa Nostra. Per il PCI una quota parte delle opere veniva assegnata ad imprese della Lega delle Cooperative: era un dirigente nazionale di Botteghe Oscure a chiudere gli accordi che poi venivano implementati a livello locale.

Ho già scritto dell’omologazione del PCI alla pratica spartitoria nazionale in “Partiti ed Opere Pubbliche negli anni ‘80”. Penso che una delle ragioni di questa scelta fosse stata la rinuncia ai finanziamenti sovietici compiuta alla fine degli anni ’70: troviamo la ricostruzione ufficiale della vicenda in L’oro di Mosca (1999) del dirigente comunista Gianni Cervetti. Tuttavia, nel suo colloquio finale con il dirigente del PCUS deputato al compito, dal libro sembra emergere un margine di ambiguità, come se la pratica fosse stata destinata a continuare, magari sotto altra forma. Una coda di quella vicenda sarebbe emersa 15 anni dopo con un’indagine su possibili fondi neri procurati tramite attività di import/export con la Russia di aziende della Lega delle Cooperative: in quei mesi del 1994 le indagini giudiziarie si erano rivolte al mondo cooperativo di sinistra in tutta Italia. Se ricordo bene, le indagini furono chiuse con proscioglimenti; a Ravenna mi avevano detto: “Non troveranno niente. Tutti i documenti sono sotterrati da qualche parte nella Pianura Padana.” L’importanza dei finanziamenti illeciti nella vita di quel partito sarebbe emersa anche nelle vicende che portarono al cambio di segreteria del PDS, erede del PCI. Achille Occhetto fu messo in discussione per la sconfitta alle elezioni del marzo 1994 ma, secondo alcune ricostruzioni, nel dibattito interno pesarono le sue intenzioni di rivelare tutto con un’iniziativa pubblica che, infatti, manca dagli annali della cronaca politica.

La mia idea è che il sistema politico italiano abbia subito un colpo mortale con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. La strategia da lui perseguita insieme ad Enrico Berlinguer avrebbe portato ad una progressiva integrazione di tutte le forze politiche all’interno di un quadro di regole formali chiare che avrebbero garantito un’alternanza al governo nazionale. Al suo posto, ci si è ritrovati una prassi collusiva che integrava surrettiziamente tramite regole riservate impedendo un’evoluzione del PCI simile a quella avuta dalla SPD tedesca 20 anni prima. Una conferma di questa prassi generalizzata arrivò dal colloquio con uno studioso che aveva avuto ruoli dirigenziali importanti nel PCI e poi nel PDS. Gli chiesi un parere sull’avviso di garanzia ad Andreotti (marzo 1993) “per i reati di partecipazione ad associazione a delinquere semplice e di tipo mafioso”. Sapevo che l’ex Presidente del Consiglio era stato il dominus di quel Sistema negli anni ’80. La risposta fu: “[È nei guai perché] … gli abbiamo tolto il partito comunista…” che ne era stato, quindi, componente essenziale fino al suo scioglimento nel 1991.

La peculiarità siciliana era una sorta di autonomia del suo sistema politico dal resto d’Italia. Cosa Nostra faceva la differenza. Chi voleva e poteva mettere in discussione questo status quo collusivo era eliminato fisicamente: il Presidente della Regione Piersanti Mattarella (DC) nel 1980, il segretario regionale siciliano del PCI Pio La Torre e il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982, il capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo Rocco Chinnici nel 1983. Il controllo del territorio era pervasivo. A Catania fu assassinato il giornalista Giuseppe Fava perché scriveva e pubblicava notizie scomode; per anni i suoi giornali erano stati boicottati nelle edicole: per decisione mafiosa dovevano essere negati a chi li chiedeva. Due miei amici, minacciati, decisero di trasferirsi al centro-nord, ecc. ecc. Ma che stava succedendo in Sicilia?

Per decenni in Francia aveva operato una rete criminale còrsa che raffinava i prodotti dell’oppio per ottenere eroina da contrabbandare negli Stati Uniti:  “The Corsican Gang was protected by the Central Intelligence Agency (CIA) and the SDECE after World War II in exchange for working to prevent French Communists from bringing the Old Port of Marseille under their control.” (dalla voce French Connection di Wikipedia, dove troviamo anche la bibliografia di riferimento). Negli anni ’70 fu smantellata; da quella vicenda fu tratto anche un bel film. L’attività di raffinazione fu spostata in Sicilia e divenne il business di riferimento di Cosa Nostra, permettendo l’accumulo di capitali ingentissimi. Se ne occuparono Giovanni Falcone ed altri magistrati con un’indagine conosciuta come Pizza Connection, dai luoghi di spaccio negli USA. Anche da questa indagine è stato tratto un film. Falcone fu protagonista di un episodio tuttora oscuro. Si era recato in missione nella zona di produzione dell’oppio, il cosiddetto Triangolo d’Oro, e fu costretto a tornare precipitosamente in Italia perché richiamato da un telegramma: tuttora ignoto il mittente. C’era lo zampino dei servizi segreti e della CIA? L’ipotesi è ragionevole se si tiene conto di quanto era accaduto in Francia ed accadeva in quegli anni dall’altra parte dell’Atlantico.

Narcos e il Sogno Americano

(Forum TeleVisioni 25.11.2018; e Leggere e Scrivere 26.11.2018)

L’ottima serie TV Narcos (Netflix; quarta stagione nel 2018) ricostruisce avvenimenti degli anni ’80: per combattere il Comunismo la CIA stringeva accordi con i trafficanti di droga colombiani e messicani, i sistemi politici locali, le forze armate, le polizie, forze paramilitari con licenza di tutto. In Colombia per prendere il controllo del paese e costruire basi militari; in Messico per reprimere le forze di sinistra. Sceneggiatori, attori e caratteristi molto bravi. La DEA, l’agenzia federale USA contro il narcotraffico, ha fornito la documentazione necessaria.

Qualcosa di simile è avvenuto in Italia con Cosa Nostra ed altre allegre brigate: lo si può leggere in molte carte d’archivio. Tra le tante pubblicazioni consiglierei “Una lunga trattativa” (Chiarelettere 2013; nuova edizione nel 2021) di Giovanni Fasanella che per due legislature è stato consulente della Commissione Bicamerale d’inchiesta sulle stragi: il libro contiene un’intervista all’ambasciatore USA in Italia nel periodo 1993-1999, Reginald Bartholomew, che spiega il suo intervento per fermare le bombe del 1993-94.

Il rapporto CIA-trafficanti aveva anche un’altra motivazione. La tossicodipendenza era considerata una patologia endemica della quale si poteva solo cercare di limitare i danni tenendo sotto controllo l’offerta. Giancarlo De Cataldo si è esercitato sull’argomento con il romanzo L’agente del Caos, Einaudi 2018. Basandosi su documenti ufficiali, racconta come negli anni ’60 e ’70 laboratori governativi USA ultra segreti sintetizzavano LSD per poi spacciarla tramite persone appositamente addestrate: lo scopo era spegnere i cervelli di possibili protagonisti di rivolte sociali soprattutto, ma non solo, statunitensi; il riferimento al dio Crono che usava divorare i suoi stessi figli perché lo volevano spodestare mi pare appropriato.

Qualche mese fa in un articolo sull’Espresso (Così morire di overdose è diventato normaleLuigi Zoja, uno psicoanalista junghiano, ricordava che ogni anno in USA muoiono circa 70 mila persone per overdose di farmaci antidolorifici, prescritti da medici o sintetizzati ed acquistati illegalmente insieme ad altre sostanze psicotrope: lo considera un fenomeno endemico risolvibile solo con un cambiamento radicale degli stili di vita.

Viene da pensare a “C’era una volta in America” di Sergio Leone ed allo sguardo perduto nel vuoto di Noodles-De Niro mentre cerca di spegnere l’insopportabile dolore in una fumeria d’oppio: il famoso Sogno Americano?

Come ricordava Zoja, l’attitudine spregiudicata nei confronti delle persone che sviluppano dipendenze farmacologiche è anche notizia recente. La ditta che produce l’oppioide OxyContin sta avendo molti problemi giudiziari perché accusata di aver consapevolmente negato i rischi per i pazienti che assumevano il farmaco. Una parte della responsabilità è stata attribuita alla McKinsey che aveva consigliato di continuare nella campagna di marketing aggressiva e bugiarda perché i profitti erano molto elevati. Le cause miliardarie in corso sembrano dirci che il dollaro diventa l’unità di misura per decidere anche della vita e della morte delle persone: un comportamento sarà considerato giusto se nella somma algebrica di profitti, multe e risarcimenti l’impresa chiuderà con un risultato positivo. Come nel caso delle guerre dove i soldati sono pedine sacrificabili o come per le fabbriche che inquinano ambienti di lavoro ed interi territori.

Il richiamo ad avvenimenti apparentemente lontani dagli argomenti iniziali di questo “Racconto n. 5” è motivato dal proposito di parlare di “Potere” attualizzando il rapporto tra i comuni cittadini e le organizzazioni e le persone che condizionano le nostre vite perché decidono sull’uso delle risorse. La McKinsey è stata di recente chiamata in causa per un contratto di consulenza per il Next Generation EU italiano; la cifra concordata è talmente bassa (25 mila euro) da lasciare perplessi sul senso dell’operazione. Per capire bisogna considerare lo scenario all’interno del quale si situa il suo ruolo. Lo chiarisce Ugo Sposetti, ex PCI, storico tesoriere dei DS, in un’intervista pubblicata dall’Espresso (14 marzo 2021): ” … ci sono alcuni soggetti che ci danno Draghi. E altri che ci danno Letta … La finanza internazionale. E la finanza europea. Una ha commissariato Palazzo Chigi, l’altra si appresta a commissariare il Pd.”

Il ruolo fondamentale del capitale finanziario anche in ambito pubblico va al di là della volontà del singolo amministratore. Decisi di ricordarlo in una lettera alla redazione di Repubblica. Nei mesi precedenti avevo letto un articolo di Nadia Urbinati (Quando un paese è senza governo) che rilevava la coincidenza ideologica del pensiero anarchico e di quello liberale nel considerare superfluo lo Stato ed il ceto politico, come se la società fosse dotata di meccanismi automatici di regolazione; volevo sottolineare il carattere normativo delle attuali regole economiche con i loro effetti destrutturanti sui Sistemi Politici degli Stati-Nazione. L’occasione era un articolo di Rampini che interveniva sul “contropotere giudiziario” che stava creando problemi al presidente Trump.

Lettera inviata il 4.02.2017

Ho letto l’articolo di Federico Rampini del 4 Febbraio (Stavolta “The Apprentice” è Trump).

Alla fine degli anni ’90 ho avuto modo di leggere “American Government: Freedom and Power” di Theodore Lowi e Benjamin Ginsberg.  Sulla base di un apparato statistico poderoso si dimostra la progressiva incapacità del sistema politico e istituzionale statunitense (a tutti i livelli) di risolvere i conflitti interni ed il ricorso al sistema giudiziario per trovare (qualche volta) il punto di equilibrio. La mia impressione è che il fenomeno abbia proceduto secondo la medesima linea di tendenza. La spiegazione potrebbe essere la perdita di potere delle élite politiche statunitensi ed il consolidarsi di una regolazione che ha come fonte normativa de facto gli statuti di utilità del capitalismo finanziario: fenomeno, ovviamente, ubiquo nell’orbe terraqueo.


L’attuale conflitto statunitense politica-giustizia nascerebbe quindi dalla marginalizzazione, anche ai livelli alti, di soggetti che cercano soluzioni a problemi reali ma con lo sguardo rivolto al passato; qualcosa che richiede soluzioni epocali e quindi molto più di una rivolta dei ceti medi impoveriti dalla globalizzazione che votano Trump. Un esempio di esito “epocale” è quanto avvenuto con l’American Civil War (1861-1865): l’esigenza del Nord industriale di avere manodopera a basso prezzo e libera di spostarsi portò alla dissoluzione del modo di produzione schiavista del Sud. Né questo mise fine a ingiustizie sociali e discriminazioni, basti pensare alla segregazione razziale ed al diverso trattamento salariale delle minoranze.


Questo per dire che sarebbe sbagliato negare la forza trainante della globalizzazione economica e del capitalismo finanziario e che, per quanto difficile, diventa necessario recuperare un ruolo alla politica se si vuole che i processi abbiano costi sociali accettabili: l’alternativa è appunto una sorta di guerra civile strisciante (anche giudiziaria) tra soggetti (sociali, economici, politici) oggettivamente emarginati. Oppure, si potrebbe sostenere l’inutilità della politica, come hanno ricordato alcuni commentatori nei mesi scorsi, citando il caso spagnolo e quello belga, dando per scontato che il Sistema abbia una sua regolazione automatica e, soprattutto, omettendo che così facendo si accettano supinamente, anche inconsapevolmente, decisioni fondate sull’utilità marginale dell’investimento finanziario. Più o meno come quella storiella che racconta di un pescatore che va al lago e domanda ai pesci: “Come è l’acqua oggi?” E i pesci rispondono: “Cos’è l’acqua?”.

La storiella finale era la riformulazione di un originale di autore statunitense e mi era venuta in mente quando ho saputo che il movimento politico spagnolo Podemos intendeva ispirarsi ad una serie televisiva.

Narrazioni

(Forum Leggere e Scrivere 18.08.2015)

Il 9 Febbraio 2015 ero in macchina quando l’autoradio cominciò a trasmettere Fahrenheit. Si parlava della serie TV “Il Trono di Spade” (titolo originale: “Game of Thrones“) in vista della imminente quinta serie: un investimento totale intorno ai 500 milioni di dollari ed un ritorno economico importante.

A Fahrenheit oltre ad esperti del tema (Game of Thrones, The Lord of the Rings ed altri Fantasy) era presente anche Concita De Gregorio che proprio quel giorno aveva pubblicato un articolo su Repubblica (Podemos: vinceremo come nel Trono di Spade). 

Cos’era successo? La serie TV era servita ad alcuni studiosi vicini al movimento politico spagnolo per parlare di Politica al loro elettorato più attento ed istruito. Allo scopo, nel 2014 avevano pubblicato un libro collettaneo (14 autori): “Ganar o morir. Lecciones politicas en Juego de tronos” a cura di Pablo Iglesias, il leader del movimento.

La tesi di fondo era che il linguaggio della serie TV era un veicolo da utilizzare per parlare di politica ai giovani e mobilizzarli.

Però, da quello che dicevano io sentivo odore di medio-evo feudale (per dire: prima che nascessero lo Stato di Diritto e il Capitalismo) e quindi mi ponevo il problema dell’utilità di quel modello. Era anche vero però che l’operazione televisiva in sé e quella politica degli spagnoli meritavano attenzione. Così, con una maratona televisiva sono andato a vedere.

Lo spettacolo è meraviglioso ma l’impressione iniziale (medio-evo feudale) si conferma in pieno. Lo spiega anche la voce “Game of Thrones” di Wikipedia con tanto di avvenimenti e personaggi storici che hanno ispirato gli autori della serie TV. Unico punto di contatto con l’attualità è la presenza di Draghi in grado di risolvere situazioni ingarbugliate: solo che qui volano e sputano fuoco. C’è, quindi, da rimanere perplessi sull’operazione saggistico-politica.

Per poter dare un giudizio definitivo bisognerebbe leggere tutti gli interventi del libro ma sfogliandolo e leggendo le bibliografie colpisce l’assenza di testi sull’attuale fase del Capitalismo. L’unico riferimento è in un saggio (“Juego sucio en la guerra por el poder”, di Eneko Compains) che cita un testo (The Shock Doctrine) di Naomi Klein, giornalista ed attivista anti-globalizzazione. Tutti gli autori sono politologi, giuristi, filosofi, antropologi. Manca un testo che affronti i temi cari a Giovanni Arrighi (nel suo: The Long Twentieth Century: Money, Power, and the Origins of Our Times) che “proietta le vicende del Novecento in un quadro storico di lunga durata, che mette in luce il rapporto quasi simbiotico tra il capitalismo e la formazione dello stato moderno. Conduce il lettore attraverso imperi e colonie, porti commerciali e campi di battaglia, colossi industriali e banche internazionali, fin dentro le stanze segrete in cui si incontrano politica e alta finanza, potere e denaro…” (dalla presentazione editoriale dell’edizione italiana).

Il rischio è quello di leggere la realtà e di agire secondo logiche esclusivamente politiche che prescindano dalle leggi del Capitalismo Finanziario contemporaneo in grado di dettare l’agenda ai presidenti statunitensi e ai leader dei Partito Comunista Cinese. Il rischio, cioè, di condannarsi alla sconfitta e all’irrilevanza.

Qualcosa di simile mi è sembrato di scorgere nei mesi scorsi nella vicenda del debito pubblico greco: implementazione di strategie politiche laddove le determinanti erano economico-finanziarie. Come possa essere risolto questo problema (Capitalismo Finanziario versus Politica) è tutto da vedere. Dubito però che rivendicare la superiorità morale dei Welfare Nazionali sia una strategia efficace.

Molto dipende, quindi, dalla qualità dei ceti dirigenti: politici, economici, intellettuali. Nella prossima puntata parleremo di quelli italiani.

(continua)

Il Racconto del Potere, I Puntata – Armi di distrazione di massa

Il Racconto del Potere, II Puntata – La massoneria e l’amico americano

Il Racconto del Potere, III Puntata – L’egemonia culturale

Il Racconto del Potere, IV Puntata – Silvio Berlusconi e il delirio di onnipotenza

Il Racconto del Potere, VI Puntata – Il ceto dirigente italiano

Il Racconto del Potere, VII Puntata – Falcone, Borsellino e gli Altri

Il Racconto del Potere, VIII Puntata – La Questione Meridionale (link esterno)

Il Racconto del Potere, IX Puntata – L’intervento esterno (link esterno)

Nato nel 1955, Laurea in Scienze Politiche. Al suo attivo pubblicazioni a stampa, progetti e rapporti di ricerca, missioni di lavoro in Venezuela, Russia, Ucraina, un lungo soggiorno di studio e lavoro negli Stati Uniti.

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