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La guerra alle statue e le lacrime di Hume

La guerra alle statue e le lacrime di Hume

Continua nel Regno Unito la grande battaglia civile di abbattimento delle ignobili vestigia di un passato sconcio.

Sono state abbattute alcune statue di personaggi minori (Rhodes, Dundas, Colston, Milligan) e deturpate altre, tra cui quelle di Winston Churchill e David Hume. Tutti personaggi in forma o misura variabile tacciabili di ‘razzismo’.

Ora, premesso, che nessuno di questi personaggi (con l’eccezione di Hume) compaiono molto in alto nella mia lista dei personaggi storici stimabili, queste manifestazioni (precedute da tempo da altre simili negli USA) sono il segno di una crisi culturale profonda, di cui dovremmo fare problema.

Il problema di fondo qui è abbastanza semplice.

La cultura liberale moderna, quanto più essa regna incontrastata, tanto più si dimostra intollerante precisamente quanto le più retrive culture della storia.
Con un difetto in più: tale intolleranza si unisce all’infinita presunzione di essere la crema della storia, il frutto compiuto del Progresso, incarnato nelle baggianate mainstream di giornata.

Questa cultura, che si immagina tollerante e accogliente, in effetti tollera ed accoglie solo la rigida visione politicamente corretta, l’universalismo astratto e livellante, che governa il proprio immediato presente.

L’intolleranza nei confronti della (propria) diversità storica, dei mutamenti nelle modalità di pensiero ed opinione, è di fatto la stessa intolleranza che sul piano antropologico è nutrita nei confronti di tutti i paesi e tutte le società che non rientrano nei quadretti agiografici del liberalismo anglosassone contemporaneo.

L’insofferenza per la diversità sociale separata da noi nel tempo (il passato) è il perfetto analogo dell’insofferenza per la diversità sociale separata da noi nello spazio (l’altrove, l’oscuro mondo extraliberale).

Lo sfregio delle statue del proprio passato è la versione popolare di ciò che per le classi dirigenti è il bombardamento di popoli e stati ‘inaccettabili’ in giro per il mondo.

Esemplare di questa tendenza è la naturalezza con cui un mostro sacro del liberalismo come John Rawls, in “The law of Peoples” spiega come una legislazione mondiale vada attribuita a “reasonable liberal peoples”, o al più a “decent peoples”, tagliando fuori gli “outlaw states”, gli stati fuorilegge, gli “stati canaglia”, insomma gli stati che violano le leggi americane.

La mancanza di comprensione per la diversità antropologica e storica, culturale, linguistica, concettuale, spirituale è frutto simultaneo di due fallimenti: il fallimento di sistemi educativi ‘presentisti’, tutti votati all’utilità corrente, e clamorosamente ignoranti su tutto il resto, e il fallimento morale dell’immensa presunzione di una cultura (protempore) vincente, che pensa di non aver niente da imparare da nessuno.

In effetti, è ironico come lo spirito di quelli che vogliono raddrizzare le sorti della storia deturpando la statua di Hume (troppo ‘esotico’, nella sua diversità storica) sia in effetti il più puro spirito imperialistico, di chi non tollera e non vuole capire niente di ciò che può schiacciare sotto il tallone.
E siccome il passato non può lamentarsi, ecco trovato uno spazio magnifico dove esercitare il proprio imperialismo dei poveri: l’imperialismo dell’ignoranza presente verso ogni passato ‘scorretto’.

C’è, purtroppo, chi confonde queste iniziative demenziali con la ‘critica storica’, come se queste espressioni di ottuso bigottismo avessero qualcosa a che fare con la critica a questa o quella posizione di questo o quel personaggio storico.

Ma naturalmente la differenza di fondo tra il bigottismo retrospettivo di questi analfabeti funzionali e una critica storica sta tutta nel fatto che la seconda deve sporcarsi le mani (e ‘contaminare la mente’) con una comprensione immanente di quella diversità, prima di tentare di esercitarvi sopra alcuna critica.
La critica storica, anche la più radicale, deve passare attraverso una comprensione della varietà, contestualità, mutevolezza dell’Umano. Deve perciò fare un esercizio non di ‘tolleranza’, che è un superficiale atteggiamento di sopportazione, ma di comprensione di come l’umano prenda forme storiche, e antropologiche, assai differenti. E tutte queste forme hanno sempre ragioni (qui sta la verità dello hegeliano “tutto ciò che è reale è razionale”). Poi, che una ragione venga riconosciuta, non significa che debba essere qui ed ora condivisa. La si può ovviamente rigettare. Ma una volta fatto questo percorso a nessuno verrà più in mente di poter trattare la diversità storica o antropologica alla stregua di un ‘peccato’ o di un ‘reato’.

Invece per la plebaglia teledipendente prodotta in serie dalla civiltà liberale per farla entrare nei propri ingranaggi, la diversità culturale irresolubile va deturpata, se sei uno squatter, o va bombardata, se sei un primo ministro.

Naturalmente per il bene dell’umanità.

Andrea Zhok (Trieste, 1967) si è formato presso le università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. Attualmente insegna Antropologia Filosofica presso l’Università degli Studi di Milano. Tra le sue pubblicazioni monografiche: "Il concetto di valore: tra etica ed economia" (Mimesis 2001); "Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo" (Jaca Book 2006); "Emergentismo" (Ets 2011); "La realtà e i suoi sensi" (Ets 2012).

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