“Il mito del deficit”: Stephanie Kelton e la nuova frontiera della Mmt
Stephanie Kelton nel saggio “Il mito del deficit” recentemente tradotto in italiano da Fazi offre una panoramica sui miti della macroeconomia, e svela attraverso le lenti della MMT le tragedie figlie dell’ideologia del pareggio di bilancio, e le opportunità che gli stati sovrani hanno dall’abbandonare i suoi miti.
Kelton è professoressa di economia della Stony Brook University, e volto noto della scuola economica della Modern Money Theory (Teoria della Moneta Moderna) o MMT. Una teoria i cui prolegomeni sono elegantemente esplicati scorrendo i vari capitoli de il Mito del Deficit, edito da Fazi Editore.
La MMT non è una vera e propria teoria economica come si intende il marginalismo di fine ottocento o la teoria classica di Ricardo e Marx. Essa mischia elementi diversi come il cartalismo di Geroge F. Knapp e Mitchell-Innes, la finanza funzionale e la moneta come creatura statale di Abba Lerner, fondamentali concetti del pensiero di Keynes come la spesa autonoma e la disoccupazione involontaria, fino a più recenti contributi di stampo post-keynesiano come quelli di Hyman Minsky e Wynne Godley. Come ha affermato un altro suo celebre autore, Randall Wray, la MMT “siede sulle spalle dei giganti” [1].
Un’altra peculiarità di questa dottrina riguarda la sua origine. Essa infatti non nasce all’interno di ristetti circoli accademici, ma dalle intuizioni di un uomo di Wall Street, Warren Mosler. Per i critici è lui “il guru della setta MMT”, con la sua contraddizione di ritrovarsi a fare il padre ideologico essendo, quale speculatore finanziario, non ideologizzato. Questo fornisce un carattere fondamentalmente pragmatico alla MMT, che la configura come una lente attraverso cui guardare il sistema macroeconomico. Una lente controversa e originale che mira ad aprire “le porte a un nuovo modo di pensare a come gestire la nostra economia”
L’opera della Kelton si inserisce in questo filone, con l’ambizione di svelare i miti e le false credenze che imbrigliano gli stati e la finanza pubblica da catene superflue e spesso autoimposte, e far così emergere una nuova aleteheia (verità), nel senso di verità svelata come la intendevano gli antichi greci.
Ma svelare agli uomini la verità è un compito indubbiamente arduo. Platone lo aveva capito ed espresso tramite la metafora della caverna. La stessa Kelton ne è cosciente e cita a proposito Mark Twain: “a volte è più facile ingannare le persone che convincerle di essere state ingannate”.
Attraverso metafore convincenti, aneddoti personali, uno stile leggero e fluido la Kelton si esonera dal redigere un saggio in “senso classico”, applicandosi per lo più a condividere con il lettore la visione dello Stato sovrano secondo i dettami della MMT. La mancanza di grafici e tecnicismi rendono la lettura adatta anche ai non addetti ai lavori, o ai principianti della macroeconomia.
I miti della macroeconomia
Per rovesciare il pensiero economico convenzionale l’economista americana parte dal concetto stesso di Stato dotato di sovranità monetaria, ovvero “Quando un paese emette la propria moneta inconvertibile (fiat) e prende a prestito solo nella propria valuta” (e non fissa la propria valuta ad altre o all’oro, aggiungerei io). Ciò conferisce a questi paesi lo status di emittente di moneta, cioè dei monopolisti nell’emissione della propria moneta. Di conseguenza questi stati possono sempre onorare qualsiasi debito denominato nella propria moneta, semplicemente creandola dal nulla. Di contro, il settore privato composto da famiglie, imprese e banche, cosi come il settore pubblico non governativo (ad esempio le regioni o i municipi), è un utilizzatore di moneta, e quindi se la deve procacciare. Pertanto è assurdo equiparare lo stato a una famiglia in paesi come gli Stati Uniti, il Giappone o il Regno Unito.
Un altro punto fondamentale è che la spesa pubblica, ovvero l’emissione di nuova moneta nazionale, deve necessariamente precedere le tasse. Nel senso che ogni dollaro che viene tassato, deve essere necessariamente immesso nel sistema prima di essere riscosso. Pertanto le tasse non servono a finanziare la spesa pubblica.
Ma allora perché esistono le tasse? Innanzitutto per portare il settore privato alla produzione reale senza indurlo con la coercizione. La tassazione è poi funzionale a scopi ridistribuiti, ovvero tassare i ricchi per ridurre il divario di reddito, ma ancora più importante, per controllare l’inflazione. La Kelton spiega come uno stato a moneta sovrana può sempre finanziare disavanzi di bilancio immettendo nuova liquidità del sistema. Questo significa che non esistono limiti alla spesa pubblica? Ovvio che no! i limiti esistono ma non sono di natura finanziaria.
Esistono limiti reali ed uno di questi è proprio l’inflazione. Infatti, se la spesa pubblica supera la capacità produttiva del sistema di generare nuovi beni e servizi per soddisfare la domanda in eccesso, allora è probabile aspettarsi pressioni inflazionistiche. A quel punto le tasse servono proprio a drenare la liquidità in eccesso e porre un freno all’aumento dei prezzi. Discorso analogo vale per l’emissione di titoli pubblici che non servono agli stati sovrani per finanziare la spesa, ma rispondono a necessità diverse.
Non ha senso per l’economista MMT, l’ossessione generalizzata per il pareggio di bilancio o per il disavanzo pubblico di per sé. Riprendendo la lezione di Abba Lerner, la MMT sostiene che le finanze pubbliche non devono puntare ad obbiettivi contabili, ma bensì essere funzionali a obiettivi reali come la disoccupazione. Uno stato a moneta sovrana può sempre assumere tutti coloro i quali sono disoccupati e cercano un impiego salariato, e la MMT propone di farlo tramite i programmi di Job Guarantee (lavoro garantito). Stesso principio si applica per pensioni e welfare state: non bisogna guardare ai soldi per pagare i programmi sociali, ma alle risorse reali necessarie per le spese di pensionati, malati, veterani, disabili e così via.
Rovesciare il paradigma convenzionale
I lettori che si dovessero avventurare in questi concetti per la prima volta rimarranno probabilmente stupiti nel leggere molte delle affermazioni presenti nel testo, perché in antitesi con la retorica convenzionale, fatta di mantra ripetuti ossessivamente da televisioni e giornali. Stupirà ad esempio leggere che le esportazioni sono costi e non benefici o che il debito pubblico non va ripagato. La proposizione più sorprendente è forse che la spesa pubblica rappresenta il risparmio, potremmo dire la ricchezza, di noi cittadini. Ogni dollaro (l’analisi della Kelton è primariamente incentrata sugli USA ma estendibile anche ad altre economie) speso dal governo deve necessariamente andare nel settore non governativo, composto dal settore nazionale privato e dal settore estero (tramite le importazioni). Viceversa quando il governo tassa più di quanto spende (cioè accumula avanzi di bilancio) sottrae moneta al settore non governativo, che poi è spesso costretto a rivolgersi al credito privato dando vita a episodi di instabilità finanziaria. Non è un caso che molte grandi crisi del capitalismo, come quella dei mutui del 2008, siano avvenuti in corrispondenza on in successione di prolungati avanzi del bilancio pubblico. Posta la questione del bilancio sotto questa prospettiva essa appare quasi come un fatto banale, eppure tale consapevolezza sfugge ai più. Sono pochi ad esempio a comprendere che ridurre il debito pubblico significa anche ridurre l’ammontare di titoli di stato presenti sul mercato, i quali compongono anche i portafogli finanziari delle famiglie e fruttano loro la cedola.
Questa consapevolezza sfugge sicuramente alla maggioranza dei politici Americani, divisi in falchi Repubblicani, i quali invocano tagli di spesa, e colombe Democratiche, che reclamano più tasse per i ceti alti. La Kelton ha lavorato alla Commissione Bilancio del Congresso USA, testando questa deludente e frustrante realtà di rigore fiscale con i propri occhi.
A tal proposito non mancano le critiche ad esponenti del partito democratico (da cui lei era stata assunta) per la miopia con cui approcciano alle questioni economiche. Con non poche difficoltà ha provato a offrire il punto di vista della MMT, ovvero quello della civetta, animale capace di girare la testa quasi a 360 gradi e osservare le cose da un’altra prospettiva. Nonostante la frustrazione, l’esperienza politica ha fornito alla Kelton importanti elementi di riflessione, e i riferimenti a qual trascorso appaiono più volte nel corso del testo.
Il problema è la narrativa. Anzi è proprio il lessico usato in economia, come sottolinea l’autrice: “Il vero problema sono le parole che usiamo per descrivere ciò che avviene”. Se il debito pubblico venisse chiamato risparmio del settore privato, e i deficit pubblici visti come un aumento della ricchezza netta del settore privato, forse l’approccio che avremmo a questi temi sarebbe diverso.
Il mito del deficit contiene anche tutta una serie di riflessioni legate alla distribuzione dei redditi, alla coesione sociale, alle relazioni umane, del benessere dei lavoratori, dei pensionati, degli studenti e delle famiglie che evidenzia la particolare sensibilità della Kelton per i drammi sociali che l’ideologia del pareggio di bilancio causa, privando la collettività delle enormi opportunità di prosperità che una politica fiscale rivolta ai problemi reali può generare.
Tutto quanto detto fin ora non si applica aimè a paesi che hanno ceduto la propria sovranità monetaria quali l’Italia, come l’autrice spiega nell’introduzione dell’edizione Italiana. Eppure quelle poche pagine introduttive meritano di per sé un’attenta lettura, in quanto forniscono importanti spunti di riflessioni in merito alle opportunità che il nostro paese avrebbe se abbandonasse il regime monetario dell’euro.
I soldi quindi non sono un problema in uno Stato sovrano, e l’attenzione della politica e dei cittadini dovrebbe essere rivolta alla distribuzione di beni e servizi reali, al fine di garantire quella che Stephanie Kelton chiama economia al servizio del popolo. Il sistema economico stava attraversando una fase di forti cambiamenti già prima che scoppiasse l’emergenza COVID. In questo contesto il Mito del Deficit rappresenta uno straordinario ausilio analitico, per descrivere il funzionamento dei moderni sistemi monetari, e per poter immaginare le opportunità di cambiamento che fiorirebbero, se gli schemi mentali convenzionali venissero rovesciati.
[1] Wray, L. R. (2015). Modern money theory: A primer on macroeconomics for sovereign monetary systems. Springer.
Pingback: Tutte le recensioni dell'Osservatorio Globalizzazione
emiliano Anselmi
Era ora