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I presupposti teorici del finanzcapitalismo secondo Gallino

I presupposti teorici del finanzcapitalismo secondo Gallino

Sesta parte dell’analisi su “Finanzcapitalismo” di Luciano Gallino ad opera di Giuseppe Gagliano, che scrive della strutturazione teorica dell’ideologia favorevole a un’economia sempre più finanziarizzata tra gli Anni Sessanta e gli Anni Ottanta in risposta al capitalismo industriale del dopoguerra.

Storicamente il finanzcapitalismo ha avuto, secondo Gallino, origini politiche: tra gli anni ’60 e gli anni ’80 le imprese dei maggiori paesi industriali dovettero registrare una considerevole riduzione dei profitti, dovuta, a partire dagli anni ’60 del Novecento a un miglioramento delle condizioni dei lavoratori: si registrò in quell’arco temporale un aumento dei salari reali, notevoli riduzioni dell’orario annuo, risalgono a quel periodo l’introduzione del sabato festivo e l’allungamento delle ferie retribuite, l’introduzione di sistemi nazionali di protezione sociale in ambito sanitario e previdenziale.

Gallino fa notare che Le difficoltà insite nel recupero di un tasso elevato di profitto mediante la produzione di beni e servizi reali spinsero le imprese di ogni settore a ricercarlo in prevalenza nelle attività finanziarie. L’ultimo ostacolo politico-ideologico venne a cadere con la dissoluzione dell’Unione sovietica e il tracollo di un ordine alternativo rispetto a quello capitalistico, in quanto basato sul collettivismo e sulla gestione statale dell’economia. Pertanto, tra i fattori scatenanti la finanziarizzazione del mondo ci furono senz’altro la tendenza ad allargare in tutti i campi il terreno propizio alle attività finanziarie, esercitata in ogni possibile ambito, utilizzando lo strumento della privatizzazione della previdenza, della, sanità, della scuola, delle aziende pubbliche, come le aziende deputate al trasporto collettivo, della produzione e distribuzione di energia e dell’acqua; nonché la concorrenza che è stata stabilita, per mezzo della globalizzazione, tra i salari e i diritti dei lavoratori dei paesi più sviluppati con quelli dei paesi emergenti. Il risultato è stato un abbassamento delle condizioni dei lavoratori e la conseguente proliferazione in Usa e Ue di contratti di lavoro precari che richiedono una grande flessibilità.

Alla fine si è registrata una gigantesca redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, poiché i più colpiti da questa redistribuzione alla rovescia sono evidentemente proprio i lavoratori dipendenti: dati statistici confermano questa lettura non solo per gli Usa, ma anche per molti paesi Ocse, dal Regno Unito alla Francia, dalla Germania all’Italia. Questo passaggio da un capitalismo produttivo a un capitalismo finanziario è stato sapientemente guidato e sostenuto da una ristretta classe capitalistica transnazionale, formata da una decina di milioni di persone in tutto il mondo, sopportata all’esterno sul piano ideologico da una classe parallela formata da politici, manager istituzionali, intellettuali, accademici, editori, giornalisti, funzionari dello stato perfettamente allineati e pronti a sostenere nella società civile le ragioni del sistema. Gallino, come già detto nelle precedenti puntate di questa analisi, ha fatto notare in “Finanzcapitalismo” la vorticosa frequenza degli scambi tra i vertici delle due classi: le “porte girevoli” sono diventate la norma.

Dopo trent’anni di sviluppo, nei primi anni 2000 il capitalismo finanziario ha maturato in sé una serie di squilibri economici e sociali dai costi insostenibili: una macroscopica forma di squilibrio è la disuguaglianza costituita dall’astronomico arricchimento del 10% della popolazione e la stagnazione del reddito trentennale del reddito del restante 90%, e ciò andrebbe enfatizzato non solo per ragioni di giustizia sociale, ma perché essa significa che lo sfruttamento della classe lavoratrice ha ormai raggiunto un limite invalicabile. Altro squilibrio insostenibile è quello nei rapporti di forza stabilitosi tra i vari paesi a livello mondiale e la passiva accettazione del dollaro come moneta forte di riferimento.     

Gallino scrive che ognuno degli schemi esplicativi della crisi sopra esposti contiene diversi aspetti di verità, tuttavia quest’ultimo che riconnette la crisi ai limiti intrinseci del sistema, pur non pretendendo di essere esaustivo, riesce a unire e spiegare in gran parte tutti i precedenti in una riflessione unica e globale sull’attuale sistema politico e socio-economico. Modelli, teorie e metodi forniti dalle scienze economiche hanno fornito più che un mero presupposto teorico e una legittimazione a questo sistema in grado di inventare e diffondere su larghissima scala prodotti finanziari di estrema complessità: secondo gli osservatori i suddetti modelli avrebbero contribuito a costruirlo.

Una delle critiche che viene oggi mossa da una parte degli osservatori è proprio l’impostazione acritica e l’uso improprio di teorie e modelli scientifici ripresi dalle scienze fisiche e naturali e la creazione per mezzo di essi di nuove realtà economiche, pertanto i punti che si vorrebbero fissare sono essenzialmente due: il ruolo che determinate teorie economiche hanno avuto nel produrre questa specifica crisi, e il peso che una scientifizzazione mal riposta ha esercitato nel condurle a svolgere tale ruolo, creando un sistema avulso dall’economia reale e insostenibile, sia da un punto di vista sociale che ecologico.

Le idee degli economisti, diceva J. Keynes, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. Da tempo, afferma Gallino, le idee degli economisti prendono forma di modelli scientifici: rappresentazioni formalizzate del modo in cui l’economia si suppone che funzioni. Pierluigi Fagan ha parlato a tal proposito di “scolastica economica”. Coltivando a livello globale la cultura del debito hanno creato una straordinaria varietà di strumenti finanziari e una stupefacente quantità di denaro. Le istituzioni finanziarie, le maggiori banche europee e americane, hanno potuto crearlo perché hanno potuto avvalersi di due principali classi di modelli scientifici. Una prima classe di modelli rappresenta il mercato come un sistema che infallibilmente si autoregola in base alle sue stesse retroazioni; il capitale affluisce immancabilmente dove il suo rendimento è più efficiente.

Una seconda classe di modelli rappresenta il rapporto tra rischio e prezzo in modo tale che qualunque sia il livello di rischio si trovi infallibilmente qualcuno disposto a pagare il prezzo che lo copre. In altre parole, se un soggetto utilizza simili modelli il rischio che corre in campo finanziario dovrebbe essere azzerato o più precisamente dovrebbero venire azzerate le perdite eventualmente dovute ai rischi in cui uno è incorso. Tutti i modelli teorici dovrebbero basarsi su dei presupposti che ne assicurano il rapporto con la realtà, tuttavia quelli maggiormente utilizzati per organizzare e gestire il sistema finanziario hanno perso ogni contatto con quest’ultima.

Inoltre, i principali limiti del sistema risiedono principalmente nell’applicare il concetto di equilibrio della fisica ad un campo, quello economico, in cui tale concetto non trova alcun riscontro, poiché esso si riferisce solo a sistemi chiusi, mentre i mercati sono sistemi aperti e peraltro estremamente complessi ed eterogenei, perché al suo interno operano milioni di partecipanti e milioni di beni ed inoltre perché, nel mondo reale, vi sono partecipanti eterogenei che hanno un diverso grado di conoscenza del mercato, fatto quest’ultimo che rende pressoché impossibile una valutazione attenta degli rischio reale degli strumenti finanziari.

Un congruo numero di esperti, fisici e matematici, hanno offerto il loro contributo allo scopo di rendere più realistiche ed efficaci le teorie economiche applicate al sistema finanziario. Dalla metà del Novecento in poi uno degli sforzi intrapresi dalle scienze economiche per assomigliare alla fisica è consistito appunto nell’uso sempre più esteso della matematica; parallelamente al cammino verso la matematizzazione, le discipline economiche hanno importato numerosi modelli dalle scienze fisiche. Lo scopo era quello, da una parte, di far rientrare l’economia nell’ambito delle scienze esatte, dall’altro quello di accrescere la capacità della disciplina di rappresentare realisticamente l’economia così com’è e non come gli economisti vorrebbero che fosse. L’intento è stato descritto con chiarezza da M. Friedman, caposcuola dell’economia come scienza positiva negli anni ’50 del Novecento. Già a partire dagli anni ’80 le scienze economiche avrebbero conosciuto severe sconfitte sul terreno della precisione, portata e conformità delle sue predizioni con l’esperienza. E ciò non a causa di errori nella costruzione dei modelli sempre più complessi, bensì a causa dei presupposti radicalmente errati su cui si fondano che sottende un divario enorme tra realtà e astrazione.

1 – Il finanzcapitalismo secondo Luciano Gallino

2 – Le strutture del finanzcapitalismo

3 – Ascesa e declino del neoliberismo

4 – La Grande Crisi: il fallimento del neoliberismo

5 – Sinistra e neoliberismo: l’abbraccio mortale

6 – I presupposti teorici del finanzcapitalismo secondo Gallino

7 – La finanza degli apprendisti stregoni

8 – La solitudine dell’uomo economico

9 – Il finanzcapitalismo all’assalto dell’ambiente



Nel 2011 ha fondato il Network internazionale Cestudec (Centro studi strategici Carlo de Cristoforis) con sede a Como, centro studi iscritto all'Anagrafe della Ricerca dal 2015. La finalità del centro è quella di studiare, in una ottica realistica, le dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali ponendo l'enfasi sulla dimensione della intelligence e della geopolitica alla luce delle riflessioni di Christian Harbulot fondatore e direttore della Scuola di guerra economica(Ege) di Parigi

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