La solitudine dell’uomo economico e la svalorizzazione del lavoro
Sfruttamento 24/7, lavoro precario e smarrimento: l’ideologia dell’uomo economico produce effetti collaterali gravi, come ci ricorda Giuseppe Gagliano nell’ottavo capitolo dell’analisi su Luciano Gallino.
A motivo della sua intrinseca fragilità, la mega macchina sociale ed economica chiamata finanzcapitalismo rappresenta, secondo Gallino, il maggior generatore di insicurezza socio-economica che il mondo moderno abbia finora conosciuto, poiché, in tale sistema basato sulla speculazione e sui debiti, basta che si verifichi un mancato rientro di capitali che l’intero sistema entri in fibrillazione per poi crollare del tutto. Questa fragilità sistemica è strettamente intrecciata alla produzione di smisurate disuguaglianze; al deterioramento delle condizioni di lavoro; alla distruzione degli ecosistemi e dell’agricoltura tradizionale a favore di un modello industriale rivelatosi incapace di soddisfare i bisogni primari della maggior parte della popolazione. Nel complesso, quindi, l’ascesa finora incontrollata della mega-macchina che svolge simili funzioni è un fattore centrale del degrado della civiltà globalizzata o della civiltà-mondo.
Certamente questo sistema non avrebbe mai raggiunto i risultati che può vantare a livello mondiale, se non avesse avuto l’apporto di miliardi di inconsapevoli servo-unità umane, termine che risale a Mumford e alla sua definizione di mega-macchina. È questo un modello dell’uomo che lo concepisce come un essere le cui azioni sono motivate unicamente da un principio normativo supremo: il perseguimento dell’interesse e dell’utilità personale a tutti i costi.
L’uomo economico è concepito alla stregua di una macchina da calcolo, come ebbe a definirlo l’antropologo M. Mauss. Lo diventa realmente nel suo comportamento effettivo: se si comporta nel modo previsto della società e dal sistema, gli vengono offerti riconoscimenti materiali e simbolici, viceversa, se da tale comportamento gli capita di deviare, subisce malversazioni ed è sottoposto a privazioni di varia natura. L’uomo economico, teorizzato dalla cultura neoliberale, è diventato oggi una realtà vivente. Immersi come sono sin dalla nascita in Istituzioni sociali e culturali, la scuola e il mercato, la produzione e il consumo, i media e l’intrattenimento, l’amministrazione pubblica e la politica, le quali tutte operano intensivamente, gli esseri umani hanno sviluppato in massa una personalità che li fa agire come uomini la cui esistenza è finalizzata al consumo. Uno dei maggiori tra i problemi che oggi si pongono all’interno di una civiltà globalizzata a livello planetario sta nella pressoché totale scomparsa di soggetti che siano in condizione di distanziarsi da esso; ossia di vederlo, di giudicarlo dall’esterno, al caso prendendosi la libertà di resistervi, attraverso proposte e modelli culturali alternativi.
È un problema dunque di carattere psicoanalitico ed antropologico, perché nell’epoca del finanzcapitalismo il sé biologico, il fondo della personalità umana, fonte delle sue pulsioni e desideri, appare avere ormai subito le pressioni modellatrici della cultura dominante: il finanzcapitalismo pianifica i desideri, le aspettative, i consumi e il consumatore prima della produzione, e a tale scopo si adopera affinché le età dell’uomo si riducano, favorendo un artificiale protrazione dell’infanzia, a prescindere dalla durata effettiva della vita biologica.
Una simile operazione non porta alla creazione di cittadini consapevoli, ma di individui passivi: richiamiamo sul tema al recente intervento di Verdiana Garau sulle colonne dell’Osservatorio Globalizzazione.
Secondo Gallino l’uomo, del resto, è essenzialmente l’insieme dei rapporti sociali in cui si trova ad esistere e delle esperienze che vive e attraversa all’interno di un preciso e determinato gruppo sociale, pertanto in questo caso la ricerca del profitto e la logica del denaro viene a inscriversi nella natura stessa dell’uomo. Da tale circolo vizioso non è facile uscirne poiché se questi rapporti diventano in vario modo l’ordito e la trama del suo tessuto umano, cessa la speranza che l’uomo economico possa trovare in sé la forza e i mezzi per trasformare la realtà di cui è parte. Il finanzcapitalismo opera, come si è detto, estraendo valore dal lavoro umano e dalla natura.
L’estrazione di valore dal lavoro
Vediamo meglio come il sistema condizioni radicalmente la vita dei lavoratori dentro e fuori dall’azienda. Il finanzcapitalismo ha sviluppato un processo di estrazione del lavoro umano complesso quanto efficiente: allo scopo di massimizzare la quantità di valore estratto è necessario che un’impresa punti a realizzare numerose condizioni, come pagare meno possibile il tempo di lavoro effettivo, aumentare la produttività del lavoratore, riducendo le pause e gli sprechi di tempo, far sì che le persone lavorino, in modo consapevole o no, senza doverle retribuire, e minimizzare qualunque onere addizionale che gravi sul tempo di lavoro.
Accanto allo sfruttamento del lavoro nei paesi emergenti e alla compressione dei diritti dei lavoratori e all’erosione dei sistemi di protezione sociale in quelli sviluppati, altre due forme di massimizzazione della estrazione di valore dal lavoro meritano una maggiore attenzione, perché operano in maniera meno visibile e subdola. Una è l’occupazione flessibile. Grazie alle riforme del mercato del lavoro introdotte dai governi, il finanzcapitalismo ha potuto trarre profitto dalla moltiplicazione di tali forme di occupazione, imperniate sui contratti di breve durata. Il sistema economico stesso, a causa della sua intrinseca fragilità, disincentiva le imprese ad assumere stabilmente, oppure, se inevitabile, ad assumere con contratti di breve durata o con contratti che prevedono il licenziamento senza dover sopportare particolari oneri a carico dell’impresa. Un secondo modo per estrarre valore dal lavoro umano consiste nell’intensificazione dei ritmi di questo e nella riduzione delle pause durante l’orario: un esempio emblematico, tra i tanti che potrebbero essere menzionati anche all’interno di aziende pubbliche, è quello dei moderni call center: i contatti con i clienti attuali e potenziali sono misurati in secondi, e gli operatori sono retribuiti in base alla durata dei contatti stessi.
Connessi, sempre connessi, troppo connessi
Un’ulteriore riflessione merita, a tal proposito, il fondamentale apporto delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione al finanzcapitalismo: gli strumenti mediatici hanno diffuso nell’immaginario collettivo di massa l’idea che il massimo dell’efficienza lavorativa e produttiva consista nell’essere sempre connessi, sempre disponibili, sempre rintracciabili in qualunque momento della giornata, senza alcun buco vuoto nello spazio e nel tempo, a scapito della qualità generale della vita. L’operazione diretta a far introiettare questa mentalità comincia da subito, fin dai primi anni di scuola. L’essere perennemente interconnesso, dovunque ci si trovi, per parlare al telefono, chattare, scambiare sms, twittare, bloccare, gestire mail inbox e outbox, significa in realtà lavorare senza sosta per qualcun altro.
L’interconnessione ubiquitaria viene presentata di solito come una scelta felicemente innovativa, un modo reso finalmente possibile dalle nuove tecnologie delle telecomunicazioni e dell’informatica di mixare, per così dire, lavoro, tempo libero, ufficio e famiglia. Ma si tratta di una immagine fittizia abilmente costruita dai media e dalle direzioni di marketing della società delle telecomunicazioni. In realtà, siamo dinnanzi a un prolungamento a oltranza nel tempo e nello spazio dell’estrazione di valore dagli esseri umani, concepite, come si diceva, alla stregua di servo-unità. Aver diffuso la finzione in luogo della realtà è un successo della macchina del finanzcapitalismo, senza che nulla cambi nella realtà dell’asservimento. Si concluderà pertanto, a proposito dell’estrazione del valore dal lavoro umano, che nessuna delle aspettative prospettate dai fautori ad oltranza del finanzcapitalismo si è finora realizzata: gli ideologi avevano vantato lo sviluppo della società della conoscenza e delle professioni, oggi invece si constata la richiesta di lavoratori e operai generici da parte delle imprese; l’occupazione flessibile doveva contribuire a elevare la produttività del lavoro, ma le imprese l’hanno utilizzata soprattutto per ritrattare i diritti dei lavoratori e per compiere lavorazioni a basso lavoro aggiunto.
8 – continua
1 – Il finanzcapitalismo secondo Luciano Gallino
2 – Le strutture del finanzcapitalismo
3 – Ascesa e declino del neoliberismo
4 – La Grande Crisi: il fallimento del neoliberismo
5 – Sinistra e neoliberismo: l’abbraccio mortale
6 – I presupposti teorici del finanzcapitalismo secondo Gallino
7 – La finanza degli apprendisti stregoni
8 – La solitudine dell’uomo economico
Pingback: Il finanzcapitalismo secondo Luciano Gallino - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: Ascesa e declino del neoliberismo - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: La Grande Crisi e il fallimento del neoliberismo - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: Sinistra e neoliberismo: l'abbraccio mortale - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: La vergogna di Natale di Netflix - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: Il finanzcapitalismo all'assalto dell'ambiente - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: Il lavoro ai tempi del neoliberismo - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: L'equivoco di Adam Smith e della Mano Invisibile - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: Il crocevia della globalizzazione: quale mondo dopo il coronavirus?
Pingback: Il valore della formazione nel rilancio del Paese. Parla Milan (Aif) - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: Alle radici della società della sorveglianza - Osservatorio Globalizzazione
Pingback: "Acquista in anticipo. E poi rilassati". Cosa vuole dirci Amazon?
Pingback: Consumiso e disillusioni: la "società signorile di massa" secondo Luca Ricolfi
Pingback: Contro il neoliberismo