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La Sovranità e lo scontro tra economia e politica, intervista a Carlo Galli

La Sovranità e lo scontro tra economia e politica, intervista a Carlo Galli

Oggi sull’Osservatorio Globalizzazione abbiamo il paicere di intervistare il politologo Carlo Galli, professore di storia delle discipline politiche all’Alma Mater-Università di Bologna e già deputato nella XVII legislatura, sul tema del suo ultimo saggio, “Sovranità“.

OG: Professor Galli nel suo saggio “Sovranità” appare emblematica espressione “Sovranità è democrazia? Oggi si”: quali sono le funzioni economiche, politiche e sociali che, oggigiorno, impediscono il pieno esercizio della sovranità?

CG: La sovranità dello Stato oggi è fortemente limitata da una serie di determinazioni giuridiche, economiche e politiche; quelle politiche sono i trattati derivanti dalle nostre scelte di grande politica internazionale, per esempio l’adesione alla NATO. Sotto il profilo giuridico la sovranità di un paese e anche dell’Italia è limitata da trattati che regolano alcuni comportamenti internazionali del paese: il nostro ingresso nell’Onu ci ha privato dello Ius ad Bellum che peraltro era già messo in discussione nella nostra Costituzione. Poi ci sono motivazioni di carattere economico: la nostra adesione ai trattati che istituiscono l’Euro ci ha privato della sovranità monetaria. Sono privazioni in qualche modo volontarie perché giungono a compimento con un voto del Parlamento. Tuttavia, sono limitazioni, e quelle che i cittadini sentono maggiormente oggi sono quelle economiche. Lo   Stato italiano resta sovrano come tutti gli Stati che fanno parte dell’unione europea, ma con una cessione di sovranità monetaria: è venuto meno quello gli economisti chiamano il signoraggio, il comando politico sulla moneta, cessato nel 1981 con il cosiddetto divorzio fra ministro del Tesoro e la Banca d’Italia. E ciò consegna lo Stato ai mercati. Lo stato non è più signore della propria moneta. Una volta che si sia aderito all’Euro non si può più stampare moneta; possiamo unicamenteemettere titoli di debito (entro una certa soglia) e in ogni caso quando emetti debito devi sperare che qualcuno te lo compri, i mercati. Questo incide sulla sovranità di bilancio: anche se formalmente lo Stato italiano è sovrano nel determinare il proprio bilancio, con tutte queste restrizioni di fatto non lo è; detto in altri termini non ci sono mai abbastanza soldi. Che è una cosa strana perché lo Stato i soldi li dovrebbe poterseli stampare.

OG: Perché tutto questo?

CG: Questo è il passo più avanzato che è stato fatto verso una Unione europea che è un Unione a vari livelli: giuridici, economici, culturali, ecc. sempre però tra stati Sovrani. La moneta unica è invece la proiezione del marco tedesco, fondata sulla sua medesima filosofia politico-economica: l’economia sociale di mercato detta anche “Ordoliberalismo”, andata al potere nella Germania federale nel secondo dopoguerra (alla quale Schroeder ha introdotto elementi di neoliberismo con le riforme del 2003-2004). La sua teoria di fondo è: l’economia di mercato è in equilibrio, a condizione che non intervengano fattori distorsivi della concorrenza. Tuttavia, è necessario uno Stato forte, uno Stato gendarme, che deve garantire il buon funzionamento delle dinamiche di mercato – anche se nella realtà lo Stato tedesco è tra i più interventisti. Poi ci deve essere un forte legame tra la finanza e l’economia produttiva e un decentramento politico forte: i Laender infatti hanno grande autonomia.  C’è poi una teoria di fondo che è la vecchia teoria organicistica tedesca: l’idea che la società sia un corpo unitario: su questo punto la cultura tedesca di distacca dal neoliberismo austriaco di Mises e Hayek. Il loro pensiero originario (il marginalismo) è una risposta alla teoria del valore-lavoro marxista: il prezzo delle merci non è determinato dal lavoro in esse contenuto ma dal libero gioco della domanda e dell’offerta, dalle scelte dei consumatori informati e razionali.

OG: Lei fa riferimento a Menger, Walras Marshall, ecc?

CG: Esattamente. Il neoliberismo deriva dal marginalismo e incrocia la linea austriaca con la linea monetarista di Chicago. E qui c’è un vero paradosso perché questo paradigma liberista non è mai stato applicato fino a che il paradigma concorrente, quello Keynesiano che aveva come obbiettivo la sconfitta della disoccupazione, non è andato a pezzi. Era insomma un paradigma di riserva, basato sulla sconfitta dell’inflazione. Il secondo dopoguerra si strutturò invece su paradigmi grossomodo keynesiani, per dare una risposta alla disoccupazione e poi alle necessità della ricostruzione postbellica. Questo paradigma però unicamente incentrato sul ruolo del lavoro, prevede la possibilità dell’intervento statale nell’economia e la possibilità dei bilanci a deficit. Ma soprattutto, cosa più importante, conosce il conflitto intrinseco della società. È un paradigma che oltre al lavoro e allo Stato coinvolge anche il capitale e dà così vita al compromesso socialdemocratico dei Trenta Gloriosi. Uno dei paradossi dei primi decenni della nostra repubblica fu che l’interprete del paradigma keynesiano era la DC mentre il PCI aveva un’idea avara dell’economia, e credeva che il debito fosse qualcosa di spaventoso.

OG: Concezione marxista del debito come colpa!

CG: In ciò i comunisti italiani erano liberali ortodossi. Il debito è disordine: se c’è debito c’è qualcosa che non va. Sta di fatto che il paradigma keynesiano va in crisi nei primi anni Settanta con la crisi del dollaro che ha portato alla fine degli accordi di Bretton Woods. In parallelo c’è anche una crisi politica degli stessi USA che perdono la guerra in Vietnam, per sostenere la quale hanno generato ed esportato inflazione. Arriviamo così alla stagflazione di metà anni Settanta, un tipo di crisi che nel modello keynesiano è intrattabile. È allora che viene recuperato il paradigma neoliberista di riserva. I segnali sono questi: nel 1974 il premio Nobel ad Hayek e nel 1976 a Friedman, poi la Thatcher e Reagan vincono le elezioni nei loro rispettivi paesi. Ed è così che il neoliberismo passa a diventare dominante. Il neoliberismo è sostanzialmente deflattivo, e va bene per sconfiggere l’inflazione. Ma ciò avviene colpendo i salari e la spesa pubblica. Il risultato è la grave sconfitta delle sinistre, che ci capiscono poco, solamente che vanno fatti dei sacrifici. Da qui infatti la linea Berlinguer dell’austerità e la grande sconfitta sulla scala mobile e sulla marcia dei quarantamila. Questo perché il modello sociale del neoliberismo è quello di una società amorfa, cioè fatta di individui solitari, senza corpi intermedi, partiti sindacati, ecc. Basta ricordare la famosa frase della Thatcher “There is no such a thing as a society”, la società è fatta di individui “imprenditori” che pensano solo alla massimizzazione della propria utilità individuale.

L’economia si pone come scienza regina e ogni altra scienza deve servire a consentire all’economia di funzionare. Le strutture economiche sono sottratte alla valutazione e alla critica, per usare ancora le parole della signora Thatcher “There is no alternative”. La società è l’economia e viceversa: non vi è alcuno spazio nella società che si discosti dalla dinamica economica. Chi è vicino all’università se ne è accorto: a un certo punto siamo stati investiti da un modello aziendale, da un’ondata di valutazioni senza fine. Il sistema di valutazione in cui ci troviamo ha l’obbiettivo di non farti mai sentire al sicuro. Di renderci semi-flessibili, come gli altri lavoratori. 

OG: Ci deve sempre essere concorrenza, insomma.

CG: Esatto. Come l’impresa è sempre sottoposta alla spietata legge del mercato, il professore è sottoposto alla legge della valutazione. La cui parola d’ordine è flessibilità e formazione continua. Ciò è collegato alla interpretazione della società come “capitale umano”.  Il capitale va necessariamente impiegato, attivato, mobilitato. Si prepara così uno sviluppo delle università verso il pensiero utile e non verso il pensiero critico.

OG: Questo implica la scomparsa della politica come funzione sociale?

CG: Ciò implica non la scomparsa della politica ma una ridefinizione dell’agenda della politicaL’economia teme la potenza della politica, teme che si imponga su di essa, nella forma comunista, corporativa, ecc. Il comando politico è visto come la mancanza di libertà, così come il grande nemico è anche il nemico socialdemocratico, le enormi macchine burocratiche dello Stato sociale. L’economia deve dettare l’agenda alla politica, ma questa non deve scomparire: deve prendere ordini e mettere in ordine. 

OG: Tutto questo in Italia si è configurato con il vincolo esterno?

CG: In Italia i ceti alto borghesi si sono disperati, hanno pensato che il paese fosse incontrollabile e che il ceto politico fosse incapace di governare. I processi (le elezioni) e i soggetti democratici (i partiti) sono parsi inadeguati alle sfide che il neoliberismo doveva affrontare. Così si sono indeboliti i partiti, trasformati in soggetti poco strutturati, guidati non da élite politiche ma da leader acchiappavoti. E oggi si parla apertamente di ridurre la democrazia: le elezioni sono troppo frequenti, le proposte radicali vanno eliminate, insomma bisogna proporre agli elettori partiti sostanzialmente identici.

Quindi se il ceto politico è incapace, la cosa importante – l’economia – va tenuta al sicuro con il “vincolo esterno”, attaccandoci ai tedeschi egemoni in Europa. Dalle durezze e dalle contraddizioni del neoliberismo sono poi nati i movimenti di protesta, populisti e sovranisti, che chiedono che lo Stato ritrovi la sua sovranità, cioè comandi sull’economia e protegga la società. Anche se poi questi movimenti sovranisti mettono tutta la loro energia nella caccia al migrante e sono poi più neoliberisti addirittura dei loro avversari (ma è un particolare che pare sfuggire ai più).

Ovvio che il vincolo esterno, benché molto doloroso, non è l’unico nostro male; sicuramente però non ci permette di curare tutti gli altri. Coloro che lo hanno adottato adesso dicono che chiaramente avrebbe dovuto seguire una unione politica, ma la costruzione di una unione politica implica anche la messa in comune dei debiti e questo nessuno lo vuole. Ogni Stato è sovranista. Soprattutto non esiste una sovranità che nasca a tavolino. La sovranità è una esplosione di energia politica, non è un trattato, che al massimo può suggellare una sconfitta o una vittoria. Se esistesse una sovranità europea sarebbe nata da movimenti, lotte, rivoluzioni, come tutte le sovranità, anche quelle federali.

In ogni caso, nella Ue (meglio, nell’eurozona) ci sono solo Stati sovrani che hanno in comune la moneta unica e che hanno l’obbligo di pagare i suoi costi di tasca propria in casa propria; se proprio qualcuno è in difficoltà gli vengono offerti dei prestiti a condizioni carissime, non tanto economicamente quanto politicamente.

OG: Che è quello che sta succedendo adesso con il MES? Dove una parte politica insistentemente ne richiede utilizzo?

CG: Chiaro! Ma qui il punto non che il creditore rivuole i soldi indietro, ma proprio che siano prestati a debito! Se l’Europa fosse unita non sarebbe un debito: sarebbe quello che succede negli USA, creazione di moneta e redistribuzione alle aree che ne necessitano. Se l’Europa fosse unitaria si stamperebbe la propria moneta, ovvero la sua banca centrale, prestatrice di ultima istanza, attuerebbe la “monetizzazione del debito”, comperando i titoli di debito dei vari Stati.  Certo, in un’Europa politica (federale) sarebbero ancora più evidenti le egemonie di fatto, tedesca e francese (ma contro questa circostanza non ci sono rimedi, tranne quello che anche l’Italia cresca e si rafforzi).

OG: E non è quello che accade già?

CG: No, è proprio questo il punto. I tedeschi non vogliono comandare in Europa. La Germania non si sente coinvolta da problemi italiani o francesi o greci, non ha alcuna intenzione di prendersi delle responsabilità aperte, anche se di fatto è il paese più prospero economicamente ed ha un primato politico. La Germania cerca e ottiene potere indiretto, non diretto.

Una delle conseguenze del fatto che l’Europa non è politicamente unita (se lo fosse, sarebbe una superpotenza), ma invece è frammentata (tranne che per la moneta) è che è debole (o non forte come potrebbe) davanti agli interessi di altre potenze come gli USA, la Russia e la Cina. 

OG: Un’unione politica debole, e un’unione economica forte, quindi?

CG: Sì. Ma attenzione. L’unione economica forte è strutturata attorno all’euro e al paradigma ordoliberista. E ciò rallenta lo sviluppo economico, dato che l’Europa è ossessionata dal timore dell’inflazione, e dalla coazione all’esportazione (mercantilismo): lo sviluppo non dipende dalla domanda interna. Prima della pandemia la Ue era l’area del globo che cresceva di meno. Perché il suo sistema è una macchina politica economica essenzialmente conservatrice, che cerca essenzialmente stabilità. 

L’alternativa potrebbe essere di puntare a un sistema neoliberista puro (non ordoliberista), che però è comunque insostenibile, per la quantità enorme di rischio insito nel sistema, cosa che una società non può sopportare. Una società avanzata può sopportare unicamente un sistema socialdemocratico equilibrato. 

In ogni caso, la Ue adottando l’euro ha voluto creare una sorta di “fortezza” o di isola all’interno di un oceano neoliberista mondiale. Quella fortezza ha però al proprio interno una debolezza: moneta unica ma non sovranità unica. In tal modo o tutti diventiamo come la Germania azzerando gli spread (cosa impossibile) oppure le divergenze aumentano e la Germania prevale sugli altri paesi.

Ciò è dato dal fatto che l’euro è uno strumento squilibrato (non è un’area monetaria ottimale) e dove l’unico equilibrio possibile sarebbe quello che proviene dalla politica unitaria. 

OG: Siamo di fronte ad un bivio perciò?

CG: Sì. E il dilemma si risolve con la politica, con la sovranità: o quella di ciascun singolo Stato oppure quella della Ue finalmente divenuta federale. 

Ma sia ben chiaro che nel nostro paese i problemi non sono solo quelli derivanti dall’euro. L’Euro ha reso evidenti problemi che esistevano da prima: abbiamo una giustizia e una pubblica amministrazione totalmente farraginose, e un sistema educativo e una sanità pubblica troppo disuguali sul territorio. 

OG: E forse vediamo anche adesso dopo trent’anni i problemi: prima tangentopoli e la crisi della politica, poi la crisi dei governi instabili e la crisi attuale della magistratura, scossoni che hanno mostrato come sia fragile il nostro sistema.

CG: Appunto, anche se non avessimo la moneta unica avremmo bisogno di un sistema politico di grande saggezza, sapienza e serietà, che spendesse i soldi nella maniera e nel modo giusto. Ovviamente è meglio avere i soldi che non averli; ma soprattutto bisogna saperli spendere, evitando sprechi e clientelismi.

OG: A cui si aggiungono le regioni, che sono forse fattori di squilibrio piuttosto che di stabilità, rispecchiando le fragilità del nostro Stato e del nostro Governo.

CG: Sicuramente l’Italia governata dai prefetti era più omogenea, anche le scuole erano più omogenee. Ma l’unità è stata una delle vittime del neoliberismo: flessibilità vuol dire anche diversificazione. Basti pensare alla riforma del Titolo V che fa dello Stato una parte della Repubblica, è chiaro che qui c’è un’idea di fondo di indebolimento del potere centrale, che è funzionale alle logiche neoliberistiche. Non a caso l’Europa immaginata dagli economisti (ma non dai politici) è un Europa senza Stati e fatta di macroregioni.

Le Regioni in Italia sono dei grossi centri di potere burocratico e clientelare, benché alcune siano centri di governo e programmazione reale del territorio; nel complesso, non sono certo l’esperimento istituzionale meglio riuscito della nostra storia. Secondo me il depauperamento delle funzioni delle provincie è stato un errore, motivato dal fatto che si diceva che ci sono troppi livelli di governo. Ma la Regione tende a comportarsi come un piccolo Stato, vi è un forte spirito di accentramento regionale, perfino in una regione policentrica come l’Emilia-Romagna. Vi sono poi regioni impresentabili, sia per colpa dell’istituto, sia perché in certi contesti (soprattutto in alcune zone del Sud) la società è devastata dalla malavita. Quelle sono, inoltre, società povere di relazioni, dove le persone non si fidano le une delle altre. Non c’è legame sociale: i legami sono solo clientelari e personali, e la produzione di ricchezza è scarsa e spesso finisce nelle mani sbagliate.

Questo è uno dei grandi problemi. Oggi della questione meridionale non si parla più perché si parla soltanto di quella settentrionale: ci si chiede come facciamo a stare dentro il neoliberismo, come facciamo a stare in Europa. Ma non potremo mai starci se non risolviamo le nostre questioni interne. E la soluzione non è certamente il “liberi tutti”, la libertà per ogni regione di fare quello che vuole. Oggi il paese ha bisogno di unità e non di pluralità divergente. Anche perché molte difficoltà vengono già lette in chiave di divisione: la Lega ha smesso i discorsi di divisione ma li ha fatti per decenni; e il meridione vive un eterno senso di rivincita verso il nord. La traduzione dei problemi in rivalità interna è tipica ma anche sbagliata perché non li risolve. E non si può neppure dire che i problemi di sperequazione regionale vanno risolti a livello europeo. Ci sono sì i fondi europei per lo sviluppo delle aree depresse; ma se questi non vengono inseriti in una catena del valore diventano episodi, incapaci di creare ricchezza. 

Sfiducia e debolezza della società è ciò che rende il sud ancora bisognoso di sostegno. Forse si è ragionato troppo in grande scala: la grande acciaieria, la grande industria, ecc.; forse se si cambia impostazione si possono ottenere migliori risultati. E questo è ancora compito dello Stato, perché le Regioni sono troppo forti e al tempo stesso troppo deboli: propongono politiche a volte troppo accentrate ma hanno una forza economica e amministrativa troppo ridotta, spesso insufficiente. 

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Piacentino classe 1994, è Coordinatore di redazione dell'Osservatorio Globalizzazione. Attualmente è Gestore cedenti e coordinatore del progetto migrazione digitale Factoring presso SACE Fct e precedentemente laureato triennale in Economia e Management presso l'Università degli Studi di Milano e laureato magistrale presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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