Il futuro del trumpismo nell’era Biden
Simone Galli torna a scrivere di Usa sull’Osservatorio parlando di come il trumpismo potrà sopravvivere politicamente alla fine della sua esperienza di governo.
Dopo la notte più lunga di sempre finalmente il verdetto: con una affluenza mai registrata negli ultimi 120 anni, gli americani assegnano a Joe Biden il numero sufficiente di grandi elettori per essere proclamato il 46° presidente degli Stati Uniti. Una vittoria, fino a poco tempo fa, forse insperata e inaspettata per il Partito democratico, tutt’altro che esaustiva. Quando infatti la coppia Biden-Harris si aggiudica il record storico di oltre 74 milioni di voti, Donald Trump incassa la sconfitta sostenuto da più di 70 milioni di cittadini americani. Il presidente uscente non solo conferma il gradimento ricevuto quattro anni fa, ma accresce, come nessuno prima, di circa 7 milioni la sua base elettorale. Un risultato comunque eccezionale per The Donald che testimonia un’America quanto mai spaccata e divisa.
Se Trump può dirsi sconfitto, lo stesso non vale allora per il trumpismo, vivo e diffuso più di prima, e una grande sfida attende ora Biden e i democratici: superarlo.
Nel suo primo discorso da presidente eletto, Biden invoca l’unità di tutto il popolo americano per ricostruire l’anima degli Stati Uniti e per tornare ad avere un’America rispettata nel mondo.
Unità, quindi giustizia e dialogo rappresentano le tre sfide di Biden per sconfiggere e superare definitivamente i lasciti del trumpismo.
Dal parco del Chase Center, a Wilmington, dove sabato sera si è tenuta la festa della vittoria, il presidente eletto parla di tempo di guarigione. Gli Stati Uniti devono guarire dai più profondi individualismi e qualunquismi incarnati e diffusi con successo da Trump, abile a districarsi nella politica della post-truth e a sponsorizzare il modello di una società verticistica, selettiva ed egoista. Una sfida titanica dunque quella di Biden, che per sradicare il più intimo trumpismo dovrà quanto prima ricucire in uno spirito di unità un’America strappata.
Unità, dunque, è la prima prova per i democratici. Già più volte richiamata da Biden, non in ultimo definendosi il presidente di tutti gli americani, l’unità rappresenta il filo rosso attraverso il quale superare una proposta identitaria ed esclusiva. Abbandonare perciò i più selettivi sezionalismi in favore di una politica della più larga integrazione e giustificazione delle differenze. La questione razziale non può così passare in secondo piano se i democratici vogliono veramente garantire a tutti la possibilità di una realizzazione integrale. Non più un paese diviso in stati rossi e stati blu, come va ripetendo Biden, ma una società aperta e inclusiva, capace di riconoscere il valore di ciascuno.
Quindi una giustizia dalle più larghe aspirazioni nel fine della persona e nelle relazioni con gli altri, incapace di sfuggire davanti alle crescenti disuguaglianze. Istruzione e lotta alla povertà per declinare la giustizia sociale, Green new deal per la giustizia ambientale.
Dialogo per sostituire alla politica di potenza la cooperazione internazionale, e multilateralismo per tessere una solida rete di alleanze e vantaggi reciproci, indispensabili in un mondo iperconnesso.
Trump, scaltro a trasformare l’ignoranza in forza e a impadronirsi del partito spingendolo su posizioni estreme, continua a rappresentare un’esasperazione volgare e violenta, sinonimo delle più intense lacerazioni sociali che difficilmente presto svaniranno.
In un paese quanto mai polarizzato e davanti all’incalzare di uno scenario caotico e assai instabile, si pongono a Biden delle prove ardue come faticose ma non declinabili per spegnere la fiamma delle paure e del più pericoloso individualismo.
Una redistribuzione del carico tributario, l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora e imponenti investimenti in infrastrutture e manutenzione per offrire lavoro alla classe media e rendere l’economia degli Usa sostenibile del punto di vista ambientale sono alcune delle proposte dei democratici in campo economico. La volontà di rendere gratuiti i college per i giovani di famiglie con redditi al di sotto di 125 mila dollari, e di aumentare i finanziamenti per le scuole nelle aree a basso reddito, così come un allargamento dell’Obamacare e il probabile supermanto del Muslim Band sembrano invece proposte utili per colmare il fossato tra città e zone rurali e condurre una lotta alle disuguaglianze. Anche una task-force organizzata e guidata da competenze scientifiche come una sensibilità verso il cambiamento climatico sono le prime considerazioni care a Biden per rilanciare uno spirito di unità e cooperazione. Nulla dovrà essere lasciato al caso, a cominciare dalla battaglia per scongiurare un Senato repubblicano con la conquista dei due seggi ancora vacanti e da assegnare in Georgia il prossimo 5 gennaio. Imprescindibili per i democratici per assicurare al nuovo presidente eletto una maggiore tenuta al Congresso.
Il confronto con l‘ala più progressista del partito non dovrà essere ridimensionato, piuttosto intensificato ed elaborato. La componente cosiddetta socialista, rappresentata tra gli altri da Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Alexandria Ocasio-Cortez, ha infatti contributo non poco a spostare l’asse del Partito democratico verso sinistra e ad allargare il consenso di Biden nella working class e tra le minoranze. Un aiuto prezioso capace di elaborare le più profonde proposte in campo ambientale e nel settore delle politiche sociali da tutelare e mettere al centro delle prossime agende, magari con il riconoscimento di almeno un ministero da parte di Biden.
Fattori esogeni utili a Biden per rafforzare la sua credibilità e la tenuta di una maggioranza non ampia al Congresso potrebbero poi riscontrarsi nel comportamento dei repubblicani. Fatta eccezione per i fedelissimi non è escluso infatti che la maggioranza del partito possa abbandonare Trump per riprendere posizioni più moderate e dialoganti, utili a riportare il partito su approcci meno estremi e conflittuali. Mitch McConnel, leader repubblicano al Senato afferma di non avere nulla di cui lamentarsi riguardo allo svolgimento delle elezioni, mentre altri big del Grand Old Party come Lindsey Graham e Mitt Romney, già candidato presidente nel 2012, ritengono sbagliate le contestazioni sui presunti brogli elettorali e si dicono pronti a collaborare con Biden. Il partito repubblicano potrebbe quindi spaccarsi tra i seguaci di Trump e i volenterosi di dimenticare la parentesi sovranista.
Infine, un aiuto potrebbe arrivare a Biden dallo stesso Trump. Abile a raccogliere lo scontento e lo smarrimento diffuso nella società, il presidente uscente sembrerebbe se non incapace, quantomeno inadatto, a produrre una cultura di governo che vada oltre l’esercizio del potere. Come la stragrande maggioranza dei populisti, Trump si dimostra scaltro nel raccogliere le proteste senza tuttavia elaborare un’agenda programmatica lungimirante e funzionale a rispondere ai problemi della quotidianità. Il trumpismo potrebbe allora non sopravvivere a sè stesso se incalzato da progetti pronti a spegnere il malcontento che tanto bene cavalca. Disuguaglianze, disoccupazione, fenomeno migratorio e crisi climatica.
In un momento quanto mai incerto per le relazioni internazionali, quando il futuro sembra avanzare sui binari di una profonda battaglia per l’egemonia culturale ciò che è sicuro è solo che la sfida non potrà essere vinta da posizioni centriste.
Una sfida tanto profonda quanto appagante attende Biden e i democratici.
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