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No, non abbiamo un “problema islamico”

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No, non abbiamo un “problema islamico”

“Il dipartimento di Stato degli Usa ha rimosso dalla lista delle organizzazioni terroristiche il Movimento Islamico del Turkestan Orientale.(…) Quello di Washington è un plateale incoraggiamento al separatismo.”[1]

Federico Petroni, analista di “Limes”.

Anche dopo i recentissimi attacchi terroristici di Vienna, chi scrive queste brevi righe a mo’ di “commento a caldo ma fatto a freddo” è arciconvinto che no, l’Europa non abbia un problema “di Islam”.

Ragioniamo sui fatti reali: c’è un Islam europeo e mondiale che non ha mai rotto una vetrina, dalla Malesia alle comunità tartare della Romania o della Polonia, fino alla stragrande maggioranza dell’Islam immigrato nel Vecchio Continente. Ridurre tutto a “Occidente cristiano contro Islam” come vogliono da un trentennio i neoconsevatori su entrambe le sponde dell’Atlantico è il modo migliore non solo per alienarsi un miliardo di musulmani nel mondo e creare lo scontro dove non c’è, ma è anche un modo per appiattire la multiforme identità dell’Europa sul monotema religioso. L’Europa è senza dubbio cristianesimo: ma è anche molto altro, ad esempio tre secoli di cultura secolare.

Oltre a ciò, chi scrive è anche convinto che non abbiamo più nemmeno un problema di jihadismo wahabita/salafita come lo abbiamo avuto per due decenni almeno: troppe sconfitte ha subito sul piano militare e territoriale, e non solo ad opera (sempre con buona pace dei neocon) degli Stati Uniti, ma anche ad opera russa e – udite udite – di un paese musulmanissimo come l’Iran e del suo sforzo in Siria e in Iraq contro il jihadismo di marca sunnita. Per quanto colpi di coda terroristici dell’ISIS continuano ad esserci (e continueranno), sul piano geopolitico l’unico segno di vitalità del jihadismo sunnita è rappresentato da un lato dal suo sciame sismico in Africa – dove però tali formazioni sembrano ridotte a narcoguerriglie non in grado di partire verso la destabilizzazione del mondo e alla volta del jihad globale – nonché dai sempiterni talebani afghani (i quali dell’ISIS sono però nemici e sembrano a propria volta più interessati a consolidare il loro potere in loco). Meno ancora ha l’Europa un problema con l’islam sciita in quanto tale.

È pervicace convinzione dell’autore di queste righe che il nemico dell’Europa (che è strategicamente cosa diversa da “Occidente”) sia di altra natura. In primis, parliamo dell’Islam Politico riconducibile ai mille derivati e licenziatari dei Fratelli Musulmani. In secundis di un nemico più subdolo e semisconosciuto: il nazionalismo panturco.

Visto che chi scrive è assai più cocciuto di una Donna Prassede manzoniana[2], sul secondo tema è in procinto di far uscire un paper sul prossimo numero cartaceo di “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici[3]“. Per riconoscerne la potenza mobilitatrice, basti vedere come attorno al vessillo della solidarietà etnica panturca Ankara ha riunito, lei capitale sunnita, non solo gli azeri sciiti dell’Azerbaigian e dell’Iran ma anche alcune repubbliche secolariste dell’Asia Centrale.

Sul primo è necessario sottolineare un aspetto comunque poco noto ai più: l’origine ideologica. Tanto Hassan al Banna che Sayyid Qutb, i padri fondatori della Fratellanza, non furono immuni da simpatie per il fascismo italiano che vedevano come interessantissimo esperimento di unione tra tradizione e modernità: tale avrebbe dovuto per loto essere l’Islam Politico, ovverosia un tentativo non di modernizzare l’Islam bensì di Islamizzare la modernità. Non sorprende dunque che il tentativo della Fratellanza egiziana negli anni del post-Mubarak di accreditarsi come forza di governo che unisse effettivamente Islam e modernità si è infranto contro la volontà dello stesso popolo egiziano: i casi di maggior successo dell’ideologia dell’Islam Politico da loro inventata sono fuori dal paese del Nilo e vanno dal Marocco alla Tunisia ma soprattutto giungono dalla Turchia di Erdogan. Il leader di Ankara provò – non sappiamo quanto in buona fede e quanto per ottenere appoggio politico dall’UE nei regolamenti di conti interni al potere turco – ad accreditarsi, all’inizio del proprio successo politico, come leader moderato di un centrodestra europeo in salsa turca. L’operazione “accreditamento e legittimazione” portò il suo AKP a tentare un dialogo con il PPE. Anche lì, sappiamo come è andata a finire: oggi l’AKP governa la Turchia con i voti determinati del partito MHP, braccio politico dei Lupi Grigi (movimento di ultradestra il cui fondatore, se non andiamo errati, fu il traduttore in turco del Mein Kampf).

Assistiamo nell’Erdoganismo ad una inquietante saldatura tra l’Islam Politico originato dai Fratelli Musulmani e l’ultranazionalismo panturco: un apparato ideologico estremista e violento con radicamento, ramificazione e capacità di mobilitazione che vanno dal Nord Africa all’Asia Centrale, quell’Asia Centrale dove gli USA hanno da sempre mire antirusse e anticinesi la cui strategia di strumentalizzazione del radicalismo sunnita e panturchista va ne nella stessa direzione del contenimento anti-iraniano. Una miscela esplosiva ed altamente infiammabile della quale, ad oggi, hanno fatto le spese gli armeni e i greci. Un domani, quale altro paese europeo?

Ci chiediamo, alla luce di questo, quanto sia utile ripetersi come fanno i neocon nostrani che i nemici dell’Europa siano Cina, Russia ed Iran. In tal senso, gli interessi dell’Occidente (USA e Israele in testa) non coincidono con le esigenze di sicurezza dell’Europa[4] propriamente intesa. Il rapporto tra Stati Uniti ed estremismo Islamico turco nel Sinkiang ne è solo l’ultima, inquietante prova: furono proprio gli USA ad aprire il vaso di pandora del jihadismo nell’Afghanistan degli anni ’80.

Nel mito greco, il vaso di Pandora non si richiude.


[1] Federico Petroni, Xinjiang o Turkestan?, (rubrica Il Mondo questa Settimana), www.limesonline.com, 12 Novembre 2020

[2]Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care.”

[3] Numero I / 2021 di prossima uscita

[4] A tal proposito non possiamo che rimandare all’ottimo pezzo di Daniele Perra, Un bilancio dell’era Trump, www.eurasia-rivista.com, 9 Novembre 2020

Si è laureato in Economia presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano nel 2011. Dopo un’esperienza di cooperazione in Egitto durante le elezioni parlamentari dello stesso anno, inizia a collaborare con diverse riviste di Studi internazionali («Affari Internazionali», «Eurasia», «ISAG – Geopolitica» e altre). Si occupa di storia ed economia politica nonché di strategia e affari militari con un forte focus sul mondo arabo e islamico e sullo spazio post–sovietico, sia come analista che come appassionato viaggiatore.

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