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La disfatta afghana degli Usa e l’ombra lunga del Vietnam

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La disfatta afghana degli Usa e l’ombra lunga del Vietnam

Anni fa, mentre preparavo la bibliografia per la mia tesi di laurea, mi ritrovai a tra le mani un libro pubblicato nel 1990. Si trattava di una raccolta di saggi intitolata Vietnam: Four American Perspectives in cui si commentavano i risultati della guerra condotta dagli Stati Uniti contro il Nord Vietnam. All’interno erano presenti contributi da parte di esperti e figure di rilievo direttamente coinvolte nella vicenda, tra cui il Generale William Westmoreland ed il politologo Edward Luttwak. Seppur in modi diversi entrambi gli uomini affermavano che una delle principali cause della sconfitta americana in Indocina era stato il boicottaggio dello sforzo bellico statunitense da parte del movimento pacifista in patria. La protesta aveva infiammato l’opinione pubblica, mobilitando una massa di cittadini mai vista dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, al punto che i moti erano traboccati oltre confine coinvolgendo anche nazioni storicamente alleate degli Stati Uniti. Era opinione di Westmoreland che l’opposizione in casa aveva contribuito in maniera decisiva alla sconfitta all’estero, nonostante un enorme dispendio di uomini e mezzi.

Quando all’epoca lessi le due testimonianze le interpretai ingenuamente come il pensiero di due falchi incapaci di ammettere l’incompetenza della leadership americana e dei suoi quadri militari. La tragedia che va oggi in scena in Afghanistan mi ha invece spinto a recuperare quel testo, in quanto percepivo l’inquietante somiglianza nel risultato finale dei due conflitti. Rileggere le parole di Luttwak e Westmoreland nell’ottica del presente mi ha portato a riflettere su quale sia una tara ricorrente della strategia di sicurezza nazionale americana post Vietnam. Mi riferisco alla semplicità con cui la leadership politica americana subordina i propri interessi strategici agli appetiti dell’opinione pubblica. Questo fenomeno si è talmente radicato nel sistema politico americano da diventare un problema imbarazzante. Una politica estera e di difesa assoggettata ai brontolii della pancia della nazione, piuttosto che fondata su di una programmazione logica e razionale, non può che portare a tremendi disastri, come le guerre di Vietnam, Iraq e Afghanistan ci hanno dimostrato. L’impressione è che i decisori a Washington siano caduti in una spirale autodistruttiva dalla quale fatichino ad uscire.

Nel 2001, sull’onda degli eventi dell’11 settembre, gli americani fecero armi e bagagli e partirono per far guerra ai Talebani, rei di aver dato ospitalità al loro nemico giurato Osama Bin Laden. Pochi mesi dopo l’Emirato Talebano dell’Afghanistan fu rovesciato ed ebbe così inizio, nonostante le smentite, il processo di nation building della nuova nazione afghana, sotto la tutela dell’alleanza occidentale.

Sono passati vent’anni e la promessa non è stata mantenuta. I Talebani sono ritornati al potere, ancora più forti e assetati di vendetta per l’umiliazione subita. Gli americani invece stanno abbandonando il campo lasciando a sé stessa la popolazione afghana, che vede ora spazzate via le prospettive di cambiamento intraviste in questi lunghi anni di tutoraggio straniero. I diritti e le risorse conquistate dagli afghani con il sangue di migliaia di vite stanno svanendo di fronte alla furia vendicativa degli studenti coranici. Il presidente americano Joe Biden ha fatto intendere nei suoi recenti discorsi che la principale motivazione del ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan risiede nella volontà del popolo americano di mettere la parola fine al capitolo delle long wars giudicate troppo logoranti per quella che Biden stesso ha definito la spina dorsale dell’America.

I fatti turbolenti di Kabul mi hanno riportato alla mente le parole di Luttwak e Westmoreland, che con le loro riflessioni mettevano a nudo una falla dell’approccio americano a questo tipo di campagne militari: l’incapacità della dirigenza politica U.S.A. di conciliare razionalmente gli obbiettivi strategici con e gli umori della propria opinione pubblica senza perdere legittimità.

Se gli Stati Uniti avessero agito in maniera ponderata al fine di eliminare definitivamente la minaccia talebana invece di cercare di soddisfare rapidamente la loro sete di vendetta oggi forse vedremmo una nazione libera dall’oscurantismo dei Talebani. Gli afghani sono ora costretti a scegliere tra la fuga dalla loro terra natia e la sottomissione ad un regime oppressivo. Per anni erano stati vessati sotto gli occhi del resto del mondo senza che nessuno venisse in loro soccorso, finché gli attentati del World Trade Center non avevano risvegliato il gigante americano. Purtroppo l’inaspettata fragilità della leadership globale americana ha impedito che si arrivasse ad attuare profondi programmi di sviluppo per risollevare la nazione afghana.

Come giustamente afferma  il Professor Fabrizio Coticchia sarebbe necessario che le classi dirigenti occidentali investissero risorse in un’approfondita analisi di questo conflitto, per meglio comprendere i motivi di questo fallimento e quali lezioni si potrà trarne in ottica futura.

Laureato in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano, ha conseguito un Master di Primo Livello in Middle Eastern Studies presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Studioso di storia contemporanea e appassionato di studi strategici, i suoi interessi spaziano dalla Prima Guerra Mondiale alle moderne security policy dell’area MENA.

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