La morte rimossa e la tragedia dell’individualismo narcisista
La ricorrenza della Giornata dei Defunti ci invita a riflettere sul rapporto tra noi, uomini del presente, e la morte. In una fase in cui sembra quasi che la possibilità di un biotestamento e lo stesso “diritto a decidere” siano rivendicati non tanto per le loro decisive implicazioni mediche, ma bensì per la possibilità di poter controllare, in anticipo, le redini del proprio destino e poter far sentire la propria voce in un capitolo inconoscibile come quello della nostra stessa fine, un discorso globale sulla morte è sempre più complicato.
Nei giorni di fine 2017 in cui in Italia entrava in vigore la legge sul biotestamento Il Giornale ha pubblicato ampi stralci della lettera che monsignor Gianfranco Ravasi scrisse su Indro Montanelli poco dopo la sua morte, e i cui contenuti risultano oltremodo interessanti in relazione al tema in materia. Ravasi scrisse: “Nei suoi scritti accennava spesso a quel corollario che è il gorgo oscuro della depressione da cui era stato in certi momenti attratto e catturato. In questa luce acquista particolare valore il discorso sulla dignità del morire. Perché non tagliare in modo deciso e reciso il nodo della morte indegna? La domanda merita una risposta. […] Si profonde più nella cura della malattia che non nella cura del malato. Il risultato non è la guarigione ma un prolungamento del processo patologico che si configura quasi in un’estensione agonica. Si delinea così la necessità della determinazione di una sorta di etica del morire, di una carta dei diritti del morente […]Tanti medici fanno notare che il cosiddetto «testamento biologico» è steso in tempi esistenzialmente diversi: si è seduti, ancora sani e «benestanti» e forse si esorcizza la paura della morte col ricorso al taglio netto e immaginato come ovvio e facile dell’eutanasia «attiva». Quando però si è in quella galleria oscura, il seme mai inaridito della speranza affiora”.
Il tema della morte è da sempre considerato il principale shock con cui un Io si deve confrontare. In tutte le società la morte è un grande problema con cui l’uomo deve misurarsi: la risposta tradizionale è stata religiosa o parareligiosa, alcune società hanno rimandi all’aldilà più (cristianesimo) o meno (Islam, confucianesimo) dettagliati, altre invece credono nella metempsicosi. I Greci avevano sviluppato una concezione quasi “filosofica”; la costruzione cristiana, molto dettagliata, vincola il giudizio nell’aldilà al comportamento nell’aldiquà, sulla base dell’assunto circa l’eternità dell’anima. L’uomo occidentale, formato dal pensiero cristiano, ha elaborato il lutto nell’aldiquà sulla base della speranza che, nell’aldilà, esista la possibilità di una vita eterna.
Solo il diffondersi di filosofie materialiste da Hevelius e Feuerbach in avanti (Marx, Darwin e così via) portò a un contenimento dell’influenza della dottrina cristiana.
Il tema della morte è stato via via sostituito da vere e proprie “religioni civili”: la sopravvivenza individuale dell’Io viene così garantito dalla sopravvivenza del Noi, identificato molto spesso nella Patria. Si cerca una compensazione al rischio della morte attraverso l’eternità della memoria; queste versioni laicizzanti dei culti religiosi non hanno però avuto vita lunga, sbiadendo mano a mano che il culto della Patria è venuto meno. Lo stesso destino hanno avuto i tentativi di sostituire la “classe” alla Patria: il Novecento ha scoperto il disincanto delle religioni civili laicizzanti.
Si arriva a un contesto in cui è sempre meno facile parlare del rapporto tra l’uomo vivo e la morte in un’epoca che ha respinto la morte dal discorso collettivo in maniera radicalizzante. L’individuo della società globalizzata rimuove l’idea della morte e con questa quella di futuro, vivendo in un presente eterno. Anche l’invecchiamento, anticamera della morte, comincia a fare sempre più paura. L’uomo della globalizzazione punta a “fermare Luna e Sole su Gabaon”, pretendendo di cristallizzare il tempo: ciò porta a reputare insopportabile l’idea di un futuro senza il Sé.
Questo perché, fondamentalmente, il presentismo di cui è vittima la nostra società, e da cui sono patologicamente colpite le nostre élite cozza con una contraddizione apparentemente lacerante: la contraddizione secondo cui, come scriveva Joseph Ratzinger in Der Gott Jesu Christi nel 1976, è l’illogicità della morte a dare senso alla vita stessa e la contraddittorietà propria della morte stessa sprona noi, esseri umani, a immaginare la nostra esistenza come un continuo, non focalizzata su un presente fine a sé stesso. A pensare a un “Noi” dopo le nostre esistenze. In ultima istanza a vivere, non semplicemente a sopravvivere
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