La Turchia e i cristiani perseguitati: due questioni inscindibili per la diplomazia italiana
L’Osservatorio presenta oggi una conversazione con l’onorevole Paolo Formentini, esponente della Lega e vicepresidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati. Bresciano, classe 1980, Formentini è in Parlamento dal 2018 e con lui conversiamo oggi di due questioni di rilevanza strategica: i rapporti tra l’Italia e la Turchia, ambiguo alleato in orbita Nato divenuto spesso rivale strategico del nostro Paese, e la tutela dei cristiani perseguitati nel mondo, a sostegno dei quali l’onorevole ha promosso nel corso della sua esperienza parlamentare l’introduzione di un fondo ampliato dopo la recente Legge di Bilancio. Alla luce delle problematiche sorte dopo la crisi del Nagorno-Karabakh, in cui la Turchia ha sostenuto l’alleato azero, oggigiorno le due questioni sono difficilmente scindibili.
Onorevole Formentini, recentemente in un’audizione alla Commissione Esteri della Camera avete ricevuto l’ambasciatore turco in Italia, Murat Selim Esenli e ha avuto occasione di metterlo di fronte alle problematiche che dividono Roma e Ankara. Come si può trovare un modus vivendi con la Turchia, senza ambiguità, di fronte a tanti fattori di contrapposizione?
All’ambasciatore ho detto quello in cui credo e parlato delle questioni più evidenti. In Commissione Esteri ho presentato dei temi come la questione dei cristiani del Nagorno-Karabakh, la necessità di mediare la contrapposizione nel Mediterraneo Orientale e i rischi legati al tentativo turco di espellere l’Italia da aree di rilevanza strategica, proclamando acque territoriali senza alcun rispetto per il diritto internazionale. Analogamente in Libia avviene lo stesso, con il governo di Tripoli che è stato fatto slittare gradualmente verso la Turchia.
Si pone in sostanza, un problema di coesistenza con la Turchia, Paese che è al tempo stesso concorrente geopolitico e partner economico, nel quadro dell’Alleanza Atlantica, in questo contesto?
Parto da un presupposto: nel quadro dell’intervento in Commissione Esteri non ho voluto citare i rapporti commerciali. Come con la Cina, anche per la Turchia ritengo che non debbano essere queste le questioni su cui focalizzarsi. O meglio, non devono essere solo queste a dettare l’agenda, facendo venire meno qualsiasi spinta a difendere i nostri valori, i nostri principi democratici. Portandoci ad esempio a essere sordi di fronte a quello che è avvenuto e sta avvenendo in Nagorno-Karabakh.
Si può fare un parallelismo tra Ankara e Pechino. Ad esempio, ritengo sia stato un problema legare i futuri rapporti dell’Europa con la Cina all’accordo commerciale CAI, criticato fortemente anche dalla nuova amministrazione americana. In questo campo ritengo si farà sentire in particolar modo la voce del segretario di Stato Anthony Blinken, che ha annunciato di voler mantenere un approccio forte con la Cina e di ritenere rischioso il fatto che l’Europa abbia firmato, quasi nel silenzio, un grande accordo commerciale con Pechino. Questo per dire, arrivando alla Turchia, che anche con Ankara non possiamo essere sordi e limitarci ai rapporti economici. Anzi, andando oltre oggi possiamo ricordare che noi e la Turchia siamo nella stessa alleanza militare, al cui interno la posizione di Ankara è poco chiara.
Una Turchia che è abilissima a giocare su più fronti…
Esatto. Intrattiene un forte dialogo con la Cina, si rivolge alla Russia per le forniture militari ed acquista da essa sistemi d’arma moderni come i missili per la contraerea. Quindi, dovremmo chiederci qual è il vero calcolo della Turchia. Si tratta di pura opportunità politica? Nel caso, dovremmo ricordarci che la Nato è un’alleanza non solo militare ma anche politica che si fonda su una serie di valori comuni. Sono compatibili il sogno neo-ottomano di Erdogan, i suoi ricatti sui migranti all’Unione Europea e il proseguimento di un dialogo con l’Europa e i suoi alleati? C’è qualcosa che non torna.
E potremmo dire lo stesso anche della questione delle minoranze etniche e religiose, non trova?
Un dialogo tra la Turchia e i Paesi europei è difficile da sostenere finché assistiamo a casi come il martirio del Nagorno-Karabakh e dalla marginalizzazione delle minoranze. O la Turchia esplicita la propria scelta a favore del campo democratico o si crea un problema. Certamente oggi il tema non è più se la Turchia possa entrare o meno nell’Unione Europea, questione chiusa da tempo, ma si concentra sul futuro di Ankara nella Nato.
Lei ha citato il caso della minaccia per i cristiani del Nagorno-Karabakh/Artsakh dopo la guerra tra l’Azerbaijan, alleato della Turchia, e l’Armenia. Ritiene reale la minaccia di “genocidio culturale” che recentemente la Santa Sede di Etchmiadzin, che ha stabilito un dipartimento per la preservazione del patrimonio cristiano in Artsakh, ha ventilato ad ACI Stampa?
Si, in Nagorno-Karabakh adesso i russi stanno proteggendo i luoghi di culto armeni, e si può tracciare un parallelo con quanto fatto in Kosovo dai nostri militari a tutela dei luoghi di culto e dei monasteri serbo-ortodossi. La stessa cosa si sta verificando in Nagorno-Karabakh, terra ricca di monasteri, chiese, cimiteri che rappresentano un’identità profonda. L’Armenia è stata la prima terra a diventare ufficialmente cristiana, poco dopo il 300 d.C. Personalmente e come membro del partito che si è battuto perché l’Italia riconoscesse ufficialmente il genocidio armeno, ritengo che non possiamo essere insensibili su questo tema.
Voglio sottolineare che alla solidarietà sono seguiti gesti concreti: il movimento giovanile della Lega a Natale ha promosso una raccolta fondi perché i bambini del Nagorno-Karabakh potessero trascorrere delle festività serene e ricevere conforto materiale.
La guerra e le grandi dinamiche del presente creano caos. Il Nagorno-Karabakh, come la Siria, insegna: le divisioni create tra popoli che hanno convissuto fianco a fianco diventano un vero e proprio “instrumentum regni”…
Cosa insegnano Paesi come la Siria e il Libano al Nagorno-Karabakh? La lezione più dura è quella di un trend demografico che vede il numero di cristiani in calo da tempo in tutto il Medio Oriente sulla scia di guerre e tensioni interne. Non si può dunque non lanciare un grido di allarme e di dolore. Se pensiamo che addirittura in Siria la lingua delle comunità cristiane nella liturgia è l’aramaico, la stessa usata da Gesù, non possiamo non riflettere sul valore della difesa delle nostre radici. E questo dovrà diventare un tema importante di dibattito per il futuro della Nato, alleanza che a mio parere deve prendere consapevolezza dei comuni valori politici che devono unire i suoi membri. La Nato deve interrogarsi necessariamente sulla difesa della libertà religiosa, il diritto fondamentale dell’uomo meno riconosciuto e meno in voga nelle discussioni politiche e nei media mainstream. Questo per noi è un diritto di libertà su cui l’Occidente non può non impegnarsi perché venga rispettato.
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