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Individualismo o collettivismo?

Individualismo o collettivismo?

All’interno del paradigma politico moderno difficilmente può essere individuata una contrapposizione categoriale più generale e determinante del binomio individualismo-collettivismo. Seguendo questa forma di discorso quindi, ogni teoria politica si caratterizzerebbe, innanzitutto, per il suo fondamento o individualista o collettivista, senza alternative possibili. Quasi altrettanto rilevante è il fatto che la corrente principale di questa tradizione di pensiero, ossia quell’insieme piuttosto eterogeneo di esperienze politiche e intellettuali riconducibili sotto l’insegna del «liberalismo», elevandosi sostanzialmente a sinonimo della modernità, ha costruito la propria auto-percezione proprio attraverso l’opposizione fra individualismo e collettivismo, distinguendo tra una modernità individualista ed un passato, o un altrove, collettivisti.

L’individualismo come “libertà dei moderni”

L’esempio più scontato, vista la risonanza di cui l’opera ha goduto, è il discorso di Benjamin Constant all’Ateneo di Parigi (1819), in cui dichiara conclusa l’epoca in cui gli uomini si sottomettevano interamente al potere collettivo per acquisire sovranità sugli affari pubblici e proclama l’inizio di una nuova forma di libertà, la libertà dei moderni appunto, che consiste al contrario proprio nel mantenere quanta più autonomia possibile da quel potere. Sulla spinta di questa narrazione si è profondamente radicato in Occidente, ben più di quanto si riconosca, un abito mentale che squalifica come regressiva o arretrata qualunque distanza dall’individualismo. Anche in questo caso disponiamo di un esempio eccellente ne «La società aperta e i suoi nemici» di Karl Popper (1945); qui l’epistemologo austriaco altro non fa che proporre una semplice deduzione: se il progresso si misura dal grado di acquisizione di libertà individuale, i sistemi collettivistico-totalitari nati al culmine del processo storico europeo non possono nascere che dalla nostalgia del passato tribale. Contrapposizione, quella tra individualismo e collettivismo, dunque netta, dirimente, essenziale.

Una contrapposizione problematica

Nel presente articolo, ed in quelli che seguiranno, cercheremo di ribaltare l’impostazione della questione sopra esposta. Entrambi gli assunti alla base della presunta alternativa teorica tra individualismo e collettivismo verranno sottoposti ad una critica radicale, mostrando così in primo luogo che il conflitto tra i due termini sia da intendersi più come complementarità che come reciproca esclusione, in secondo luogo come collettivismo ed individualismo rappresentino un’unità particolare, che non esaurisce in alcun modo il campo delle alternative possibili. Lungi dall’essere, soggettivamente, una categorizzazione esplicativa e quindi, oggettivamente, una differenza tra opposte architetture sociali, la dicotomia individualismo-collettivismo verrà qui rifiutata in quanto “sviamento” che ha tanto limitato la capacità della modernità di comprendere l’altro da sé quanto minato la possibilità reale di superamento del capitalismo.

Come intendere “individualismo” e “collettivismo”

Partiamo con il definire in modo preliminare i termini della questione. Con “individualismo” intenderemo il riconoscimento universale della libertà per i singoli di scegliere, senza ingerenze e coercizioni da parte di una autorità esterna, i fini del loro agire, pubblico o privato che sia; da questa concezione derivano il principio metodologico per il quale la società è da considerarsi sempre e soltanto come risultante dell’interazione tra individui e il principio assiologico che vede nella salvaguardia dell’autonomia individuale la funzione, pressoché unica, della politica e dell’organizzazione sociale. Definiamo invece “collettivismo” l’affermazione del primato della totalità sulle parti e differenziamo, anche in questo caso, tra il presupposto metodologico, per cui individuo e collettivo sono concepiti come organismi dotati di nature diverse, e il presupposto assiologico, in base al quale qualunque tensione fra interesse individuale e collettivo debba risolversi a favore del secondo.

Lo schema logico della società moderna

Apparentemente la tesi dell’opposizione tra individualismo e collettivismo sembra sin qui confermata, ma ad uno sguardo più attento è possibile far emergere dalle definizioni fornite uno schema logico comune. Entrambi i concetti condividono infatti una rappresentazione del mondo sociale come scisso tra individui e collettivo; per quanto evidente e innocua possa sembrare, una separazione di questo tipo porta con sé la nient’affatto scontata implicazione che vede i singoli astratti dalla loro collocazione sociale (è questo il significato più proprio di “individuo”) e la collettività pensata solo come comunità universale impersonale. Da questa scissione originaria collettivismo e individualismo procedono solidalmente nel distinguere tra una sfera privata della libertà, ossia un agire individuale mosso dal desiderio e dall’interesse privato e teso all’estensione della propria autonomia, ed una sfera pubblica dell’utilità, retta invece dal principio di autoconservazione dell’organizzazione sociale. L’affinità tra i due concetti non si ferma però alle sole premesse, ma coinvolge profondamente anche l’ambito delle conseguenze, affermando specularmente l’impossibilità di conciliazione razionale tra individuo e collettivo. L’individualismo, per parte sua, attribuisce agli uomini una ben ridotta capacità cognitiva ed emotiva di occuparsi del bene comune e ne trae il precetto secondo cui l’amministrazione della sfera pubblica debba consistere essenzialmente nella creazione di regole e istituzioni che facciano sì che gli individui, agendo nell’ambito della loro sfera privata di libertà, finiscano per partecipare al perseguimento dell’interesse collettivo; non a caso l’individualismo eleva il mercato a paradigma generale dell’interazione sociale, giustificando in tal modo la possibilità che gli individui, senza alcuna intenzione o pianificazione razionale ma “come condotti da una mano invisibile”, generino allo stesso tempo una situazione sociale ottimale. Il collettivismo, d’altra parte, ritiene che il singolo possa partecipare al bene comune solo divenendo strumento, in forma spontanea o coatta, di una volontà generale che determina autonomamente i propri contenuti; anche in questo caso gli uomini non sarebbero immediatamente in grado di rendersi agenti della totalità, ma lo diventerebbero solo attraverso il loro disciplinamento da parte dell’organizzazione sociale. Come si può ben vedere qualunque sia il nostro punto di partenza, non vi è alcun collegamento tra sfera individuale e collettiva, ma solo un “salto” che lascia ciascuna dimensione seguire la sua logica specifica: per l’individualismo il perseguimento dell’interesse privato si traduce in pubblica utilità; per il collettivismo l’organizzazione sociale, amministrando gli strumenti a disposizione in funzione della sua perpetrazione, neutralizza la volontà privata. Pertanto entrambe le istanze, in definitiva, ammettono che la volontà individuale sia fatalmente costretta tra i confini angusti del suo orizzonte particolare, mentre quella collettiva prescinde da essa nello stabilire le forme dell’azione/interazione umana. Quest’ultimo punto, che potrebbe apparire particolarmente problematico in relazione all’individualismo, verrà approfondito in sede di conclusione.

Perché lo “schema logico della società moderna” è fuorviante?

Se la precedente argomentazione potrebbe essere ritenuta sufficiente come prova dell’affinità “logica” tra individualismo e collettivismo, essa non ci dice ancora molto sul carattere fuorviante di tale schema, né ci permette di escludere che i due concetti siano tra loro incompatibili. Potrebbe, al contrario, darsi il caso che la suddivisione concettuale della società in individui e collettivo rappresenti una fortunata acquisizione del pensiero moderno, attraverso la quale sia divenuto possibile mettere in luce le due architetture secondo cui una società può prendere forma.  Ma una tale caratterizzazione è effettivamente esplicativa? Ritornando ad esempio a «La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni», possiamo constatare come la tesi di Constant sia, da un punto di vista storico, grossolanamente errata. Le forme di negazione della libertà individuale riconosciute dal filosofo francese come peculiarità del passato pre-moderno, quali la persecuzione religiosa o la regolazione minuziosa dei costumi, noi sappiamo essere pressoché estranee al mondo greco (e romano), quando non materialmente irrealizzabili per l’epoca (non esistendo allora apparati o strumenti di sorveglianza). Se è possibile individuare un tratto di quelle civiltà che risulterebbe insopportabile per una coscienza contemporanea, non è certamente la pervasività della normazione da parte del potere pubblico, che appare molto più il frutto di istituzioni e processi moderni, quanto semmai la sua assenza; sarebbero cioè la discrezionalità con cui il capo famiglia poteva disporre di figli e mogli o l’esistenza precaria a cui erano abbandonati gli appartenenti ai ceti non abbienti ad essere distanti dall’esperienza dell’uomo di oggi, abituato com’è a vivere all’interno di una ben definita rete giuridica di diritti, doveri, tutele e procedure. Il tentativo dunque di leggere l’antichità secondo le categorie di individualismo e collettivismo è condannato a fallire, perché essa risulterebbe un miscuglio incoerente di elementi riconducibili all’una e all’altra. È opportuno ribadire che la ragione fondamentale di tale fallimento, prima ancora che nell’ambiguità di una nozione che distingue tra la tutela della libertà del singolo e quella dell’interesse dell’insieme, consiste nell’inadeguatezza della scissione tra singoli uomini spogliati della loro posizione sociale da una parte e dall’altra una collettività di cui si oscurano la morfologia delle comunità intermedie, le gerarchie interne e le contraddizioni.

Non è solo l’interpretazione del passato e dell’altrove a risentire della debolezza teorica di quello che abbiamo definito schema logico moderno, ma è la stessa realtà politica contemporanea ad essere continuamente trasfigurata da un discorso che, pensando solo in termini di individuo asocializzato e collettività anonima, produce false antinomie, come quella tra stato e mercato o tra pubblico e privato, e trasfigura i rapporti di potere che percorrono la nostra società, traducendoli formalmente in (libere) relazioni tra individui.

La complementarietà di individualismo e collettivismo

A conclusione di questo primo articolo occorre esplicitare in che senso individualismo e collettivismo si contengono reciprocamente e dunque configurano nella prassi un modello sociale che, partendo da un presupposto di un certo tipo, produce allo stesso tempo anche il suo opposto. Il punto di partenza di questa dinamica è, ancora una volta, l’incapacità di entrambe le istanze di superare quella che MacIntyre, in «Dopo la virtù», definisce efficacemente come «[l]a biforcazione del mondo sociale contemporaneo in una sfera dell’organizzazione (…) e in una sfera personale». Prendendo in considerazione l’individualismo, si è visto che la tutela della libertà individuale è considerata anche la miglior forma di perseguimento della pubblica utilità. Questo tuttavia non si deve al fatto che l’interesse personale si orienterebbe, per così dire, naturalmente al bene dell’insieme. Questa circostanza è anzi negata per due ordini di ragioni: in primo luogo il riconoscimento dell’autonomia degli individui si identifica con la possibilità incondizionata di determinare i fini del proprio agire e quindi lascia aperta l’eventualità che le loro scelte possano finire in contrasto con quello che è considerato pubblicamente il «bene» (bene comune, bene morale ecc.); in secondo luogo si è osservato che l’individualismo ha come presupposto antropologico un certo pessimismo circa le capacità degli uomini di pensare in termini di totalità, da cui si deduce che, anche se gli individui lo volessero, la pianificazione razionale della società avrebbe comunque un esito peggiore del suo sviluppo spontaneo. Riassumendo, la tutela della libertà personale implica il suo alleggerimento dall’onere di occuparsi della sopravvivenza dell’insieme, ma la caratterizzazione della volontà individuale contempla allo stesso tempo che essa possa rivolgersi contro le altre volontà e contro lo stesso collettivo. Pertanto l’individualismo ammette che la tensione potenzialmente distruttiva della libertà personale vada disinnescata attraverso un sistema di regole e controlli che avrà come compito quello di garantire che le relazioni sociali si svolgano su un piano di equità, ossia di uguaglianza formale; da un punto di vista logico, però, tanto la decisione originaria su principi e regole tanto l’amministrazione del corpo sociale non possono essere pensate come scaturenti dall’iniziativa individuale, ma come immanentemente determinatesi nell’amministrazione stessa (di qui le varie teorie del contratto, della rappresentanza, della sovranità della costituzione ecc.). In seno alle teorie, e alle società, individualiste finisce così per consolidarsi un bizzarro sodalizio che, seguendo nuovamente MacIntyre, si può descrivere come «individualismo burocratico» e che porta gli uomini a percepire passivamente la società come una «seconda natura», ossia una realtà indipendente ed indifferente alla loro volontà, omaggiando in questo modo il principio metodologico collettivista dell’irriducibile differenza ontologica tra individuo e collettivo. Non del tutto diversamente il collettivismo nega che il singolo possa liberamente stabilire un rapporto non accidentale e stabile con il bene comune. Per questa ragione la sua partecipazione alla vita pubblica consiste nel suo sacrificio in quanto singolo e nella sua identificazione con la funzione di esecutore della volontà generale, di volta in volta determinata dal vertice del potere burocratico. Se dunque il perseguimento dell’interesse collettivo non può essere altro che il rispetto di questa disciplina, la libertà è da considerarsi come il residuo d’azione con cui l’individuo, una volta assolti i suoi doveri verso l’autorità, è legittimato a curare il suo interesse privato. Questo è l’omaggio che il collettivismo rende alla «libertà dei moderni», al credo individualistico secondo cui la libertà inizia  quando finisce l’impegno politico.

Un’origine comune: il potere burocratico

Senza l’intenzione di appiattire in forma assoluta le differenze presenti tra sistemi politici di impianto collettivista e di impianto individualista, si è cercato di mostrare in questa sede il modello sociologico comune che essi presuppongono. Questo modello deve essere posto dialetticamente in rapporto con il processo materiale attraverso cui i poteri burocratici moderni hanno infiltrato e dissolto tutte quelle comunità di mezzo che mediavano la loro attività di disciplinamento degli individui. Individualismo e collettivismo diventano quindi categorie esplicative solo in un contesto sociale moderno e solo se concepite in una relazione tanto antagonistica quanto complementare. Per questa ragione la vera alternativa disponibile alla modernità non è fra individualismo e collettivismo, ma tra individualismo/collettivismo da una parte e comunitarismo dall’altra.

Nato a Reggio Calabria, classe 1990, è dottorando in Filosofia presso la Goethe Universität di Frankfurt am Main. La sua attività di ricerca ha come principale focus la teoria politica ed è particolarmente rivolta all’analisi della categoria di totalitarismo nel suo rapporto con la modernità.

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