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Tutte le fake news dei cacciatori di fake news. Il commento di Fulvio Scaglione

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Tutte le fake news dei cacciatori di fake news. Il commento di Fulvio Scaglione

Così è (se vi pare), scena prima, parte prima. Siamo nel giugno 2020, il Washington Post spara la notiziona: la Russia ha pagato i talebani perché, a partire dal 2018, uccidessero soldati americani in Afghanistan. A ruota arriva il New York Times: titolare del programma di assassini prezzolati sarebbe l’Unità 29155 del Gru, i servizi segreti militari russi. E siccome siamo agli inizi della campagna elettorale Usa, si aggiunge: Donald Trump lo sapeva già da febbraio ma non ha detto né fatto nulla. Sottinteso: perché è una marionetta di Putin. Ovviamente Joe Biden ci si butta a pesce: “”Non capisco perché questo Presidente non sia disposto ad affrontare Putin che paga taglie ai taliban perché uccidano soldati americani in Afghanistan”, dice durante il dibattito presidenziale del 22 ottobre. Altrettanto ovviamente la notiziona viene riversata tal quale da tutti (o quasi) i media della provincia italiana.  

Scena prima, parte seconda: aprile 2021, sono le stesse agenzie americane, militari e della sicurezza, a smentire la storia che merita, secondo loro, “low to moderate confidence”. La Nbcn, una delle Tv più accanite nell’inseguire la storia, traduce così: “Nel gergo dell’intelligence, una moderata fiducia significa che le informazioni sono plausibili e provenienti da fonti credibili, ma non abbastanza corroborate da meritare una valutazione più alta. Una bassa confidenza significa che l’analisi è basata su informazioni discutibili o non plausibili – o informazioni troppo frammentate o scarsamente confermate per trarre conclusioni solide. Può anche riflettere problemi con la credibilità delle fonti”. Nel linguaggio dei più raffinati centri studi si direbbe: balle, cucche, storie, favole.

Nessun paragone, nella provincia dell’impero, tra il risalto dato alla prima notizia (le taglie ai talebani) e quello, nullo, dato alla seconda (non era vero).

Così è (se vi pare), scena seconda, parte prima: un gruppo di hacker manda in tilt il più grande oleodotto Usa, quello della Colonial Oil che corre dalla costa Ovest a quella Est. Due giorni dopo il fatto, un noto giornalista italiano, più volte direttore, commentatore di fatti internazionali su quotidiani e Tv, scrive che si tratta dell’ennesimo attentato alle economie democratiche da parte di Stati autocratici. Cina o Russia, par di capire. Scena seconda, parte seconda: altri tre giorni e sono proprio i dirigenti della Colonial ad annunciare che la crisi è stata superata pagando agli hacker, un gruppo noto per le sue “prodezze” chiamato Dark Side, la somma di 5 milioni di dollari. Criminali comuni, quindi. Tanto che poco dopo lo stesso gruppo di pirati informatici rivolge le proprie mire al gigante giapponese Toshiba, e nessuno parla di potenze maligne in azione. Vi risulta che qualcuno abbia detto: ok ragazzi, scusate, ho preso un granchio?

Così è (se vi pare), scena terza, parte prima e seconda: maggio 2021, la Giustizia spagnola chiude l’indagine, durata tre anni, sulle presunte interferenze russe nella crisi della Catalogna, interferenze che avrebbero dovuto acuire i sentimenti separatisti della regione. È la stessa procura a chiederlo, giudicando l’indagine basata su illazioni giornalistiche. Balle, cucche, storie, favole. Quanti articoli avete letto in questi anni in cui si dava per scontato che la Russia ordisse trame anche in Catalogna? E quanti ne avete letti in questi giorni, per dire: meno male, pericolo scampato, la favola era proprio una favola?

Non si tratta, qui, di difendere la Russia o i suoi servizi segreti. Fsb, Gru e compagnia bella sono pagati per fare anche cose brutte e ignobili, proprio come tutti i servizi segreti del mondo. Ed è certo possibile che conducano campagne di infiltrazione, spionaggio e disinformazione, anche qui come tutti i servizi segreti del mondo. Abbiamo già dimenticato Edward Snowden? O crediamo che i tanti successi dei servizi segreti italiani in Medio Oriente e in Africa siano dovuti solo alla tradizionale simpatia italica?

No, qui parliamo di informazione. E di quelle fake news che tanto preoccupano… i diffusori di fake news. Come quelle sopra citate. Perché non v’è dubbio alcuno che si tratti di fake, pari a quelli che possiamo leggere nei siti complottisti o nelle elucubrazioni di questo o quel blogger. La differenza sta nelle patenti, nel brand, nel marchio di autorevolezza: una grande testata o un giornalista famoso non dovrebbero avere qualche cautela in più? Non ricade su di loro, che hanno mezzi di gran lunga superiori a quelli di un qualunque blogger, una responsabilità maggiore?

Succede invece il contrario. C’è una complicità sempre maggiore tra i cosiddetti “cani da guardia del potere”, giornalisti e intellettuali, e gli strumenti che il potere (legittimamente) usa per perpetuare se stesso. Resto alla Russia perché è un tema che conosco più di altri temi. Quante volte, in questi ultimi anni, abbiamo letto articoli del New York Times o del Washington Post (quasi sempre tradotti, un poco editati e riproposti dai nostri media “ufficiali”) così strutturati: una fonte dei servizi segreti, che non possiamo nominare, ci ha detto che… E questa cosa detta dai servizi segreti veniva presentata come un fatto, una verità. Senza il minimo contraltare, senza verifica alcuna. Come se le spie non avessero tra i compiti istituzionali anche quello di mentire.

Ma da quando una spia è una fonte affidabile? Uno dice: e allora i Pentagon Papers nel 1971? Certo, ma c’erano 7 mila pagine di documenti. E il Watergate nel 1972? Certo, ma lì arrivo nel 1973 John Dean, consulente legale della Casa Bianca, che al Senato vuotò il sacco temendo di diventare il capro espiatorio di Nixon. Qui cosa c’è? Il nulla. Voci riportate (se è vero) da spie pronte a mentire su fatti che nessuno comunque si preoccupa di verificare. Una panna montata da buttare, hic et nunc, negli occhi del pubblico. Verrà smontata tra tre mesi, sei mesi, un anno dopo? E chi se ne frega! Nessuno lo saprà, visto che chi dovrebbe informare su questo è lo stesso che disinformava su quello.

Si diceva della Russia. Ma l’intero sistema informativo è così combinato, a prescindere dall’argomento. In un senso o nell’altro, funziona sempre allo stesso modo. La Russia è cattiva? Allora prendiamo Israele, che ormai gode del favore di quasi tutti i media. Nei giorni dell’ennesimo conflitto con i palestinesi, abbiamo ascoltato molti bollettini di guerra. Bollettini che sono di una parte sola, Israele. Quando l’ufficio stampa delle forze armate israeliane dice “abbiamo eliminato sedici capi di Hamas”, chi lo dice? Un ufficio demandato alla propaganda. Che non dice, per esempio, se per eliminare quei sedici sono stati falciati anche cinquanta civili o venti bambini. E poi, chi dice che fossero sedici? Che fossero capi di Hamas? Perché tutto questo viene pubblicato e diffuso come se, in automatico, fosse vero? Perché nessuno si preoccupa di verificare, di ascoltare anche il parere dell’altra parte? Magari è tutto vero, ma non certo perché lo dice un ufficio il cui lavoro è far fare bella figura all’esercito di Israele. Qual è il risultato in Italia? Tutti i partiti sullo stesso palco a sostenere Israele. Sia quelli che fino a poco fa se l’intendevano con la peggiore destra estrema, sia quelli che vorrebbero proteggere tutti i profughi del mondo tranne, a quanto pare, quei milioni di palestinesi che non tirano razzi ma vengono ogni giorno spogliati di quel poco che gli è rimasto.

Essendo da molti anni in questo mestiere, ho fatto anch’io le mie esperienze. Nel 2003 collaboravo con un grande quotidiano nazionale. Venne l’ora dell’invasione anglo-americana dell’Iraq e il mio scetticismo era palese. Non mi fecero più scrivere una riga, affidando tutti i commenti a un fervido sostenitore di quell’impresa. Scrivevo comunque per Famiglia Cristiana e andavo su e giù con l’Iraq, e piovevano insulti (“cattocomunisti”, per dire, ma anche “pacifisti”), anche da altri giornali. Sappiamo bene com’è andata, che cosa quella guerra imperialista, basata su prove false, ha provocato. Ma allora tutti dovevano dire che invadere l’Iraq era cosa buona e giusta, che Saddam nascondeva armi di distruzione di massa, che dopo quella guerra (l’ultima, promesso!) avremmo avuto la fine del terrorismo, la pace in Medio Oriente e il petrolio quasi gratis. La gran parte di quei tutti è ancora lì fuori, a spiegare come va il mondo e che cosa si dovrebbe fare per farlo andare meglio. E a incitarci a lottare contro le fake news.

E a proposito di Iraq e guerre. Quando Joe Biden ha definito Putin “assassino” (per meglio dire: ha assentito quando l’intervistatore gli ha proposto tale definizione per il Presidente russo), un grido di giubilo ha percorso i nostri media. Ecco qualcuno che parla chiaro, Cremlino beccati questa. Domanda: se Putin è un assassino (possibile, per carità), George Bush e Tony Blair che invasero l’Iraq fingendo di avere le prove sulle armi di distruzione di massa, e che furono quindi in prima persona responsabili non solo di una guerra ma delle innumerevoli stragi venute nel caos successivo (diciamo, a spanne, qualche centinaio di migliaia di morti), che cosa sono? Qualcuno ci pensa? Qualcuno ha il coraggio di dirlo? Chi scrive no, ma chi legge sì.

Altro esempio personale: poco tempo fa, scopro che un libro pubblicato negli Usa mi considera un seguace di Aleksandr Dugin, filosofo, politologo, per un certo periodo considerato ispiratore di Putin, teorico del sovranismo, inventore del cosiddetto “eurasismo”. Il tutto, pare, perché ogni tanto critico la Ue e la Nato. E allora? Non si può? Bisogna essere venduti al nemico per farlo? Interessa a qualcuno che io non abbia mai letto una riga di Dugin, che l’abbia visto una sola volta in vita mia durante un dibattito online e che consideri l’eurasismo una mezza baggianata? Certo che no. Perché l’accusa è ridicola ma contribuisce a compilare le piccole liste di proscrizione che servono agli addetti ai lavori, ai quali non dà fastidio ciò che dici ma che tu dica una qualunque cosa che non rientri nel flusso generale, che increspi la corrente. Cosa che si capisce solo in un caso: sei venduto al nemico. Non a caso si moltiplicano, in Italia, gli esempi di giornali e di siti che vendono quattro copie o raccolgono quattro click ma sono super-rappresentati nelle trasmissioni radio o Tv, o super-citati da altri giornali e altri siti. Non servono a “parlare” ai lettori o agli utenti (che infatti si dirigono sempre più massicciamente verso le sponde alternative, anche farlocche, offerte dalla Rete) ma a occupare gli spazi, a piantare bandierine, ad alzare staccionate. Sono pagati per quello.

In questo sistema, per logica conseguenza, non conta nulla ciò che uno pensa o scrive, il fatto o il dato che propone. Conta solo con chi stai. Sei dei nostri (i belli, buoni, civili) o dei loro, quelli brutti sporchi e cattivi? Il paradosso sta nel fatto che il mondo russo e quello occidentale sono diventati quasi perfettamente analoghi. A Mosca l’informazione ufficiale (perché ne esiste anche una molto vivace e neutra, per dir così, oltre che una apertamente critica) parla di continuo del tentativo dell’Occidente di infiltrare il Paese, corroderne i valori, minacciarne la stabilità, di provocare disordini. In Occidente anche, solo al contrario: qualunque cosa succeda è frutto di un perfido piano di Mosca che vuole infiltrare i nostri Paesi (di volta in volta gli Usa, la Ue, la Nato…), corrodere i nostri valori, minacciare la stabilità delle nostre economie, destare sfiducia e scoramento. E infatti. Di là c’è Margarita Simonyan, direttrice di Russia Today, che invoca il controllo statale su Internet perché “non si può proibire questo e quello nella vita reale, per garantire l’ordine e la sicurezza della società, e poi concepire uno spazio come Internet del tutto libero, cioè abbandonato all’anarchia”. E di qua c’è un’omologazione evidente, che non sarà frutto di una pressione dall’alto ma che si rafforza di giorno in giorno, stretta dagli intrecci tra economia e politica. Un ottimo risultato per un sistema cultural-informativo, il nostro, che si descrive libero, disinibito, vario, astuto e ormai smagato rispetto alle fake news. E in cui, in realtà, puoi scrivere qualunque fake purché tu sia nella compagnia “giusta”.

Nato nel 1957, è giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 è stato vice-direttore del settimanale “Famiglia Cristiana”, di cui nel 2010 ha varato l’edizione on-line del giornale. A lungo corrispondente da Mosca, ha seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l’Afghanistan, l’Iraq e i temi del Medio Oriente. Ha pubblicato i seguenti libri: “Bye Bye Baghdad” (Fratelli Frilli Editori, 2003) e “La Russia è tornata” (Boroli Editore, 2005), “I cristiani e il Medio Oriente” (Edizioni San Paolo, 2008), “Il patto con il diavolo” (Rizzoli, 2016).

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