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L’Asia centrale spegne i conflitti con il regionalismo

Asia centrale

L’Asia centrale spegne i conflitti con il regionalismo

Il recente conflitto tra Tagikistan e Kirghizistan ha segnato, pur nella sua brevità, un’importante cesura nella storia dell’Asia centrale. Dal 1991 ad oggi non era mai capitato che vi fosse un vero e proprio conflitto armato tra due Stati della regione. Neanche durante la guerra civile tagica. Quello del fiume Isfara rappresenta, dunque, un campanello d’allarme per i due –stan maggiormente interessati allo sviluppo del regionalismo centro-asiatico, Uzbekistan e Kazakistan. Vi è poi un grande assente, rimasto ai margini della vicenda nonostante possedesse tutti gli strumenti per porre fine al conflitto immediatamente: la Russia.

Una regione contesa

Fin dall’indipendenza delle cinque repubbliche, Tagikistan, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan hanno incontrato delle serie difficoltà allo sviluppo di relazioni interstatali amichevoli. Anni di Unione Sovietica hanno lasciato una molteplicità di situazioni irrisolte che hanno condizionato per decenni la geopolitica centro-asiatica. Da un lato vi è stata una propensione alla chiusura verso gli altri Stati, come in Turkmenistan e Uzbekistan, mentre dall’altro lato vi è stato un tentativo di cercare maggiore stabilità attraverso l’appoggio di attori esterni alla regione. Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan hanno guardato con favore alla volontà della Russia e della Cina di porsi come pilastri della sicurezza regionale.

Questo ha condotto alla creazione di numerose strutture con il compito di perseguire una maggiore integrazione in Eurasia, sia dal punto di vista economico sia sul piano della sicurezza. L’Unione Economica Eurasiatica, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettivo sono solo alcune delle organizzazioni poste in essere per ottenere una maggiore integrazione. In questo contesto la Cina ha prediletto una collaborazione soprattutto in ambito economico e commerciale, mentre la Russia si è occupata prevalentemente di sicurezza e stabilità regionale. Nel corso degli anni sono emersi, tuttavia, alcuni elementi di criticità di questo schema.

L’assetto regionale che si stava creando rispecchiava un approccio prettamente eterodiretto, deciso cioè a Mosca e Pechino senza tenere adeguatamente in considerazione le peculiarità e le necessità degli Stati della regione centro-asiatica. L’interessamento all’Asia centrale è stato necessario nell’ottica di controbilanciamento tra iniziative russe e cinesi in Eurasia. La dimostrazione pratica viene, ad esempio, dal fallimento dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai nel diventare un progetto geoeconomico di per sé, come la Cina avrebbe voluto. Il netto rifiuto da parte russa, legato a meri calcoli di potenza e di perdita d’influenza sulle economie regionali, ha portato allo sviluppo delle Vie della Seta quale approccio alternativo e non mediato verso una maggiore interconnessione economica tra il Dragone e gli -stan.

Evoluzione dell’Asia centrale negli ultimi anni

In questo modello di cooperazione, prevalente fino a pochi anni fa, vi erano due attori posti ai margini della scena regionale: l’Uzbekistan di Islam Karimov ed il Turkmenistan con la sua politica di neutralità permanente. Rinchiusi nei propri confini, gelosi della propria indipendenza e contrari a qualsiasi influenza esterna, per anni è stato difficile instaurare un dialogo con questi due Stati.

L’Uzbekistan di Karimov, in particolare, ha fatto di tutto per essere un soggetto geopolitico autonomo. Conscio dell’influenza che la geopolitica aveva donato al proprio Paese, posto nel mezzo dell’Asia centrale, fertile e popoloso, Karimov ha impedito con le sue politiche l’emergere di un vero e proprio blocco regionale. Tale scelta era stata condotta soprattutto perché Tashkent temeva che un’apertura ai propri vicini avrebbe significato, di riflesso, un’apertura anche verso Mosca. Ciò avrebbe comportato per lo Stato una conseguente perdita di autonomia di manovra.

Con l’elezione di Shavkat Mirziyoyev nel 2016 alla guida del Paese, tuttavia, si è avviata una stagione nuova a Tashkent. La transizione democratica condotta dal nuovo presidente ha riformato fortemente il Paese e lo ha aperto verso il mondo esterno. Segnatamente, lo ha aperto verso gli altri Stati centro-asiatici, con i quali ha intrapreso una serie di contatti tesi alla risoluzione di tutte le questioni pendenti dell’era Karimov. In questo clima di distensione, seppur in parte, si è accodato anche il Turkmenistan con dei timidi passi in avanti verso un maggior coinvolgimento nelle dinamiche regionali.

Obiettivo dell’Uzbekistan è quello di creare un blocco regionale in grado di porsi sulla scena internazionale come un attore indipendente, coerente al proprio interno nelle politiche dei singoli Stati centro-asiatici. In questo Tashkent ha trovato una sponda nel Kazakistan dell’energico presidente Nazarbayev, prima, e del nuovo presidente Tokaev, poi. La sinergia kazako-uzbeca, che avvicina sempre più le due maggiori economie regionali e che vede un rapporto di complementarità tra queste, sta guidando l’Asia centrale verso una strada di maggiore integrazione.

Il ridimensionamento di Mosca

Questo processo presuppone una spinta interna verso il rafforzamento degli Stati centro-asiatici e una riduzione delle influenze esterne. Sul piano del consolidamento interno, ad oggi solamente il Kirghizistan vive una situazione endemica di instabilità, soprattutto a causa della corruzione della propria classe dirigente. Gli altri quattro Stati vivono, invece, una situazione di stabilità che consente loro di attirare investimenti dall’estero per potenziare le rispettive economie.

La Cina, l’Unione Europea, la Turchia e gli Stati Uniti sono entrati nella regione per investire e per evitare che la Russia mantenesse il controllo sui ricchi giacimenti del Mar Caspio. Nel caso di Cina e Turchia, inoltre, vi è anche un elemento in più, ovvero il tentativo di estendere le rispettive sfere d’influenza in un territorio che nel corso dei secoli hanno considerato il proprio cortile di casa e che solo dall’Ottocento è entrato nell’orbita russa.

Ad oggi la politica multivettoriale kazaka e la politica di autonomia strategica uzbeca stanno portando questi due Stati, leader indiscussi della regione, a cercare di dialogare con tutti gli attori maggiormente interessati all’Asia centrale senza esporsi oltremodo verso di essi. Internamente alla regione, invece, si stanno affermando come arbitri delle principali controversie come accaduto nel caso dello scontro tagico-kirghiso del mese scorso. In tale frangente, un ruolo di primo piano nella mediazione tra le parti è stato assunto da Tashkent, sebbene contatti siano arrivati anche da Nursultan e Ašgabat.

La Russia emerge, dunque, come attore da ridimensionare necessariamente per non restarne schiacciati. Nonostante Mosca disponga di forze significative in Asia centrale e rimanga la maggiore garante della sicurezza di questi Stati, vi è una tendenza a ridurre la dipendenza da un singolo attore esterno tramite contatti con altre potenze regionali. Questo è emerso anche dalla relativa passività dei russi nel corso del recente conflitto del fiume Isfara, sebbene in Tagikistan fosse stanziata la 201ª Divisione e Mosca avesse il potere di bloccare il flusso di rimesse degli immigrati kirghisi e tagichi per fare pressione sui due governi. Da Mosca sono arrivate proposte di mediazione, ma il Cremlino ha evitato accuratamente di entrare in maniera attiva nella vicenda.

Stati che vogliono reggersi sulle proprie gambe

La celerità con cui si è agito per spegnere il conflitto fa comprendere quanto i cinque Stati centro-asiatici valutino prezioso il clima di distensione che si è creato tra di essi. Questa situazione sta favorendo maggiori investimenti e nuove possibilità di rilancio di una regione che punta ad essere l’anello di collegamento tra la Cina e l’Europa e che sta contemporaneamente guardando all’Oceano Indiano.

La diversificazione dei rapporti con tutte le principali potenze consente all’Asia centrale da un lato di perseguire una politica multivettoriale e di dialogo con più parti, mentre dall’altra ne preserva, e in un certo senso recupera, l’autonomia strategica. Un eccessiva dipendenza dalla Russia in tema di sicurezza ed energia sta venendo lentamente ridotta, mentre dalla Turchia arriva una sponda che evita una deriva troppo orientalista e filo-cinese delle cinque repubbliche.

Tutte queste politiche sono funzionali al raggiungimento di un vero regionalismo, che potrà esistere solo se a deciderne gli obiettivi e le linee programmatiche saranno gli Stati dell’Asia centrale. Né Mosca, né Pechino, né nessun altro.

Laureato magistrale in Studi Internazionali all’Università “L’Orientale” di Napoli con una tesi sull’idroegemonia nel bacino del Syr Darya. Attualmente iscritto al Master di I livello in Sviluppo sostenibile, Geopolitica delle risorse e Studi artici presso la SIOI. Ha studiato e lavorato in Germania grazie alla vittoria di due borse Erasmus, che lo hanno portato prima a studiare a Friburgo in Brisgovia e poi a svolgere un tirocinio presso la Camera di Commercio Italiana per la Germania. Appassionato di Asia centrale ed energia, collabora con alcuni think tank come analista geopolitico.

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