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Reaganomics, anatomia di una (contro)rivoluzione

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Reaganomics, anatomia di una (contro)rivoluzione

Torna sulle colonne dell’Osservatorio l’analista Giacomo Gabellini, che ci parla delle radici storiche e politiche della Reaganomics. Scopriamo come le politiche economiche dell’amministrazione Reagan abbiano contribuito a plasmare il sistema neoliberista e a creare numerose delle contraddizioni interne al sistema statunitense che oggi si fanno sentire con forza.

Il saggio è disponibile anche su Academia.edu.

Verso la fine degli anni ‘70, gli Usa versavano in notevoli e conclamate difficoltà. La passività delle amministrazioni Ford e Carter di fronte alla costante svalutazione del dollaro innescata dal ripudio unilaterale degli accordi di Bretton Woods decretato da Nixon (15 agosto 1971) aveva ridato fiato alle grandi aziende manifatturiere messe in difficoltà dalla sempre più agguerrita concorrenza tedesca e giapponese (nei settori dell’automobile e dell’acciaio, soprattutto), ma la ripresa dell’export si rivelava appena sufficiente a mitigare la dinamica del deficit statunitense e non certo a invertire la tendenza di base. Parallelamente, la decisione del governo rivoluzionario iraniano di tagliare drasticamente l’output petrolifero assunta in perfetta concomitanza con il ridimensionamento delle scorte da parte delle cosiddette “sette sorelle” determinava un crollo verticale dell’offerta petrolifera foriero di radicali sconvolgimenti nel mercato internazionale degli idrocarburi, che vide il prezzo del petrolio schizzare da 14 a oltre 40 dollari per barile nell’arco di poche settimane. Le interminabili code di automobili che vennero a formarsi presso gran parte delle stazioni di rifornimento statunitensi concorsero a diffondere panico e insicurezza in tutto il Paese, così come le dichiarazioni rese dinnanzi al Congresso dal segretario all’Energia James R. Schlesinger secondo cui l’impatto della crisi iraniana sul mercato petrolifero era da considerarsi come «prospetticamente più grave»[1] rispetto a quello generato dallo shock del 1973, quando l’Opec aveva imposto l’embargo ai Paesi occidentali sull’onda della Guerra dello Yom Kippur. La conferma di ciò la si era avuta nel settembre del 1978, quando il trend declinante del dollaro aveva subito un’accelerata improvvisa in conseguenza del diffondersi della notizia relativa alla imminente liquidazione di decine di miliardi di dollari di Treasury Bond da parte dell’Arabia Saudita. Ad appena un anno e mezzo di distanza, la quotazione dell’oro arrivò a sfondare la soglia critica degli 875 dollari per oncia inducendo «Businessweek» ad affermare con convinzione che i timori degli arabi nei confronti dei contraccolpi della rivoluzione khomeinista avrebbero alimentato ulteriormente le pressioni al rialzo sul prezzo del petrolio[2]. «Il cuore del problema – rileva Michael Moffitt – era che per la seconda volta in un anno le grandi imprese, le Banche Centrali e altri investitori […] avevano cessato di accettare i dollari come valuta universale […]. Divenne ovvio che un crollo del dollaro rappresentava un’eventualità estremamente concreta che avrebbe forse portato a una crisi finanziaria e a pressioni verso la rimonetizzazione dell’oro, cosa che gli Stati Uniti avevano tenacemente osteggiato per oltre un decennio»[3], in quanto «una quotazione sufficientemente elevata del dollaro costituisce le base fondamentale per sostenere il castello di carte»[4].

Dal “Volcker shock” all’ascesa di Reagan

La crisi del dollaro sembrava quindi imminente, e minacciava sia di scardinare l’intera struttura creditizia statunitense che di disarticolare le reti mondiali di accumulazione su cui si fondavano la ricchezza e il potere degli Usa. Cosa che indusse il governatore della Federal Reserve Paul Volcker ad assestare un colpo mortale alla struttura salariale e welfaristica garantita dalle istituzioni sociali rooseveltiane attraverso un innalzamento del tasso di interesse dal 6 al 20% nell’arco di qualche settimana. Pochi mesi dopo (marzo 1980), il presidente Carter promulgò il Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act (Didmca), una norma che rimuoveva i vincoli atti a disciplinare le fusioni bancarie ed eliminava gradualmente i massimali legali sui tassi di interesse che le banche potevano addebitare ai clienti ai sensi dalla cosiddetta Regolation-Q. La legge, istituita nel corpo del Glass-Steagall Act del 1933, negava alle casse di risparmio la possibilità di pagare interessi sui depositi a vista con lo scopo di incentivare i depositi a lungo termine, ai quali si sarebbe potuto attingere per fornire credito ipotecario alle famiglie intenzionate ad acquistare un’abitazione. Le banche d’investimento potevano aggirare la Regulation-Q convogliando i depositi nei fondi di mercato, più rischiosi ma allo stesso tempo più remunerativi. L’abolizione della normativa, sostenevano i promotori del Didmca, avrebbe posto fine al regime legislativo fortemente discriminatorio nei confronti delle casse di risparmio permettendo loro di recuperare parte della loro attrattività. Come risultato, invece, le casse di risparmio furono inserite “di forza” nel circuito del Federal Reserve System e costrette così ad allinearsi all’innalzamento dei tassi imposto da Volcker. Furono proprio gli effetti della “cura Volcker” a delegittimare, di concerto con l’abile strumentalizzazione della “crisi degli ostaggi” in Iran da parte dei repubblicani, l’intera amministrazione Carter spalancando le porte della Casa Bianca al potere dell’ex attore Ronald Reagan.

Gli elevati livelli di remunerazione garantiti dal credit cruch di Volcker sulla scia dell’esperimento thacheriano ebbero l’effetto di richiamare e canalizzare verso Wall Street gigantesche quantità di capitali da tutto il mondo, incoraggiando una fortissima rivalutazione del dollaro rispetto allo yen, al marco e a tutta una serie di valute di primo livello. Ne scaturì una furiosa competizione generalizzata che vide decine di Paesi innalzare a loro volta i tassi di interesse per cercare di frenare il deflusso di denaro verso gli Usa, che in quel frangente erano sottoposti alla deregulation reaganiana. Il trend deflazionista originato da questo immane gioco al massacro incrementò il peso reale dei debiti dei Paesi in via di sviluppo che avevano contratto prestiti a tassi di interesse fluttuanti o indicizzati al Libor (che dopo il rialzo dei tassi della Fed aumentò del 300%) dalle banche coinvolte nel riciclaggio dei petrodollari. La crisi del debito dei Paesi in via di sviluppo (Messico, Argentina, Brasile, Congo, Nigeria, Jugoslavia, ecc.) fu l’inesorabile sbocco del rialzo generalizzato dei tassi di interesse, in conseguenza del quale gli investimenti pubblici a lungo termine per la costruzione di strade, ferrovie, ponti, centrali elettriche, reti fognarie, ecc. collassarono in tutto il mondo. La produzione di acciaio (che fu risucchiata nella peggior crisi dagli anni ‘30), il traffico delle navi portacontainer e qualsiasi altro indicatore dell’andamento dell’economia reale cominciò ben presto a riflettere gli effetti catastrofici della “cura Volcker“.

L’alba del sistema neoliberista

Fu a fronte di tali crescenti difficoltà segnalate dai Paesi in via di sviluppo che si materializzò la discesa in campo del Fondo Monetario Internazionale, con la sua politica di condizionamento degli interventi economici all’adozione, da parte delle nazioni assistite, di aggiustamenti strutturali ispirati alle direttive di quello che venne successivamente ribattezzato Washington consensus. Si trattava di applicare a ogni Paese assistito, a prescindere dalle sue caratteristiche specifiche, la stessa “cura economica” fondata sul taglio della spesa pubblica, sulla riduzione delle importazioni, sull’adozione di regimi fiscali disciplinati, sulla svalutazione della moneta e sull’adozione di programmi di liberalizzazione/privatizzazione. Tutto ciò che occorreva, insomma, a comprimere la domanda interna e convertire la struttura economica all’export, così da ottenere la valuta pregiata necessaria al servizio del debito. Il passo successivo consisteva nell’intavolare negoziati con le banche creditrici (quasi sempre Citicorp e Chase Manhattan Bank) per la ristrutturazione del debito e l’elaborazione di piani di rientro dallo stesso. Le trattative culminavano regolarmente con una sensibile riduzione del debito che i Paesi assistiti da Fmi avevano contratto con le banche, ma queste ultime, come contropartita, ottenevano il diritto di capitalizzare gli interessi, cioè di imporre interessi sugli interessi attraverso la somma di questi ultimi al capitale nominale sul quale erano stati calcolati. Il risultato di tutta questa “giostra” – frutto in primis delle teorizzazioni dell’economista Irving Friedman – fu l’incremento esponenziale del debito con le banche da parte delle nazioni che si erano avvalse della “cura economica” del Fondo Monetario Internazionale. La prestigiosa Swiss Reinsurance Company ha stimato che il debito estero complessivo (e quindi sia a breve che lungo termine) dei Paesi in via di sviluppo sia passato da 839 a oltre 1.300 miliardi di dollari tra il 1982 e il 1987. Nell’arco di pochi mesi, i banchieri europei e giapponesi coinvolti nei prestiti ai Paesi in via di sviluppo si inserirono nel solco tracciato dai loro colleghi di Wall Street come concordato in occasione di un incontro a porte chiuse che si era tenuto nel 1982 a Ditchley Park (in Inghilterra), “istituzionalizzando” così la dottrina della shock economy come modus operandi da adottare per fronteggiare le crisi economiche dei Paesi in via di sviluppo.

La somministrazione generalizzata delle terapie d’urto del Fmi innescò un’inversione dei flussi di capitale che tra il 1980 e il 1986 trasferì dalla periferia (composta da un gruppo di 109 Paesi debitori) al cuore finanziario del sistema qualcosa come 658 miliardi di dollari di interessi su un debito originario di 430 miliardi di dollari. Ma il peggio doveva ancora arrivare per i debitori, visto e considerato che nel 1986 le banche della “triade capitalistica” vantavano ancora verso di loro crediti per 882 miliardi di dollari. Il terribile circolo vizioso del debito non faceva quindi che approfondire il dissesto economico dei Paesi in via di sviluppo, ai quali non rimaneva che rinunciare alla propria sovranità sull’economia nazionale e sulle fonti di materie prime locali per strappare condizioni di rientro dal debito meno soffocanti. Il debito, della cui restituzione si sarebbe occupato il Fmi e in  qualità di “gendarme finanziario” internazionale al servizio degli Usa, diveniva quindi uno strumento di controllo neocoloniale ad uso e consumo delle grandi banche statunitensi, che proprio su di esso avevano fatto leva nel primo dopoguerra per assumere le redini dell’economia tedesca (piani Dawes e Young). Secondo uno studio condotto dall’economista danese Hans K. Rasmussen, il 43% del finanziamento dei giganteschi deficit statunitensi – i più consistenti della storia, in tempo di pace – era garantito proprio dal massiccio afflusso negli Usa (stimato in circa 400 miliardi di dollari) dei capitali in uscita dai Paesi del terzo mondo[5].

Le strategie della Reaganomics

Una quota praticamente irrisoria di questo imponente flusso di denaro in entrata fu destinata ad investimenti pubblici per l’ammodernamento, la riparazione e la ricostruzione ex novo delle fondamentali infrastrutture (strade, ponti, ferrovie, ecc.) del Paese condannate all’obsolescenza da decenni di incuria mancanza di manutenzione. Una fetta assai ragguardevole dei fondi serviva infatti a finanziare i giganteschi deficit (pari a 200 miliardi di dollari nel solo 1983) e gli oneri sul debito, che per effetto della “cura Volcker” passarono da 52 a 142 miliardi di dollari tra il 1980 e il 1986 (un aumento prossimo al 300%). Il pagamento degli interessi sul debito assorbiva il 20% circa delle entrate statali, che a partire dal 1981 erano crollate drammaticamente a causa dell’introduzione di quella che si configurava come la più radicale riforma tributaria dal dopoguerra. L’Economic Recovery Tax Act conteneva infatti generosissimi sgravi fiscali su alcuni investimenti speculativi focalizzati nel settore immobiliare, nell’ambito di un abbassamento generalizzato delle tasse sui redditi e sui profitti aziendali che fece passare l’aliquota legale dell’imposta societaria dal 46 al 34%, pari a 5 punti percentuali in meno rispetto alla media Ocse. «Quell’infausta legge – nota Kevin Phillips – consentiva alle aziende che non potevano utilizzare direttamente le esorbitanti forme di ammortamento e gli enormi crediti d’imposta sugli investimenti di rivenderli ad altre aziende. La General Electric […] rivelò di aver utilizzato quel provvedimento non solo per minimizzare l’imponibile fiscale del 1981, ma anche per ottenere 110 milioni di dollari di rimborsi fiscali relativi agli esercizi precedenti. Per il periodo 1982-87, l’azienda espose un ammortamento complessivo pari all’incredibile cifra di 1.650 miliardi di dollari»[6].

Per giustificare l’entrata in vigore di una simile ricetta, l’amministrazione Reagan sdoganò la teoria del trickle down (“gocciolamento”), secondo la quale i vantaggi fiscali concessi alle fasce più abbienti sarebbero ricaduti sulla società nel suo complesso, compresi i ceti più deboli. I suoi promotori sostenevano che l’applicazione di un regime tributario più leggero avrebbe consentito alle grandi imprese di liberare risorse per gli investimenti produttivi, con conseguente creazione di quei nuovi posti di lavoro necessari ad alimentare la crescita del reddito delle famiglie e, a ricasco, dei consumi. Una soluzione, insomma, in grado di coniugare crescita economica e produttività lavorativa (come suggerito dalla curva di Laffer). In realtà, si trattava di una radicale inversione di tendenza rispetto al periodo rooseveltiano, durante il quale la tassa sul reddito era stata trasformata in «un’imposta personale progressiva di massa per finanziare la guerra e, successivamente, il cosiddetto “big government“. Quarant’anni dopo Reagan cambia rotta: abbassa drasticamente le tasse personali in modo da far impennare i consumi e, quindi, il Pil. Vuole dare una spinta immediata, è l’era dell’edonismo reaganiano»[7].

Determinante, a questo proposito, si rivelò la “retromarcia” innestata dalla Federal Reserve, che tra la metà dalla primavera e la fine del dicembre del 1982 abbassò il tasso di interesse di ben nove volte (portandolo dal 15 all’8,5%) con lo scopo ufficiale di arginare gli effetti della crisi debitoria del Messico e del fallimento di una banca dell’Oklahoma (la Penn Square Bank) fortemente esposta nei confronti dei settori petrolifero ed immobiliare. Nei fatti, il risultato della riduzione del costo del denaro fu quello di canalizzare enormi capitali verso i listini azionari del New York Stock Exchange, che presero a correre a ritmi letteralmente furibondi. Migliaia di cittadini statunitensi, incoraggiati dalla manovra correttiva della Fed e dalla detassazione reaganiana, cominciarono a prendere in prestito denaro a tassi variabili per acquistare azioni e/o dedicarsi a quello “shopping compulsivo” (case, automobili, elettrodomestici e beni di consumo di ogni genere) destinato ad assumere rapidamente caratteri patologici, nella convinzione che l’allentamento monetario sarebbe divenuto tendenziale.

A ciò concorse indubbiamente la distorsione economica provocata dalla corsa inarrestabile dei listini azionari. Gli investitori istituzionali (fondi pensione, fondi d’investimenti, ecc.), abituati a tassi di profitto annui estremamente elevati dal boom di Wall Street, cominciarono a pretendere remunerazioni sempre più consistenti dalle aziende in cui investivano. L’obiettivo poteva essere raggiunto dalle imprese hi-tech, società generalmente piccole e intrinsecamente esposte ad un alto rischio di fallimento perché le merci prima inesistenti che producono non sono necessariamente destinate a trovare adeguati spazi di mercato. In tal caso, il rischio legittima gli alti livelli di remunerazione degli investimenti. Le società mature, di dimensioni ben maggiori e quindi a rischio zero, non hanno invece la possibilità materiale di assicurare elevati margini di redditività perché operanti in settori di mercato (automobili, elettrodomestici, ecc.) saturi o semi-saturi. Per esaudire le esorbitanti pretese dei grandi investitori istituzionali, le imprese della cosiddetta Old Economy – negli anni ‘80, General Electric traeva molti più utili dalle speculazioni valutarie e azionarie che non dalla produzione negli Stati Uniti – iniziarono a privilegiare le attività condotte dalle loro divisioni finanziarie (in grado di assicurare un maggiore e più rapido ritorno sugli investimenti) a scapito dei settori legati alla produzione reale. Il fenomeno nacque a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60 grazie alle intuizioni di Ford e General Motors. La divisione finanziaria di quest’ultima, denominata General Motors Acceptance Corporation (Gmac),

«offre da decenni una gamma di servizi finanziari rispetto ai quali i tradizionali piani di finanziamento rivolti ai consumatori appaiono affatto marginali. Si va dalle polizze assicurative per qualsiasi marca di autovetture ai mutui ipotecari per l’acquisto della prima o della seconda casa; dalla proposta di numerosi tipi di fondi d’investimento, tutti targati Gmac, ai servizi finanziari rivolti a imprese industriali, grande distribuzione commercianti e ogni sorta di società di servizi. In effetti la Gmac opera precisamente come una banca, e alla metà degli anni 2000 generava circa l’80% del reddito lordo di General Motors, mentre impiegava parecchio un personale parecchie volte inferiore a quello addetto alle attività manifatturiere […]. Nata dall’industria, la finanziarizzazione delle imprese che si suole definire non finanziarie ha successivamente investito quasi tutti i settori della produzione di beni, dalla generazione e trasporto di energia all’informatica, dall’industria alimentare all’aerospaziale. Anche il terziario ne è stato pesantemente investito, a cominciare dalla grande distribuzione»[8].

L’altro all’escamotage a cui le imprese manifatturiere hanno atto ricorso per mantenere elevata la propria redditività è quello dell’”obsolescenza programmata”, consistente nello sfornare prodotti concepiti con lo scopo specifico di guastarsi o “passare di moda” entro breve per poter essere rapidamente rimpiazzati. Questo processo di sostituzione continua di merci si è indubbiamente rivelato utile a soddisfare l’ingordigia di un azionariato sempre più esigente, ma ha anche concorso ad alimentare la spirale del debito privato; secondo uno studio della Federal Reserve nel 1986, il 55% delle famiglie statunitensi erano debitrici nette.

La Reaganomics e l’esplosione del debito

La crescita economica trainata da questa orgia speculativa e consumistica non fu tuttavia in grado di assicurare al governo le entrate fiscali sufficienti a compensare i tagli delle tasse imposti nell’ambito della Reaganomics. Lo suggerisce l’astronomica crescita del debito pubblico (che aumentò del 186%, pari a 1,86 trilioni di dollari) verificatasi sotto l’amministrazione Reagan, a cui concorse però anche l’incredibile incremento delle spese per la difesa (456,5 miliardi di dollari nel solo 1987), con contestuale assegnazione di ricchissime commesse al complesso militar-industriale. Tra di esse spiccano quelle relative alla realizzazione della celeberrima Strategic Defense Initiative (Sdi), l’ambiziosissimo programma di riarmo che, benché mai approdato nemmeno lontanamente alla fase realizzativa, ebbe comunque la funzione cruciale di innescare un poderoso sforzo finanziario ed organizzativo in grado di garantire la massima valorizzazione delle potenzialità statunitensi nei campi di ricerca e sviluppo. «Investendo su un vantaggio relativo dell’America nell’alta tecnologia – dichiarò il generale Robert MacFarlane, consigliere per la Sicurezza Nazionale di Reagan – saremmo stati più competitivi che negli ultimi quarant’anni»[9]. Segno inequivocabile che, a dispetto di quanto affermato nei documenti ufficiali statunitensi che riservano all’alta tecnologia un’attenzione marginale e comunque limitata ad alcuni aspetti specifici (concorrenza giapponese e bilancia commerciale in primis), il programma di difesa spaziale perseguiva obiettivi fondamentali di natura sia militare che economica, proponendosi allo stesso tempo di precludere all’arrancante Unione Sovietica, afflitta da una miriade di problemi strutturali e impantanata nel conflitto afghano, la possibilità di continuare a reggere la competizione militare attraverso il mero incremento degli stanziamenti a beneficio del solo settore militare.

Nel nuovo contesto, infatti, un eventuale incremento delle spese militari da parte di Washington avrebbe costretto Mosca ad incrementare ulteriormente gli stanziamenti necessari al potenziamento dell’arsenale bellico sottraendo attrezzature (quali macchine utensili e per la lavorazione dei metalli) e fondi a tutti gli altri settori produttivi, con conseguente accentuazione degli squilibri di fondo che azzoppavano il sistema produttivo sovietico. A detta di gran parte degli economisti (non solo) occidentali, l’impossibilità di conseguire una crescita del Pil in grado di stare al passo con l’aumento delle spese militari avrebbe rappresentato «un terribile problema per i dirigenti sovietici»[10] per via delle sue ovvie ripercussioni sul benessere e sulle capacità di consumo dei cittadini. La “rivoluzione negli affari militari” teorizzata dal maresciallo Nikolaij Ogarkov, volta alla trasformazione della gigantesca macchina bellica sovietica in una forza agile, compatta e tecnologicamente avanzata, nasceva proprio dalla consapevolezza che la sfida posta dagli Usa richiedeva non solo investimenti quantitativamente maggiori, ma anche una radicale riconfigurazione del sistema di ridistribuzione delle risorse che puntasse al rinnovamento dell’industria civile e alla costruzione di un rapporto strettamente collaborativo tra quest’ultima e il settore militare.

Occorreva, in altre parole, predisporre un “ruolino di marcia” analogo a quello che aveva condotto gli Usa verso la rivoluzione tecnologica, decollata anzitutto, grazie al rilancio della Defense Advanced Research Project Agency (Darpa), l’agenzia fondata nel 1958 assieme alla National Aeronautics and Space Administration (Nasa) sull’onda dello shock generato dal lancio dello Sputnik. Oltre che dell’erogazione di stanziamenti per la ricerca, a partire dagli anni ‘80 la Darpa cominciò infatti ad occuparsi del sovvenzionamento delle start-up, del reperimento di finanziamenti privati e della “facilitazione” dei flussi di conoscenza tra i vari gruppi di ricerca in competizione tra loro. All’atto pratico, l’agenzia funse da canale di collegamento tra imprese e dipartimenti universitari, assolvendo allo stesso tempo ai compiti di mediazione tecnologica e imprenditoriale necessari alla commercializzazione delle nuove tecnologie che venivano messe a punto nei settori dell’informatica, delle telecomunicazioni, della biotecnologia, dei semiconduttori, ecc. dalle società hi-tech a cui il “complesso militar-industriale” incaricato della realizzazione dello “scudo spaziale” aveva subappaltato parte assai rilevante delle mansioni legate ai comparti di ricerca e sviluppo. Innovazioni caratterizzate da un’elevata intensità di capitale, che una volta convertite all’uso civile assunsero rapidamente un grado di pervasività – inteso come capacità delle innovazioni di trovare applicazione in un numero sbalorditivo di campi sconvolgendone il funzionamento e i rendimenti – tale da scompaginare il vecchio sistema di produzione fordista ad elevata intensità di manodopera riducendo drasticamente la presenza umana sia nella manifattura che nel settore di servizi. «Non si tralasciò occasione – scrive Giuseppe Guarino – che si prestasse per la stimolazione e la promozione della Information Technology per finalità militari. Ognuna delle sue fasi essenziali, con successiva trasformazione e utilizzazione dei prodotti a fini commerciali, è stata in pratica resa possibile dal sostegno del Dipartimento della Difesa, dalla Nasa e degli altri dipartimenti militari, compresa la Cia […]. Il merito dell’intervento pubblico non è di aver assorbito l’intera produzione della Information Technology, ma di aver contribuito in maniera determinante con i propri acquisti iniziali a far scendere i prezzi a livelli che avrebbero consentito la diffusione civile e commerciale delle innovazioni, nonché con quelli successivi che hanno favorito l’utilizzazione delle nuove tecnologie nell’organizzazione pubblica, anche civile, e la diffusione delle stesse»[11].

La progressiva affermazione del nuovo modello in tutti i comparti dell’economia accelerò il processo di “terziarizzazione” dell’economia Usa, culminato con il deciso incremento della quota di Pil e della stessa occupazione complessiva ascrivibile al settore dei servizi associato ad un rapido e speculare arretramento di tutte le attività connesse a industria e agricoltura. Di fatto,

«al cambiamento delle strategie industriali introdotte dalla globalizzazione negli anni ‘70 – il passaggio dall’era fordista a quella post-industriale – fece seguito un’intensa ricerca negli Stati Uniti per individuare le aree di maggiore competitività da sviluppare che consentissero di mantenere un ruolo di guida nell’economia mondiale. L’attenzione si concentrò sull’innovazione tecnologica nei settori hi-tech, tirati dall’industria militare e dalla finanza, nei quali si individuarono i due strumenti necessari per avviare attività di aggressione e speculative, necessarie per dissodare le nuove praterie del consumo di lusso e della rapina dei risparmi dei cittadini nel mondo. Attività, queste, che coincidono con l’obiettivo della forte concentrazione del potere»[12].

Il comparto della finanza, in particolare, fu letteralmente stravolto dalla rivoluzione tecnologica. Al punto che, come rilevò nel 1988 l’ex amministratore delegato di Citicorp Walter Wriston sulle colonne di «Foreign Affairs», «stiamo assistendo oggi a un nuovo sistema finanziario internazionale galoppante, che differisce radicalmente dai suoi predecessori per il fatto di non esser stato costruito da politici, economisti, banchieri centrali o ministri delle finanze, né disegnato da una conferenza internazionale di alto livello. È stato costruito dalla tecnologia. Resta da chiedersi se coloro i quali hanno collegato il pianeta attraverso le telecomunicazioni e i computer si rendevano conto che stavano realizzando un mercato finanziario globale che avrebbe rimpiazzato gli accordi di Bretton Woods e, con il tempo, alterato le strutture politiche»[13].

Gli effetti globali della Reaganomics

Sotto le spinte concomitanti esercitate dalla manovra della Fed, dalla deregulation e dal colossale piano di riarmo contestuale alla Sdi, gli Usa furono quindi investiti da un vero e proprio processo di riorganizzazione socio-economica che dall’ambito strettamente nazionale si estese ben presto all’intero “campo capitalista”. Mentre il risparmio mondiale confluiva verso gli Stati Uniti in conseguenza dell’innalzamento forsennato del tasso di interesse, lo smantellamento dell’intelaiatura normativa che disciplinava l’attività di Wall Street accelerava lo spostamento dell’asse dell’economia nazionale verso il settore dei servizi e schiudeva le porte a nuove tecniche di ingegneria finanziaria capaci di trasformare provvisoriamente debiti permanenti in una notevolissima fonte di lucro per l’intero sistema bancario.

Unitamente al “disarmo” delle maggiori organizzazioni sindacali, persuase attraverso una meticolosa opera di convincimento del fatto che «un Pil in rapido aumento rappresenta la migliore garanzia contro il malcontento e la combattività operaia, che disorganizzerebbe il processo produttivo»[14], l’accesso all’indebitamento privato che questo genere di innovazioni assicurava a un bacino notevolmente allargato di cittadini agevolò il disinnesco delle tensioni sociali che avevano caratterizzato il decennio precedente e la costruzione di un consenso generalizzato attorno al “nuovo corso” reaganiano. Il quale, in nome dell’assegnazione di margini di remunerazione crescenti al capitale, condusse al sacrificio della piena occupazione e della stessa quota di distribuzione del reddito da parte dei lavoratori dipendenti, giacché «i frutti del progresso tecnico e dello sviluppo economico non sono equamente ripartiti, ma piuttosto accaparrati dalle grandi società per azioni che dominano il settore monopolistico, insieme con i professionisti, i tecnici, i colletti bianchi e taluni strati delle tute blu nell’ambito del settore monopolistico»[15]. L’occupazione del centro della scena da parte dei settori tecnologici ad alta intensità di capitali e delle relative quote di forza lavoro qualificate produsse infatti l’effetto di creare e relegare ai margini della società uno strato piuttosto nutrito e composito di “popolazione eccedente” condannata, nella migliore delle ipotesi, a sopportare salari ridotti e condizioni di lavoro peggiori.

«Il lavoratore temporaneo – spiega l’analista di Merrill Lynch Jose Rascoè il lavoratore marginale, il primo ad essere licenziato. Se la domanda resta forte, le imprese possono assumere questi lavoratori a tempo indeterminato: e se avviene, avremo davvero una ripresa trainata dalla creazione di posti di lavoro e dalla generazione di ricchezza. Ma più probabilmente, la crescita di lavoratori temporanei è il segno che i datori di lavoro stanno cominciando ad applicare i principi della contabilità alle risorse umane. Le imprese, cioè, stanno forse tramutando il lavoro da costi fisso a costo variabile. Invece di arruolare lavoratori e pagargli un salario integrale con i benefici sociali, le aziende li tengono come lavoratori temporanei e flessibili; la forza-lavoro può così essere adattata secondo i capricci della domanda. Aziende che non dispongono di pricing power [ossia non dispongono più del potere di determinare i prezzi a cui vendere le proprie merci a causa della sovrabbondanza dell’offerta rispetto alla domanda], quando in più le materie prime rincarano, che cosa possono fare per aumentare i loro margini di profitto? La risposta è ovvia. Il modo più facile di accrescere la profittabilità è ridurre il maggior costo fisso: la manodopera»[16].

La riorganizzazione dell’industria

Se sotto l’impulso dalla Sdi il complesso militar-industriale e tutte le imprese ancillari erano arrivate ad arruolare circa 600.000 lavoratori in più, l’impatto sulla manifattura civile generato dalle politiche statunitensi portate avanti negli anni ‘80 fu infatti terribile; si parla di  qualcosa come 1,6 milioni di posti di lavoro in meno, ricomparsi in larga parte in quei Paesi del Terzo Mondo caratterizzati da cambi depressi, bassa remunerazione salariale, scarse tutele lavorative e fiscalità iper-accomodante presso le quali le industrie statunitensi avevano rilocalizzato gli stabilimenti produttivi al fine di minimizzare i costi e sfuggire alle condizioni proibitive venutesi a creare in patria a causa della politica monetaria adottata dalla Fed. Il fenomeno, manifestatosi nella sua fase iniziale sotto forma di subappalto da parte della grande distribuzione, si allargò rapidamente ai settori dell’elettronica, dell’automobile, ecc. fino ad assumere dimensioni colossali. La tendenza alla burocratizzazione attraverso l’integrazione verticale che aveva contrassegnato il modello d’impresa statunitense nella seconda metà del XIX Secolo cedette così il passo a un nuovo paradigma che impose alle aziende non solo di concentrare gli sforzi sul potenziamento delle attività “centrali” (core business) e decentralizzare tutte le produzioni “periferiche” al di fuori della propria sfera organizzativa. Ma anche di consolidare la presa sui mercati e sulle risorse tecnologiche e finanziarie, oltre che di ridurre all’osso l’apporto di una manodopera da selezionare rigorosamente sulla base di criteri quali specializzazione e “flessibilità”, che i sindacati avrebbero accettato di garantire nel contesto della relazione sostanzialmente collaborativa fondata sul reciproco scambio di interessi instaurata proprio con le stesse società monopolistiche.

Traditi dalla cedevolezza delle organizzazioni sindacali e sottoposti al ricatto della delocalizzazione degli impianti produttivi o del licenziamento in tronco da parte dei dirigenti d’azienda, i lavoratori furono infatti costretti a rinunciare progressivamente agli alti salari e alle garanzie previdenziali relativamente buone di cui avevano beneficiato nei decenni precedenti. La crescente volatilità e l’estrema mobilità geografica del capitale avevano in altre parole gettato le basi per il declino dei salari e delle tutele lavorative, «nella misura in cui i lavoratori di tutto il globo vengono messi in concorrenza tra loro nell’ambito di un mercato unico del lavoro. Benché i lavoratori in Paesi caratterizzati da bassi salari possano temporaneamente beneficiare della concorrenza, l’ipermobilità del capitale produttivo e finanziario rende la minaccia della “fuga dei capitali” ovunque realistica e seducente. Il risultato è un generale declino nella capacità dei lavoratori di proteggere e sostenere i propri interessi»[17].

Dalla Reaganomics alla globalizzazione di matrice statunitense

Optando per la massima valorizzazione della posizione egemonica detenuta sulle reti globali dell’alta finanza, gli Stati Uniti tracciarono la rotta lungo la quale si sarebbero progressivamente incamminati tutti gli altri Paesi industrializzati e reflazionarono il proprio potere dominante, innescando tuttavia – per mezzo della  Reaganomics – un processo evolutivo capace di trasformare le imprese multinazionali Usa, che fino alla fine degli anni ‘70 investivano soprattutto in Europa traendo vantaggi dalla crescita economica del “vecchio continente”, in strumenti di demolizione della struttura industriale nazionale. Nel 1975, l’83% della produzione delle filiali estere delle aziende Usa era assorbita dai mercati dei Paesi ospitanti, il 4% dal mercato statunitense il 13% da Paesi terzi. Vent’anni dopo, la quota riesportata negli Stati Uniti era cresciuta al 10%, e al 18% se si prende in considerazione l’apporto delle filiali societarie Usa impiantate nei Paesi dell’America Latina. Le filiali asiatiche concorsero in maniera altrettanto corposa, sebbene non così determinante, mentre la quota riesportata da quelle disseminate in Europa rimase pressoché inalterata. Dati del genere sono sufficienti a delineare l’essenza profonda della natura specificatamente statunitense della globalizzazione, incardinata sul subappalto e sull’integrazione del ciclo produttivo dell’elettronica fino agli estremi confini dell’Asia orientale al fine di reimportare in patria a prezzi depressi. All’epoca, furono in pochi a sottolineare che «ricerca, sviluppo, design e innovazione si determinano nel Paese in cui le merci vengono fabbricate. Il crollo della manifattura implica la perdita delle conoscenze scientifiche e ingegneristiche […]. Quando un Paese delocalizza la produzione di beni di mercato, trasferisce anche i rispettivi posti di lavoro. Le abilità ingegneristiche applicate ai settori cruciali di ricerca e sviluppo si spostano assieme ai posti di lavoro. È impossibile innovare indipendentemente dal luogo in cui avviene la produzione»[18].

La perpetuazione del meccanismo “globalizzante” fu assicurata sia continuando a garantire alle “borghesie compradore” locali ampie prospettive di arricchimento che facendo un uso “razionale” e sistematico del “cappio debitorio” (specialità del Fmi e dei suoi “sicari dell’economia”[19]) come arma per scatenare, di tanto in tanto, crisi deflazionistiche in grado di mantenere elevato il livello dello sfruttamento della manodopera e della pressione salariale dei Paesi “dollarizzati” del terzo mondo.

Il Messico, ad esempio, è soggetto da un processo di industrializzazione che si protrae fin dai primi anni ‘70 ma continua a rimanere una nazione fondamentalmente povera. Il regolare accumulo di imponenti avanzi commerciali è indice dello sviluppo produttivo realizzato dal Paese nel corso degli ultimi decenni, ma ogni vantaggio acquisito in termini industriali continua ad essere costantemente vanificato dai movimenti di denaro in servizi, versamento degli interessi, assicurazioni ed altre attività finanziarie connesse al forte indebitamento nazionale che rendono la bilancia dei pagamenti messicana cronicamente deficitaria. Trattandosi di un’economia dollarizzata, il “riequilibrio” non può che realizzarsi sotto forma di svalutazione del valore della forza lavoro locale, che va a sua volta a comprimere i salari dei lavoratori statunitensi attraverso una feroce competizione al ribasso. «Visto che – come rileva lo storico francese Edouard Husson – nel segno della globalizzazione sono state abbattute tutte le barriere commerciali, i prezzi delle merci e della manodopera in Europa e in America non possono salire perché subiscono la pressione della concorrenza esercitata dalle offerte e dai salari [dei Paesi del terzo mondo]. In altre parole: la globalizzazione senza barriere commerciali è l’antidoto all’inflazione del dollaro»[20].

Il North American Free Trade Agreement (Nafta), l’accordo di libero scambio firmato nel 1992 dal presidente repubblicano George Bush senior e i suoi omologhi messicano (Carlos Salinas De Gortari) e canadese (Brian Mulroney), non fu che un escamotage per trasformare l’America settentrionale in una gigantesca “area di aggiustamento”. Visti gli eccellenti risultati prodotti dal Nafta, si è successivamente pensato di integrarvi anche i Paesi dell’America Latina così da costringere un miliardo circa di persone ad adeguarsi ai deficit statunitensi. Nel 2004, il noto commentatore William Pfaff ha richiamato l’attenzione su come questo stato di cose andasse a convalidare la “legge ferrea dei salari” formulata a cavallo tra il XVIII e il XIX Secolo dall’economista David Ricardo, uno dei più illustri profeti della globalizzazione. Secondo Ricardo, in un sistema di commercio completamente deregolamentato le paghe sarebbero declinate fino a stabilizzarsi al livello di sussistenza come effetto diretto della concorrenza esercitata da quello che Marx definì nel primo libro del Capitale “esercito industriale di riserva”. Per Pfaff, l’implementazione del “mercato globale” rappresentava la carta vincente che le grandi imprese multinazionali avevano in serbo per scardinare le tutele nei confronti del mondo del lavoro. I massimi sostenitori di questo modello sono infatti «ostili ai sindacati e ai vincoli di legge sul lavoro, adducendo il motivo che queste restrizioni, se imposte ai Paesi poveri, li priverebbero del vantaggio competitivo, che è la povertà»[21].

Anche gli stessi Stati Uniti, beninteso, sono stati costretti ad adeguarsi al nuovo modello economico imposto sotto l’amministrazione Reagan, con tutte le ripercussioni del caso. In della deindustrializzazione scatenata dalla politica reaganiana si è venuto a delineare uno scenario di devastazione economica e sociale caratterizzato da quartieri urbani semi-svuotati, aumento incontrollato della criminalità e diffusione a macchia d’olio della tossicodipendenza che ha riprodotto negli Usa condizioni non troppo dissimili da quelle materializzatesi nei Paesi in via di sviluppo. I dati dell’ufficio statistico statunitense rivelano che, tra il 1979 e il 1988, il numero di cittadini statunitensi al di sotto della soglia di povertà (corrispondente a entrate annue non superiori a 6.000 dollari) è cresciuto da 24 a 32 milioni di unità; un aumento del 30%. La politica fiscale contemplata dalla Reaganomics, in compenso, ha comportato un aumento reale del reddito del 20% più ricco della popolazione pari al 32%, mentre la peculiare combinazione tra privatizzazioni, incentivi alla libera impresa e sussidi statali ha fatto letteralmente schizzare verso l’alto il costo delle assicurazioni sanitarie, privando un numero elevatissimo di cittadini (stimato in oltre 35 milioni) della possibilità di accendere polizze. Al momento dell’insediamento di George Bush senior, la società statunitense non era mai stata così polarizzata e l’economia Usa mai così “terziarizzata”. In parallelo alla caduta in disgrazia del settore dell’acciaio e dei complessi manifatturieri di Stati a forte vocazione industriale come il Michigan – che da capitale mondiale dell’automobile divenne l’epicentro della cosiddetta “rust belt” (cintura della ruggine) – ha infatti iniziato a manifestarsi un’espansione costante delle aziende della grande distribuzione, dei colossi del junk food (cibo spazzatura) e più in generale di tutte le società erogatrici di servizi caratterizzate da contratti di lavoro precari e sottoretribuiti. Il tessuto produttivo, in altre parole, colava a picco e il mondo del lavoro arretrava mentre i detentori di Treasury Bond, le banche di Wall Street che monopolizzavano il mercato obbligazionario e il complesso militar-industriale divenivano sempre più ricchi e potenti. Lo stesso Congresso non esitò a rilevare che «la gestione della crisi del debito da parte dell’amministrazione Reagan ha premiato i settori che avevano giocato un ruolo di primo piano nel fomentare la crisi stessa e penalizzato i comparti dell’economia Usa che non avevano nulla a che fare con tutto ciò»[22]. Robert O. Anderson, il potentissimo presidente dell’Atlantic Richfield Oil Co., dichiarò invece che i responsabili di questa politica avevano «contribuito a smantellare l’industria americana in misura di gran lunga maggiore rispetto a qualsiasi altro gruppo di potere. E se ne vanno ancora in giro a rivendicare i loro “successi”. Mi ricordano il Mago di Oz»[23].


[1]     Cfr. Rattner, Steven, Officials disagree on impact, but costly disruptions seem certain, «The New York Times», 11 febbraio 1979.

[2]     Cfr. Moffitt, Michael, The world’s money. International banking from Bretton Woods to the brink of insolvency, Simon & Schuster, New York 1983, p. 178.

[3]    Ibidem, p. 196.

[4].   Roberts, Paul C., A global house of cards, Paul Craig Roberts Institute for Economic Policy, 14 novembre 2014.

[5]    Cfr. Rasmussen, Hans K., The forgotten generation. A debate book concerning children and debt crisis, Danish Unicef Committee, Copenghen 1987.

[6]    Phillips, Kevin, Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano, op. cit., p. 334.

[7]    Cfr. Gaggi, Massimo, Tremonti: «il taglio delle tasse di Trump? Una riforma del capitalismo»,  «Corriere della Sera», 7 dicembre 2017.

[8]    Cfr. Gallino, Luciano, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011, pp. 200-202.

[9]    Cfr. Usa-Russia: uno scudo per due, «La Stampa», 6 maggio 2000.

[10]   Cfr. Can Andropov control his generals?, «The Economist», 6 agosto 1983.

[11]   Guarino, Giuseppe, I soldi della guerra. Gli Stati Uniti: spesa militare, innovazione, economia globale, Mondadori, Milano 2003, pp. 67-80.

[12]   Cfr. Amoroso, Bruno, Figli di troika. Gli artefici della crisi economica, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 50, 51.

[13]   Cfr. Wriston, Walter B., Technology and sovereignty, «Foreign Affairs», dicembre 1988.

[14]   Cfr. O’Connor, James, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977, p. 184.

[15]   Ibidem, p. 187.

[16]   Cfr. The currency chain gang, «The Daily Reckoning», 12 gennaio 2004.

[17]   Cfr. Arrighi, Giovanni; Silver, Beverly J., Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Mondadori, Milano 2006, p. 12.

[18]   Roberts, Paul C., The failure of laissez-faire capitalism, Clarity Press, Atlanta (Georgia) 2013, p. 115.

[19]   Cfr. Perkins, John, Confessioni di un sicario dell’economia, Minimum Fax, Roma 2005.

[20]   Cfr. Elsässer, Jürgen, Husson: «Gold-euro gegen Us-dominanz», «Junge Welt», 20 agosto 2005.

[21]   Pfaff, William, In a shrinking worldwages seek the lowest level, «International Herald Tribune», 10 gennaio 2004.

[22]   Cfr. Us Congress Joint Economic Committee, Impact of the Latin America debt crisis on the Us economy, Washington D. C., 10 maggio 1986.

[23]   Cfr. Greidner, William, Secrets of the temple. How the Federal Reserve runs the country, Simon & Schuster, New York 1987, p. 648.

Scrittore e ricercatore indipendente di questioni economiche e geopolitiche. Ha collaborato con varie testate e scritto diversi libri, tra cui Ucraina. Una guerra per procura (Arianna Editrice, 2016), Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza (Arianna Editrice, 2017) e Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania (goWare, 2019).

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