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Piazza Fontana: una cornice storica

Piazza Fontana: una cornice storica

La necessaria premessa è che quanto segue non vuole essere un saggio breve su Piazza Fontana, ma è semplicemente la trasposizione scritta di una introduzione fatta da chi scrive per una serata dedicata al 52esimo anniversario della strage organizzata dall’ANPI sezione Bertolini di Cesano Boscone

La Strage di Piazza Fontana è stato un vero “evento”, che ha segnato l’inizio, tradizionalmente, della stagione del terrorismo nero che ha poi portato alle stragi di piazza della Loggia, del treno Italicus e della stazione di Bologna. 

Erano le 16:37 di venerdì 12 dicembre del 1969 quando un ordigno di elevata potenza deflagrava nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, scavando un cratere di oltre mezzo metro nel pavimento: 14 persone morirono sul colpo, altre due a distanza di qualche settimana. Una diciassettesima vittima sarebbe morta un anno dopo, per una polmonite aggravata dalle lesioni riportate durante l’attentato. Un gesto bieco di per sé che fu ancora più subdolo se si pensa che la Banca Nazionale dell’Agricoltura era particolarmente affollata quel giorno: innanzitutto perché pioveva e in secondo ordine perché era il giorno del mercato, quando imprenditori, coltivatori diretti e allevatori della provincia di Milano (che all’epoca comprendeva anche Lodi) si riunivano per discutere i loro affari commerciali ed attendere al compimento delle operazioni bancarie presso gli sportelli. L’ordigno fu collocato sotto un tavolo ottagonale del salone circolare: era una semplice e anonima valigetta contenente 7 chilogrammi di gelignite. Oltre alle 17 vittime si contarono 87 feriti.

Non fu però l’unico attentato dinamitardo di quel 12 dicembre, che avrebbe potuto essere un giorno più infausto di quanto già non sia stato. Una seconda bomba fu rinvenuta inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. La borsa fu recuperata ma l’ordigno, che poteva fornire preziosi elementi per l’indagine, fu fatto brillare dagli artificieri la sera stessa. Una terza bomba esplose a Roma alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collegava l’entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio; altre due esplosero a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia. I feriti a Roma furono in tutto 16. Era dunque evidente una pianificazione coordinata che assume maggior chiarezza se si guarda indietro di qualche mese.

Ora, prima di ripercorrere quel 1969 di bombe, è d’uopo fare giusto due considerazioni sulla  “Strategia della tensione”.

Non nacque in Italia né come termine, né come teoria politica. Per quanto riguarda l’aspetto teorico, il quadro di riferimento è il processo di decolonizzazione nella più ampia cornice della Guerra Fredda, che semplificava le letture degli eventi internazionali da un lato, ma che, come contropartita, le imbrigliava. In questo caso la teoria nacque in uno scritto dal titolo Notre action politique (1968) di Yves Guérin-Sérac capitano nelle guerre di Indocina e Algeria, membro della OAS (Organisation de l’armée secrèt) e direttore di Aginter Presse, agenzia stampa con sede a Lisbona, che ha funto da copertura per addestramento di “guerriglieri” -chiamiamoli così- fascisti e parafascisti, che ad esempio in Italia furono legati a “Gladio”. Diciamo che era un teoria politica ma anche tattica militare: una serie preordinata di atti terroristici e di guerriglia volti a diffondere nella popolazione uno stato di insicurezza e di paura, tali da far giustificare, richiedere, svolte politiche di stampo autoritario, dando la paternità di tali attentati alla parte avversa. Il tutto in chiave anticomunista. Nel documento, specificatamente, si auspicava la necessità di diffondere il “caos” all’interno dello Stato, nelle strutture che lo componevano, non però per abbatterlo ma per scatenare una controreazione al caos stesso. L’intento finale era una rivoluzione conservatrice e reazionaria, che potesse stabilizzare l’ordine. Dopo l’indipendenza dell’Algeria, infatti, molti membri dell’OAS, anti gollisti, ripararono nel Portogallo di Salazar, dato che anche l’Estado Novo si trovava alle prese con una travagliata decolonizzazione. Non deve stupire dunque che la partenogenesi della strategia della tensione sia sorta in ambienti francesi in Portogallo. La Francia aveva subito due gravi sconfitte in Indocina nel 1954 e in Algeria nel 1962, con una guerra non convenzionale e a cui l’esercito dell’Esagono non era preparato. Un esercito che, legato ancora ad ambienti della destra criptofascista, aveva acquisito sempre un maggior rilievo, dato il vuoto di potere dovuto all’instabilità politica della quarta repubblica e che si percepiva ancora come vincitore della Seconda Guerra Mondiale, anche se, e De Gaulle lo sapeva bene, fu trattato come tale solo per la cortesia dei tre grandi Alleati.

Per quanto riguarda il termine invece la sua origine è da rintracciare oltre manica. Su The Observer apparve un articolo del giornalista Leslie Finer, il 7 dicembre del 1969, dal titolo “Greek Premier plots Army coup in Italy”, il cosiddetto dossier Kottakis. L’articolo metteva in relazione la Grecia dei Colonnelli e l’Italia. Nella fattispecie sulla base di alcuni documenti segreti dell’MI6, sottratti all’ambasciatore greco in Italia, Finer parlava di una strategia politico-militare degli Stati Uniti d’America, spalleggiata dal regime dittatoriale dei colonnelli greci, tesa ad orientare certi governi democratici di alcune nazioni dell’area mediterranea, attraverso una serie di atti terroristici e allo scopo di favorire l’instaurazione di regimi e dittature militari. Il 14 dicembre comparve il termine “Strategy of Tension” nell’articolo, sempre su The Observer dal titolo “480 held in terrorist bombs hunt” degli inviati in Italia Neal Ascherson, Michael Davie e Frances Cairncross (con i riferimenti a Saragat, come il referente del partito americano, e con tutte e polemiche che ne seguirono). In Italia l’obiettivo sarebbe stato quello di costituire un presidenzialismo che ponesse un freno al processo di democratizzazione, di conquiste sindacali, di rivendicazioni sociali, iniziato con “l’autunno caldo”, per imprimere al paese una svolta più reazionaria, ponendo fine all’esperimento politico del “centro-sinistra”. Ovviamente una strategia del genere non era pensabile attuarla senza la collaborazione dei servizi segreti nazionali e di parte delle forze armate. Questa più che ipotesi assume maggiore consistenza se la si legge in un percorso che va dal Piano Solo del 1964, al Golpe Bianco del 1974, passando per il famoso Convegno sulla guerra rivoluzionaria del 1965 e per il Golpe Borghese del 1970

Il 1969 dunque si presentava come un anno propizio, se vogliamo, per acuire la tensione e Piazza Fontana fu il culmine di un anno denso di attentati. Piazza Fontana non nacque dal nulla ma fu preceduta da 15 attentati a partire dall’ aprile 1969.

Il tutto iniziò il 15 aprile quando fu compiuto un attentato dinamitardo nell’edificio dell’Università di Padova e precisamente nello studio del Rettore prof. Enrico Opocher. Lo studio fu danneggiato ma i locali erano deserti, poiché l’ordigno scoppiò di sera e non ci furono né vittime né feriti. Seguirono il 25 aprile due altri attentati a Milano, rispettivamente nello Stand Fiat della Fiera Campionaria e nell’Ufficio Cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni, situato nella stazione ferroviaria centrale dello Stato. Rimasero ferite 20 persone. Il 21 maggio su un armadio posto nel corridoio dell’Ufficio Personale della Procura della Repubblica di Roma fu rinvenuto un ordigno inesploso e così il 19 agosto, sempre a Roma, nel locale dei servizi del primo piano della Corte di Cassazione e il 28 ottobre a Torino al terzo piano del Palazzo di Giustizia. Milano era stata coinvolta nuovamente il 24 luglio, sempre con un ordigno inesploso sul davanzale di una finestra sita di fronte ad una stanza dell’Ufficio Istruzione del Tribunale. Tutti ordigni potenzialmente letali nell’arco di qualche metro dal punto dell’esplosione. Infine sono da menzionare gli attentati sui treni dell’8 e 9 agosto. Questi attentati consistettero nel deporre dieci ordigni all’interno di altrettanti convogli ferroviari in transito per varie parti d’Italia. Ne furono collocati nelle toilettes e negli scompartimenti (sotto i sedili o sulle reticelle portabagagli). Otto esplosero, cagionando ferite a dieci viaggiatori e danni al materiale ferroviario. Due furono rinvenuti inesplosi rispettivamente nelle stazioni di Milano Centrale e Venezia S.Lucia. Dalle indagini e dai processi che ne seguirono si evinse che ogni ordigno rappresentava una evoluzione rispetto al precedente per correggerne i difetti. Così emerse dalle risultanze peritali acquisite sia nella istruttoria del processo “Valpreda” che in quella del processo “Freda-Ventura”. Si era ormai nel 1973.

In questi attentati si trova anche la spiegazione del perché ci si diresse subito sugli anarchici, poiché essi erano stati monitorati lungo quei mesi. Oltre a ciò c’è da aggiungere che gli obiettivi del 12 dicembre, Banche e simboli dello Stato, si prestavano ad essere accostati alla pista anarchica. E in un primo momento infatti le indagini conversero sulla cosiddetta “pista anarchica”, portando a una serie di fermi in due circoli: il Circolo anarchico ponte della Ghisolfa di Milano e il Circolo 22 Marzo di Roma. Tra i fermati ci fu il ferroviere Pinelli con tutta la sua vicenda, legata alla sua morte e alle traversie che dovette affrontare il Presidente del Collegio Giudicante del Tribunale di Milano, Carlo Biotti per le indagini sul decesso del Pinelli (e naturalmente l’altrettanto tragica fine di Calabresi, assente alla morte del Pinelli ma attaccato da Lotta Continua e usato come capro espiatorio anche dallo Stato, in un certo senso). Oltre a Pinelli venne fermato Valpreda del circolo romano. A indirizzare poi gli inquirenti sulla pista anarchica contribuì il depistaggio dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Pinelli, già conosciuto per gli attentati della primavera del 1969, dopo un fermo illegale di 3 giorni morì misteriosamente il 15 dicembre, precipitando dal quarto piano della questura. Si parlò subito di suicidio, poi l’inchiesta si concluse con l’asserzione di un malore che lo fece cadere dalla finestra. il 16 dicembre venne fermato Valpreda. Il tassista Cornelio Rolandi lo identificò come l’uomo che nel pomeriggio del 12 dicembre era sceso dal suo taxi in via Santa Tecla, recando con sé una grossa valigia. Il problema fu che lo caricò in piazza Beccaria. Un Valpreda claudicante avrebbe dunque preso un taxi da piazza Beccaria a piazza Fontana per non fare 130 metri ma per farne poi 110 da Santa Tecla alla Banca, col rischio oltretutto di essere riconosciuto. Pur nella palese incongruenza della testimonianza Valpreda restò in carcere fino al 1972

Rumor, allora presidente del consiglio, si rifiutò di dichiarare lo stato di emergenza e la risposta popolare fece naufragare le ipotesi golpiste. I referenti politico-militari favorevoli alla svolta autoritaria, preoccupati per le reazioni della società civile, scaricarono all’ultimo momento i neofascisti, che fallirono anche nel successivo tentativo di eliminare Rumor nel 1973, con una bomba davanti alla Questura di Milano, era il 17 maggio

In concomitanza, dell’allontanamento dei servizi segreti e dell’apparato deviato dello Stato, dai circoli fascisti, le indagini si spostarono sui gruppi eversivi di destra legati ad Ordine Nuovo, in particolare i nomi caldi furono Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini.

Freda e Ventura, ex MSI vennero incriminati per l’organizzazione dell’attentato, facendo emergere la complicità e i tentativi di copertura di servizi deviati. In particolare, nella perquisizione della cassetta di sicurezza della madre e della zia di Ventura in una banca di Montebelluna si scoprì il ruolo del SID, nella persona dell’agente Zeta, appunto il Giannettini, che, grazie all’ ausilio dei Servizi, fuggì a Parigi, con l’aiuto del generale Maletti e del capitano La Bruna, per poi costituirsi a Buenos Aires nel 1974. Il giudice Gerardo D’Ambrosio provò a sollecitare il SID, ottenendo come risposta il segreto militare, pur emergendo lo scenario che fosse stato Giannettini a commissionare a Ventura una serie di attentati. Nel 1979 il tribunale di Catanzaro (dove l’inchiesta si era trasferita dopo che fu spostata da Roma a Milano) condannò all’ergastolo Freda, Ventura e Giannettini, tutti e tre fuggiti all’estero prima della pena; Valpreda venne assolto per la strage ma condannato a quattro anni e mezzo per associazione eversiva. Nel 1981 Freda e Ventura vennero assolti in secondo grado, ma condannati a 15 anni per gli attentati compiuti a Padova a Milano. Il tribunale confermò la condanna di Valpreda e assolse Giannettini. Nel 1982 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado sulla strage di piazza Fontana e rinviò il processo a Bari, confermando solo l’assoluzione di Giannettini; la Corte d’ Assise d’ Appello assolse per insufficienza di prove Freda, Ventura e Valpreda; la Cassazione avrebbe reso poi definitiva la sentenza nel 1987, confermando comunque la condanna di Freda e Ventura per gli attentati commessi fra la primavera e l’estate del 1969. Negli anni ’90 si aprì una nuova fase istruttoria, condotta dal giudice Guido Salvini e basata sulle testimonianze di figure legate all’eversione nera (in questo caso della sezione veneziana di Ordine Nuovo), a partire dall’ex ordinovista Carlo Digilio, il famoso “zio Otto”, l’esperto in armi e in esplosivi del gruppo veneto di Ordine Nuovo, reo confesso, che fornì l’esplosivo per la strage ed il quale anche ammise di essere stato collegato ai servizi americani. Digilio fece il nome di Delfo Zorzi (leader operativo) che gli aveva raccontato di aver piazzato personalmente la bomba nella banca. Zorzi, trasferitosi in Giappone nel 1974 grazie a un passaporto diplomatico, divenne un imprenditore di successo. Ottenne la cittadinanza giapponese che gli garantì poi l’immunità all’estradizione. Con Zorzi emersero i nomi di Carlo Maria Maggi (l’ideologo già condannato per la strage di piazza della Loggia) come organizzatore e Giancarlo Rognoni come basista. Nel 2001, la Corte d’Assise di Milano condannò all’ergastolo Zorzi, Maggi e Rognoni, stabilendo per la prima volta in maniera netta la responsabilità dell’estrema destra nella strage. La sentenza venne ribaltata in secondo grado, con l’assoluzione dei tre imputati (Zorzi e Maggi per insufficienza di prove, Rognoni per non aver commesso il fatto). Nelle sentenze risultarono confermate le responsabilità degli imputati storici di Piazza Fontana, Freda e Ventura. Essi assolti definitivamente per insufficienza di prove nel 1987, non erano più processabili. Se Freda e Ventura fossero stati giudicati con gli elementi d’indagine arrivati negli anni ‘90, quando loro non erano più processabili, sarebbero stati, come scrive la Cassazione nella sentenza del 2005 che confermava quella di secondo grado, condannati. Le indagini su Piazza Fontana si conclusero così, dopo 36 anni e 10 processi con il paradosso delle spese processuali addossate ai parenti delle vittime. Poi il governo si assunse l’onere di pagare le spese.

È importante chiarire che la strage di Piazza Fontana non è un mistero senza mandanti: fu opera della destra eversiva con la connivenza e l’appoggio di apparati deviati dello Stato. Tutte le sentenze su Piazza Fontana, anche quelle assolutorie, portano alla conclusione che fu una formazione di estrema destra, Ordine Nuovo, a organizzare gli attentati del 12 dicembre. Lo scopo era il concretarsi di quella teoria politica che si diceva più sopra. 

Di fronte a episodi così eclatanti, come fu all’epoca Piazza Fontana, una pausa di riflessione è doverosa. Esso assume, per quanto concerne la storia nazionale, il ruolo di evento fondativo e di frattura di una intera stagione politica. Sembrava non essere rappresentabile e pensabile mediante le forme comunicative dell’epoca: fu un linguaggio nuovo, pure per immagini: la sede della Banca devastata, i soccorsi, la folla silenziosa ai funerali. Per la prima volta lo Stato processava pubblicamente lo Stato, davanti al corpo sovrano, davanti ai cittadini. “Piazza Fontana”, se ripetuto in maniera inconsapevole perde il significato che si cela dietro tale terminologia. Si trattò all’epoca di qualcosa, per l’opinione pubblica almeno, di imprevedibile e scioccante che non può essere valutato solo in termini quantitativi ma necessita di un giudizio storico ponderato e qualitativo delle forze in campo in quei tempi.

Chi, di coloro che lo hanno vissuto, infatti non ricorda quel giorno? Cosa stava facendo, dove era? Il fatto che molti possano rispondere nitidamente a queste domande lo rende ancor più “evento”. A distanza di 50 anni possiamo tracciare il quadro complessivo dei fatti che l’hanno caratterizzato e delle conseguenze che esso ha avuto. Molto rimane ancora da scoprire, ma come per tutti i traumi, e lo fu non solo per le famiglie coinvolte ma per una città e un paese intero (basti pensare all’idea, nuova per quel tempo, di essere vulnerabili nella propria quotidianità), va conosciuto e raccontato, perché rivivendolo, anche negli aspetti più drammatici, più ricchi di pathos , si può metabolizzare una ferita politica che è ancora aperta. 

Laureato magistrale in Scienze Filosofiche all'Università degli Studi di Milano, è attualmente consigliere comunale nel paese di Cesano Boscone.

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