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Una superpotenza tra terra e mare. Geopolitica degli Stati Uniti

Una superpotenza tra terra e mare. Geopolitica degli Stati Uniti

Amedeo Maddaluno ci parla della geopolitica degli Stati Uniti d’America, superpotenza divisa tra terra e mare, portandoci alla scoperta del sistema di potere globale e della grande strategia di Washington.

Introduzione

Gli studiosi di geopolitica hanno senz’altro approfondito la natura messianica dell’ideologia politica americana[1], collegandone l’universalismo escatologico protestante alle prassi politiche imperialiste ma anche al pensiero dei moderni teorici americani – da Fukuyama a Huntington. L’ideologia dell’eccezionalismo americano non si esaurisce nel neoconservatorismo ma, sotto diversa forma, si esprime anche nel pensiero degli “idealisti” progressisti. Gli “idealisti” sono anzi corrente trasversale a democratici e repubblicani, così come i “realisti” – da Kissinger a Brzezisnki giungendo a Mearsheimer: nessuno di questi mette in discussione l’assunto per cui o l’America è potenza globale o non è. Pur trovando compimento nella dottrina Monroe (enunciata nel discorso al Congresso del 1823), l’origine del virulento imperialismo americano può essere ricercata anche nella prassi politica di Theodore Roosevelt (1858 – 1919, presidenza dal 1901 al 1909). E’ ormai diffusa anche la comprensione del livello geoeconomico del predominio del dollaro e del controllo sul Medio Oriente[2], nonché del contrasto all’Eurasia.

E’ interessante inserire nell’analisi della geopolitica americana e dei riflessi di questa nella strategia e nella politica estera della prima potenza economia e militare globale un ulteriore fattore: la comprensione della sua geopolitica “interna”.

Gli Stati Uniti sono un paese animato da una marcata dialettica interna, fatta di contrasti anche aspri tra le sue componenti religiose (per quanto l’un tempo disprezzato cattolicesimo americano sia ormai stato “normalizzato” o quasi[3]) ma soprattutto razziali e, prima ancora, geopolitiche. La società americana è un coacervo di contraddizioni che vengono toccate con mano vivendola dall’interno: è importante coglierle per comprendere le debolezze presenti e future dell’iperpotenza a Stelle e Strisce.

Gli Stati Uniti: dal mare alla terra, dalla terra al mare

Seguendo un percorso ideale squisitamente geopolitico, di dialettica tra dimensione talassocratica e terrestre, possiamo dividere la stessa storia americana in fasi marittime e terrestri. Le Tredici Colonie Britanniche, popolate da normali coloni in cerca di terra e fortuna nonché da esuli religiosi di sette protestanti, nascono dal mare e sul mare si affacciano, dovendo sì all’agricoltura ma soprattutto al commercio marittimo il proprio sostentamento e la propria incipiente fortuna. La dichiarazione di indipendenza arriva nel 1776 e sorge dall’indisponibilità delle colonie a sottostare all’oppressione fiscale e al monopolio commerciale della madre patria britannica.

A questa primissima fase marittima succede una fase di terraferma e di espansione continua verso l’Ovest: un’immigrazione giunta da tutto il mondo in cerca di terra ed opportunità nella “Land of the Free” segna l’animo americano con quella fusione di senso dell’avventura e di autosufficienza e individualismo noto come “spirito della frontiera”. Vengono inglobate culture europee provenienti dal Vecchio Continente ma anche già presenti in quello nuovo: la Gran Bretagna (con la quale i rapporti rimarranno tesi per tutto il XIX secolo, fino a quando questa non rivolgerà le proprie attenzioni di nuovo al Vecchio Continente e all’emergente potere tedesco) verrà sconfitta in una nuova guerra nel 1812 senza guadagni territoriali, guadagni che arriveranno dalle sconfitte in guerra della Spagna (1898) e del Messico (1846-48), dall’acquisto delle colonie francesi o spagnole e territori russi, dall’annessione di Stati Sovrani (la Repubblica del Vermont nel 1701 o quella del Texas nel 1845).

La visione degli Stati Uniti si concentra sulla conquista di terra contro le potenze coloniali europee, le tribù native (vittime di un vero e proprio genocidio) e il vicino messicano. E’ in questa fase storica che vanno ricercate le basi dell’isolazionismo americano del XIX secolo – isolazionismo rispetto agli affari europei. Per sopravvivere gli Stati Uniti devono concentrarsi sull’elisione degli avversari dal proprio territorio e dal continente americano, senza intromettersi in vicende diplomatiche esterne a questo. Una certa “mentalità dell’assedio” si salda con lo “spirito della frontiera”, temprando il carattere di un popolo bellicoso, ostinato e determinato. Popolo composto da popoli: la maggior parte degli americani bianchi discende da tedeschi ed irlandesi, seguiti da inglesi, italiani e polacchi (in ordine di incidenza). Non si può ignorare la presenza di una vasta popolazione di neri schiavi importati dal continente africano nei secoli trascorsi. Spartiacque della costruzione dell’identità e della fase geopolitica terrestre con la seconda fase marittima è appunto la Guerra Civile tra gli stati del Nord e del Sud. Due modelli politici e geopolitici, economici e sociali. Il Nord è industriale e tendenzialmente protezionista nonché tecnologicamente avanzato, mentre il Sud, assai meno popolato, è mercantile e liberoscambista, con un’economia agricola e cotoniera la cui prosperità dipende dal lavoro degli schiavi, dal libero commercio dell’oro bianco e dal controllo del fiume Mississippi. Il Nord si proietta nella realizzazione della Dottrina Monroe di dominio sul continente: il Sud, filobritannico, continua a guardare al mare e al resto del mondo. Si tratta di due visioni della politica americana confliggenti anche sul piano istituzionale: a Nord un’Unione (forte e maggiormente centralista) contrapposta ad una Confederazione del Sud di stati gelosi della propria autonomia.

La prima grande linea di frattura della geopolitica americana, quella tra Nord e Sud, si risolve con la sconfitta del secondo ma si riassume in una faglia tutt’oggi irrisolta: la frattura razziale tra bianchi e neri e tra bianchi ricchi e progressisti del nord e bianchi poveri e conservatori del sud (paradossalmente, in origine repubblicani i primi e democratici i secondi).

È completata la conquista della terra, il processo di autocostruzione di una nazione, che la strategia americana torna volgersi al mare: gli Stati Uniti riunificati si affacciano saldamente su due oceani e, sconfitta la Spagna sul finire del Secolo, guadagneranno Cuba, Porto Rico e le Filippine. La disponibilità di terra e di risorse, lo spirito di intraprendenza degli immigrati europei, la saldezza dei diritti di proprietà e l’assenza di contrasti di classe nel senso europeo – l’operaio oppresso può semplicemente scegliere di cambiare vita spostandosi ad ovest – favoriscono un formidabile accumulo di capitale che proietta gli Stati Uniti ad essere la prima potenza economica globale già nei primi decenni del XX Secolo. Se il consolidamento come primo potere militare e politico giunge con la vittoria nelle due guerre civili europee del ‘14-‘18 e del ’39-’45 che hanno come risultato l’autodistruzione del Vecchio Continente, la primazia geopolitica era in realtà già conseguita: gli Stati Uniti si possono volgere al mare e all’intervento nelle altre aree del mondo perché non hanno più rivali sul continente americano.

Le geopolitica interna dell’America contemporanea

La terza fase marittima – meglio: talassocratica – è quella che dura tutt’oggi. La geopolitica interna degli Stati Uniti che permette questo volgersi al mare è in realtà una geopolitica di tutto il continente americano, “giardino di casa” degli USA, che vi dominano con trattati commerciali[4], tramite l’installazione di governi vassalli o saldamente alleati (i regimi castrensi dell’Operazione Condor) o tramite l’intervento diretto (a Grenada o Panama).

Possiamo identificarvi tre cerchi concentrici:

  • Gli Stati Uniti propriamente detti. Se il grande contrasto tra Nord Industriale (diviso tra Midwest e costa Orientale) e Sud cotoniero (il Mississippi e i porti del Sud e dell’Est, piegati dal blocco marittimo dall’Unione) si è risolto, non si risolve quello tra le due coste, centro cosmopolita dell’economia globalizzata, della finanza (predominio del Dollaro) e dell’innovazione (predominio tecnologico) e quindi due vere punte di lancia del potere americano globale[5], e gli stati centrali agricoli e industriali, dominati da settori dell’economia più tradizionale che vede ormai minori tassi di investimento, accumulazione e crescita delle produzione e dei redditi e dove ha avuto luogo la rivolta della classe media e povera bianca (e non solo). Per la prima volta il Nord industriale e il Sud agricolo, con l’elezione di Trump, si sono saldati contro le coste[6], nella seconda grande frattura geopolitica e geoeconomica americana[7].
  • Il primo anello marittimo: sostanzialmente il Mediterraneo del Golfo del Messico, dal Yucatan alla Florida, con la salda base del Portorico ma con la spina nel fianco cubana (il cui tasso di effettiva pericolosità si è estremamente ridotto nei decenni). La piaga strategica che infesta quest’area (ma che costituisce anche il pretesto per il continuo intervento statunitense nell’area) è quella di un narcotraffico che ha trasformato interi paesi (come ad esempio l’Honduras) in stati falliti.
  • Il terzo anello marittimo e terrestre: l’America del Sud, con il cruciale canale di Panama e i paesi dell’America Latina, normalizzati dopo la stagione dei governi progressisti dal riflusso dei governi liberisti di destra neocon (dal Cile al Brasile di Bolsonaro) con la Bolivia ed il Venezuela isolati e minacciati. L’America di Trump, per mezzo del suo grande tessitore Steve Bannon, ha riaffermato che la propria sicurezza e la propria esistenza come potenza ha nel controllo del Continente il proprio piedistallo non negoziabile. La politica interna dei paesi dell’America Latina è politica interna agli USA: si pensi al rischio passato della diffusione dell’ideologia marxista e dei movimenti anticapitalisti (dalle guerriglie sino alla stagione del movimenti pacifici di Porto Alegre) o al rischio presente rappresentato dal narcotraffico in Stati travolti da una violenza senza limiti come Brasile, Colombia e soprattutto Messico con i conseguenti devastanti effetti sociali sul traffico di oppioidi e di cocaina. Geopoliticamente l’America Latina si concentra sulle proprie coste sin dall’epoca dei porti coloniali (molto più che non in entroterra di foreste impenetrabili, aridi deserti o gelidi e inospitali altipiani). E’ troppo poco per dire che alla potenza marittima basta assicurarsi il controllo dei porti: le risorse dell’America Latina, dalle acque dei fiumi, al petrolio, al rame, agli spazi agricoli, sono nel suo interno.  

Le faglie geopolitiche interne all’America

Questo brevissimo excursus mira a porre il tema della complessità interna agli Stati Uniti d’America e alle radici geopolitiche di questa. Visti – a ragione – come una potenza prevalentemente finanziaria, tecnologica e marittima (in una parola: talassocratica), gli Stati Uniti (già non esenti in passato da contrasti giunti fino al sanguinoso conflitto civile) sono attraversati da almeno due fratture interne, una di natura sociale e una, per l’appunto, di natura geopolitica:

  • L’irrisolto contrasto razziale tra bianchi e neri. I primi tendenzialmente più ricchi ed istruiti, i secondi tendenzialmente più poveri ed esposti a forme varie di emarginazione sociale. Vi si aggiunge il contrasto tra bianchi “wasp” (“white, anglo-saxon, protestant” ovverosia “bianchi, anglosassoni e protestanti”), i bianchi portatori del nucleo culturale attorno al quale è stata edificata la costruzione statunitense dal 1776 ad oggi, e i nuovi migranti, composti sì da poveri latino-americani ma anche da una borghesia cosmopolita di indiani, cinesi ed europei.
  • La faglia geoeconomica che vede da un lato le due coste fulcro dell’economia globalizzata tecnologica e finanziaria, e dall’altro la fascia centrale delle tradizionali economie agricole ed industriali, dove la vecchia classe media americana, artefice dello sviluppo votato ai consumi dei decenni passati (e spesso, ma non sempre, definibile come “wasp”) ha visto i propri redditi ristagnare nel contesto dell’economia globalizzata della quale è rimasta se non esclusa comunque ai margini, dove si concentrano sia la classe operaia bianca e nera delle aree industriali (un tempo sicuro serbatoio elettorale democratico) e per finire dove si trovano anche i bianchi poveri del sud, spregiativamente definiti “redneck” (colli rossi bruciati dal sole del Sud durante i lavori agricoli) o addirittura “white trash”, “immondizia bianca”. Questa frattura riproduce lo scontro tra città e campagna, un tempo economie interdipendenti ed oggi scisse, e tra i centri dell’economia globalizzata (votati a finanza e tecnologia) e le periferie dell’economia tradizionale industriale ed agricola[8], nelle quali sopravvivono solo poche eccellenze manifatturiere, e le aree storicamente depresse. Si tratta del medesimo fenomeno in corso in Europa[9], per quanto su scala geograficamente assai più ridotta e con in più strumenti di coesione sociale e welfare che agli USA sono ignoti (come del resto è ignoto all’Europa il patriottismo nazionalista americano, unico ma sin qui efficace legante sociale del paese).

Abbiamo proposto una visione in cui l’intera geopolitica del continente americano (Nord e Sud) è vista come geopolitica interna degli USA. Gli USA non possono perdere le Americhe, pena la perdita dell’inviolabilità terrestre. Se il Pacifico resta inattraversabile da forze ostili e l’Atlantico un saldo “lago americano”[10], urge comunque chiedersi:

  • Sino a che punto i popoli dell’America Latina desiderino appartenere ad un proconsolato americano. La recente vittoria elettorale di governi filostatunitensi sembra indicare un forte riflusso dalla stagione delle lotte antiimperialiste, ma il successo di questi governi si misurerà nel successo economico di economie deboli, a scarsa tecnologia e dominate dall’esportazione di materie prime, nonché ormai alla fine del proprio “dividendo demografico” o fortemente integrate, quando industriali, nell’economia statunitense (si pensi al Messico).
  • Sino a che punto il confine Nord possa restare silente e privo di minacce. Non pensiamo sicuramente al Canada – pur culturalmente molto diverso e segnato da uno stile di vita maggiormente “europeo” – integrato con l’economia americana, ricco di materie prime e spazio ma gelido e poco popolato, quanto all’eventualità che, con lo scioglimento dei ghiacci, l’Artico (e quindi l’Alaska) diventi oggetto di contesa (è già oggetto di attenzioni militari) con Russia e Cina.

Tendiamo a definire le sfide all’egemonia americana nel XXI secolo come completamente esterne all’area geopolitica statunitense, immaginando la prima potenza mondiale come un blocco geopolitico e sociale omogeneo: esse sono sempre considerate di natura economica o finanziaria (sfida al Dollaro[11], sfida al controllo delle materie prime delle quali pure l’America è immensa riserva), di natura militare (sfida cinese) o sì di natura geopolitica ma prettamente esterna all’area americana (sfida dell’Eurasia unita, sfida dell’Africa cinese). Apprezzarne le contraddizioni sociali e persino le faglie geopolitiche interne ci porta meglio a comprendere come le istanze che gli Stati Uniti d’America dovranno e già devono affrontare siano di natura estremamente più sfaccettata.

Conclusioni

La domanda che gli osservatori dovrebbero porsi è la seguente: quanto è in primis resiliente ed in secundis flessibile la società americana e la sua politica per assorbire e superare queste contraddizioni in un contesto globale in cui l’America non è più egemone solitario? Mentre scriviamo queste righe gli esperti finanziari temono l’addensarsi di nuove nubi di crisi sul sistema finanziario a stelle e strisce. Un triplice bolla sembra prepararsi: bolla del mercato immobiliare, bolla del debito (mutui casa e mutui studio) e potenziale crollo dei rendimenti azionari, drogati da anni di espansione monetaria dell’era Obama, tagli delle tasse dell’era Trump e conseguenti riacquisti di azioni proprie da parte delle grandi società quotate per drogarne il valore e garantire lauti compensi ai manager[12] – soldi quindi non reinvestiti in ricerca e sviluppo. Il sistema americano non ha di certo saputo curare e riassorbire l’anarchia dei mercati finanziari.

Bibliografia

  • Allison G. “Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?”. 2018, Fazi
  • Cavedagna S., Farhat A., Maddaluno A. “La Guerra Fredda non è mai finita. Geopolitica e strategia dopo il secolo americano”. GoWare, 2018
  • Khanna P. “Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale”, Fazi, 2016
  • Khanna P. “La rinascita delle città stato. Come governare il mondo al tempo della devolution” Fazi, 2017
  • Kissinger H. “Ordine Mondiale”, 2015, Mondadori
  • Maddaluno A. “Il Caos Globale. Geopolitica e strategia dopo la globalizzazione”. Aracne, 2017
  • Marshall T. “Le 10 mappe che spiegano il mondo”. Garzanti, 2017
  • Mearsheimer J. “La logica di Potenza: l’America, le guerre, il controllo del mondo”. 2008, Università Bocconi Editore
  • Stefanachi C. “America invulnerabile e insicura. La politica estera degli Stati Uniti nella stagione dell’impegno globale: una lettura geopolitica”. 2017, Vita e Pensiero
  • Stephanson A. “Destino Manifesto. L’espansionismo americano e l’impero del bene”. 2004, Feltrinelli

[1] Senza pretesa di riassumere una vastissima bibliografia in materia, citiamo i più recenti contributi del Direttore di Eurasia Claudio Mutti (https://www.eurasia-rivista.com/la-geopolitica-giallo-verde/) e di Daniele Perra (https://www.eurasia-rivista.com/messianismo-e-imperialismo/) e (https://www.eurasia-rivista.com/steve-bannon-e-la-nuova-egemonia-americana/), nonché del sottoscritto (http://www.aldogiannuli.it/probabile-declino-americano/)

[2] Sempre da fonte recente – una rivista americana via internet di difesa di orientamento progressista https://warisboring.com/theres-one-reason-america-refuses-to-hold-saudi-arabia-responsible-for-murder/

[3] Sulle ambigue ed altalenanti relazioni tra i due “imperi universali” protestante e cattolico, messianico/escatologico e (in teoria) tradizionale, si veda ad opera di M. Franco “Imperi Paralleli. Vaticano e Stati Uniti: oltre due secoli di alleanza e conflitto” 2016, Il Saggiatore.

[4] Sul nuovo trattato USMCA tra Stati Uniti, Messico e Canada si vedano i due articoli https://www.ilcaffegeopolitico.org/96772/un-nuovo-trattato-per-lamerica-del-nord-la-posizione-degli-usa e https://www.ilcaffegeopolitico.org/95863/il-trattato-usmca-posizione-del-messico

[5] Sul tema del dominio tecnologico, si veda E. Di Nolfo “Dagli Imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale dal XX secolo ad oggi”, 2013, Laterza, mentre sul tema della geopolitica dei centri finanziari, Umberto Rosati e Fabio Massimo Parenti, “Geofinanza e Geopolitica”, 2016, EGEA.

[6] Per recuperare il Sud alla vita nazionale la scelta dell’America post-guerra civile fu di industrializzarlo: in tutta l’America di oggi, compreso il Sud, convivono aree di industria manifatturiera tradizionale in crisi e aree di manifatturiero di eccellenza. Con particolare accento sulla difesa, si veda http://www.difesaonline.it/evidenza/approfondimenti/il-midwest-e-la-riserva-nazionale-dellindustria-bellica-usa per il midwest e http://www.difesaonline.it/evidenza/approfondimenti/il-sud-degli-usa-fra-tradizione-redneck-e-filiera-aerospaziale per il Sud.

[7] Studiosi come Paragh Khanna hanno persino proposto di superare il sistema degli Stati per trasformare l’America in una rete di città interconnesse (https://www.paragkhanna.com/home/2016/4/16/a-new-map-for-america). Khanna estende la visione a livello globale parlando spesso di città stato legate in rete in un futuro di scambi pacifico (riedizione dell’antico adagio sulle frontiere attraversate da merci che non sarebbero quindi attraversabili da eserciti, già smentito con la crisi ucraina). Per quanto suggestiva e di sicuro richiamo mediatico, la visione di Khanna sembra ridurre la complessità: il potere politico e militare resta saldamente nelle mani degli stati nazionali e delle entità politiche ben più che nei circuiti economici, e anche chi non vive nelle grandi città può esercitare peso politico ed elettorale – come dimostrano le ultime elezioni presidenziali americane. Khanna è un autore celebrato e interessante che pecca però di determinismo.

[8] La storia degli Stati Uniti è storia della ricerca dell’equilibrio istituzionale tra città e campagna, scegliendo per i singoli stati capitali diverse dalla città principale, ponendo la capitale federale al di fuori di tutti gli stati in un apposito distretto, assegnando i Rappresentanti in proporzione alla popolazione degli stati ma i sentori in numero eguale di due a stato.

[9] Sull’Europa, interessante analisi sul tema delle “nuove città stato” è stata proposta qui https://www.thezeppelin.org/nuovo-incastellamento-e-citta-stato/ , fatte salve le critiche già mosse prima a Khanna, è una metodologia di analisi interessante per quanto rilevi solo aspetti geoeconomici e non più squisitamente geopolitici o strategici.

[10] Almeno finché l’Europa sarà debole e divisa, quel che lei stessa sembra voglia impegnarsi ad assicurare di essere. Sta di fatto che anche il solo ipotizzare, da parte franco-tedesca, un possibile e futuribile esercito europeo, genera nei vertici americani reazioni marcatamente ostili.

[11] Sfida al Dollaro che l’America non sembra stia comunque per perdere in tempi rapidi (https://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-10-14/l-argentina-e-lezioni-mai-imparate-092054.shtml?uuid=AENGsgMG e https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-11-10/re-dollaro-perche-sfida-cina-russia-iran-e-venezuela-e-destinata-fallire-163222.shtml?uuid=AE5TjneG). Quanto alle materie prime, gli Stati Uniti dispongono di importanti riserve non solo di idrocarburi non convenzionali ma anche di terre rare (http://espresso.repubblica.it/affari/2018/03/21/news/questi-17-metalli-rari-decideranno-chi-sara-il-padrone-del-mondo-1.319822?refresh_ce)

[12] https://www.nbcnews.com/news/us-news/after-general-motors-layoffs-more-bumps-ahead-u-s-auto-n940386?fbclid=IwAR3tSnprgvW4gB8HR_XKiYuFmnxm2QajvnxaG1DA04E_Mg-Kfl_HQWTqRx0 e https://lindro.it/stati-uniti-caduta-del-nasdaq-fine-dellhi-tech/?fbclid=IwAR1MJqKhbv7PeApVbOgFg_9ix2q1oiDW-1crhAPadVX1EVxaOecQcmcu_Vc nonché fonti tecniche personalmente intervistate dall’autore

Si è laureato in Economia presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano nel 2011. Dopo un’esperienza di cooperazione in Egitto durante le elezioni parlamentari dello stesso anno, inizia a collaborare con diverse riviste di Studi internazionali («Affari Internazionali», «Eurasia», «ISAG – Geopolitica» e altre). Si occupa di storia ed economia politica nonché di strategia e affari militari con un forte focus sul mondo arabo e islamico e sullo spazio post–sovietico, sia come analista che come appassionato viaggiatore.

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